RESISTERE AL PRESENTE: LE PAROLE COME ARMI DEL FILOSOFO GUERRIERO

DI IVAN CORRADO

Schermata 2018-05-27 alle 09.18.53Ne L’alfabeto di fuoco (2018),  romanzo di Ben Marcus pubblicato pochi giorni fa, le parole uccidono. Letteralmente. L’umanità è preda di un linguaggio tossico, i cui portatori sani sono bambini e ragazzi che provocano la malattia e la morte degli adulti semplicemente parlando. Del resto, è noto come le parole, anche solo in senso metaforico, possano essere le più potenti e distruttive armi che abbiamo; già, ma le armi possono essere adoperate anche solo per difendersi ed è ciò che può fare il filosofo per sopravvivere al presente e tentare di avere di nuovo un concreto influsso su di esso, recuperando un ruolo sociale che sembra aver perduto.

A partire dagli anni Sessanta del Novecento, a causa soprattutto della comunicazione massmediatica, l’autorevolezza della filosofia in ambito scientifico, politico ed etico è stata infatti gravemente compromessa. A seguito di una simile delegittimazione del suo ruolo arcaico di maestro di verità, il filosofo, negli ultimi decenni del secondo Millennio si è reso quindi amaramente conto di dover diventare come un guerriero per poter preservare la sua dignità simbolica, perseguendo una “milizia contro la malizia” attuabile attraverso una pungente e affilata acutezza del pensiero.

Ora, l’idea della ‘militia sine malitia’, ovvero del combattere e resistere senza per questo voler nuocere con ogni mezzo al nemico, affonda le sue radici nella tradizione del cinismo e dello stoicismo, scuole di pensiero filosofiche che ritenevano di dover affrontare la vita ponendosi nei confronti di essa come un soldato disarmato. L’indifferenza stoica, la quale consente di cogliere l’occasione intesa come eukairía, opportunità permanente offerta dal presente e opposta nettamente al kairós, l’istante tragico e drammatico, diventò in epoca barocca un aspetto fondamentale dell’ideale estetico di Baltasar Gracián. Nel trattato Agudeza y arte de ingenio (1648), Gracián sostiene come l’acutezza, essendo pungente, acuminata, aguzza, sia la bellezza strategica per eccellenza, in grado di rendere la parola, come anche il gesto e persino il silenzio imperturbabile, una vera e propria arma che il filosofo guerriero può utilizzare per sopravvivere in un mondo conflittuale dove, mentre regna la malizia, l’apparire ha acquisito più importanza dell’essere. Secondo Gracián, inoltre, l’acutezza non ha una dimora fissa, ma è in continuo transito, consentendo a chi ne fa uso di non rendersi un bersaglio facile da colpire come lo sarebbe un uccello dal volo uniforme e di sfuggire dagli inganni e dalle insidie proprio attraverso un continuo movimento di dislocazione ingegnosa, di spostamento, di decentramento tattico imperniato soprattutto sul sapiente uso delle parole.

L’acutezza tattica del filosofo-guerriero, consiste dunque nell’affrontare i conflitti con armi volte non a ferire ma a difendersi, attraverso un ingegno la cui essenza consiste nello spostare, dislocare, trasformare il dato reale creando connessioni insolite e aprirsi così ad una piena accettazione del presente di chiara derivazione stoica. Tale aderenza stoica al presente si era già manifestata nella prima metà del Novecento soprattutto in Carlo Michelstaedter e Carlo Diano. Nell’ottica di Michelstaedter, l’amore smodato per la vita naturale, da egli definito con il termine greco philopsuchía, lasciandosi trasportare dal flusso dei desideri, delle illusioni e delle speranze sempre rivolte al futuro, è sinonimo di viltà che getta chi ne è vittima in preda ad una fame insaziabile dovuta alla considerazione secondo cui ogni cosa vive e muore nello stesso istante. Ancor più deprecabile della viltà è la rettorica, ovvero la pretesa di sostenere una sicurezza assoluta da opporre all’esperienza del nulla: tale atteggiamento auto-ingannatore non è spontaneo, ma nasce da una reazione vana e illusoria nei confronti di una realtà che continua a sfuggire. In opposizione alla viltà e alla rettorica, Michelstaedter pone la persuasione, un acuto tipo di sentire che, caratterizzandosi come un’insolita mescolanza di movimento e immobilità, energia e pace, vita e morte, consente di considerare ogni istante del tempo come compiuto e perfetto, trovando un appagamento fiducioso nel presente dal momento che, come afferma Michelstaedter citando dei versi tratti dall’Elettra di Sofocle, “ognuno in ogni punto della vita, si trova colà dove non è più il momento d’indugiare, ma è il culmine dell’opera” (La Persuasione e la Rettorica, 1913). Il termine persuasione non è inteso da Michelstaedter nel significato corrente, ovvero come un indurre qualcuno a fare o a credere qualcosa, ma nell’accezione della fiducia. Analizzando l’etimologia della parola e recuperandone l’autentico peso, ci si accorge infatti che persuadere deriva dal greco peítho, la cui radice peith- in origine era solo intransitiva e dunque voleva dire fidarsi, avere fiducia, il che è molto diverso dall’avere fede, in quanto quest’ultima implica un costante rinvio al futuro, all’attesa di una salvezza che verrà, mentre la fiducia è qualcosa di già dato, di presente, tipico di chi è sicuro di poter affidarsi ad una realtà che gli si offre con pienezza nel presente.

La dimensione presente del pensiero acuto si ritrova anche in Diano, secondo cui la cultura greca si caratterizzava per una tensione costante tra il mondo della forma e il mondo dell’evento, emblematizzati l’uno dagli eroi e dagli dèi dell’Iliade, l’altro dall’eroe protagonista dell’Odissea, Ulisse. Nell’epica omerica, dunque, mentre Achille muore giovane poiché la compattezza e la rigidità della forma si spezza nell’urto con l’evento, Ulisse vivrà a lungo grazie alla mutabilità e alla flessibilità del suo ingegno, della sua mente colorata (per usare un’espressione di Pietro Citati) e in ultima analisi del suo linguaggio ricco di sfumature che gli permette di seguire le circonvoluzioni sinuose dell’evento.

Un esempio pratico di tale acutezza si può rinvenire nel pensiero di Italo Calvino e in particolare nelle sue Lezioni americane (1988) nelle quali Calvino individua cinque valori che, a suo dire, dovrebbero contraddistinguere la letteratura nel nuovo millennio, ovvero la leggerezza, la rapidità, l’esattezza, la visibilità e la molteplicità. Ora, queste parole che sembrano rappresentare al meglio lo spirito del tempo nell’età postindustriale della tecnologia, suonano, proprio in virtù della loro perfetta aderenza ai tempi, come delle banalità scelte da Calvino per richiamare l’attenzione del pubblico e dei media, allo scopo di utilizzarle come specchietti per le allodole in grado di veicolare in realtà un senso radicalmente differente rispetto a quello presente nel linguaggio comune e di riabilitare sotterraneamente le nozioni opposte di pesantezza, lentezza, approssimazione, astrazione e unità. L’operazione condotta da Calvino consiste nell’aggirare il conflitto, mettendosi apparentemente nel flusso della corrente, utilizzando i termini con cui la postmodernità glorifica se stessa come un cavallo di Troia utile per nascondere il livello di senso sotterraneo e latente di quelle parole, un orizzonte semantico che può essere colto da pochi. Come l’Ulisse omerico, personificazione dell’arguzia, utilizzò il cavallo di legno per introdursi, celato, nella città nemica ed invaderla, così Calvino, sfruttando una terminologia in linea con i tempi, aggira l’ostacolo della battaglia in campo aperto, s’insinua astutamente nella società dello spettacolo e della comunicazione e tenta di scardinarla dall’interno, veicolando messaggi radicalmente alternativi chiusi in un involucro apparentemente rassicurante che si spera qualcuno prima o poi apra.

Il modello ideale di guerriero a cui si dovrebbe richiamare il filosofo contemporaneo non è dunque Achille ma Ulisse, dotato di quella mètis, quell’intelligenza arguta capace di edificare sentieri insoliti e connessioni inusuali tra vari aspetti della realtà, andando magari anche a rovistare nella polvere accumulatasi sotto quel tappeto di parole che è, in fin dei conti, il mondo per noi esseri umani.

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3 Comments Lascia un commento

  1. Caro Ivan Corrado, le faccio i miei complimenti per questo bellissimo articolo e per aver pienamente colto l’attualità del pensiero di mio padre Carlo Diano. Sono sempre molto felice quando vedo che molti giovani, nonostante le sue opere non siano colpevolmente ristampate, si interessino al suo pensiero. Bellissimo anche l’accostamento a Michelstaedter e alle Lezioni Americane di Calvino, che amo moltissimo. Tutti i miei auguri per il suo futuro.
    Francesca Diano

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    • Gentile prof.ssa Francesca Diano, la ringrazio di cuore, le sue parole mi onorano. Mi sono avvicinato ai testi di suo padre grazie a Mario Perniola, sul cui pensiero ho scritto la mia tesi di laurea magistrale. Anche io trovo sia un peccato che le sue opere (soprattutto ‘Forma ed evento’) non siano più disponibili in commercio.
      La ringrazio ancora per gli auguri e i complimenti e le porgo i miei più cordiali saluti.
      Ivan Corrado

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