LA DECISIONE SBAGLIATA DI BENJAMIN FRANKLIN: INTELLIGENZA E RAZIONALITÀ NELL’EPIDEMIA

3739251135_4890716b2f_bROBERTO FESTA

Benjamin Franklin, la scelta razionale delle amanti e l’arte di scoreggiare orgogliosamente

A partire dal 1969, quando vennero ritirati i biglietti da 500$ e quelli di taglio maggiore, la banconota statunitense con il taglio più alto è quella da 100$, che ha recentemente superato la circolazione del biglietto da 1$, diventando così la cartamoneta più diffusa al mondo. Negli Stati Uniti, le banconote da 100$ sono comunemente chiamate “Bens”, o “Franklins”, con riferimento all’effige di Benjamin Franklin che compare sul fronte. Non ci si deve quindi stupire se milioni di persone credono che Franklin sia stato un presidente degli Stati Uniti, come quasi tutti i personaggi effigiati sulle banconote e monete statunitensi. In realtà, Franklin non ricoprì questa carica, ma l’onore riservatogli è ben meritato, poiché egli non è solo uno fra i più importanti Padri Fondatori degli Stati Uniti, ma anche una straordinaria figura di intellettuale, scienziato e inventore.

Benjamin Franklin (1706 – 1790) era un autodidatta che aveva assorbito lo spirito razionalista dell’Illuminismo. I suoi molteplici interessi teorici e politici non gli impedirono di sviluppare una vocazione imprenditoriale che si manifestò, fra l’altro, nella sua attività di giornalista, tipografo ed editore. Franklin era un uomo di mondo, che amava viaggiare e godere dei piaceri della vita, con un’esuberanza erotica che non si arrestò neppure dopo l’unione, avvenuta nel 1731, con Deborah Read Rogers. Persino in tarda età, durante la sua permanenza in Francia nella veste di ambasciatore degli Stati Uniti, trovò il tempo di intrecciare relazioni con diverse donne, incontrate nei bordelli e negli ambienti dell’alta società parigina. Last but not least, Franklin era un orgoglioso praticante dell’arte della scoreggia. Poiché era convinto che la razionalità dovesse essere applicata in ogni ambito dell’esistenza, non nascose la sua predilezione per l’erotismo e le scoregge, ma si divertì ad analizzare razionalmente entrambi i fenomeni. Infatti, nel 1745 scrisse una lettera a un giovane amico che non riusciva a contenere i suoi impulsi sessuali, consigliandolo di prendere moglie. Nella lettera, pubblicata in italiano con il titolo Consigli per scegliere un’amante, Franklin esprime qualche dubbio sulla possibilità che il giovane accetterà il suggerimento di sposarsi e gli indica, come consiglio supplementare, otto motivi per cui dovrebbe preferire un’amante anziana a una giovane. Nel 1781, mentre era ambasciatore degli Stati Uniti in Francia, scrisse Una lettera alla Royal Academy di Bruxelles sullo scoreggiare, che è stata pubblicata solo alla fine dello scorso secolo, con il titolo Fart proudly (Scoreggia orgogliosamente). Gli intenti del saggio non erano semplicemente umoristici. Infatti, Franklin riteneva che le società accademiche europee fossero sempre più pretenziose e disinteressate alle applicazioni pratiche della scienza. Fu, quindi, con un certo spirito polemico che suggerì di effettuare esperimenti scientifici sul peti, per comprendere come i diversi cibi influenzano l’odore della flatulenza e scoprire un farmaco che rendesse la flatulenza “non solo inoffensiva, ma gradevole come i profumi”. Copie del saggio furono stampate privatamente da Franklin nella sua tipografia e distribuite agli amici, fra i quali il chimico inglese Joseph Priestley, famoso per le sue ricerche sui gas. Lo spirito scientifico con cui Franklin si occupò delle dimensioni intime della vita ispirò anche il suo approccio alle epidemie di vaiolo che, con tragica regolarità, affliggevano Boston, sua città natale.

Le epidemie di vaiolo nella Boston di Franklin

La vita di Franklin fu scandita dalle epidemie di vaiolo che scoppiavano periodicamente a Boston e nelle altre città sulla costa orientale degli Stati Uniti. Probabilmente, bastava l’arrivo di una nave mercantile con qualche marinaio infetto per portare il vaiolo in città. Coloro che in passato erano sopravvissuti al vaiolo erano immuni, ma la maggior parte dei loro concittadini si infettava e molti morivano. Successivamente, la città restava immune al vaiolo per circa un decennio. In questo periodo nasceva una nuova generazione di bambini e nuove persone si trasferivano in città. Anno dopo anno, cresceva il numero di abitanti privi di immunità e, in tal modo, aumentava il rischio di una nuova epidemia. Nel Settecento questo ciclo infernale investì anche Boston, colpita da importanti epidemie di vaiolo negli anni 1721, 1730, 1752, 1764, 1776, 1778 e 1792.

Boston fu anche la sede dei primi tentativi sistematici di impiegare l’inoculazione, un metodo di immunizzazione dal vaiolo che si diffuse nel Settecento, prima che Edward Jenner scoprisse, nel 1798, che la vaccinazione, basata sull’esposizione al virus del vaiolo bovino, era più efficace e meno rischiosa dell’inoculazione, basata sul virus del vaiolo umano. L’inoculazione veniva eseguita facendo passare un filo attraverso una pustola di un paziente affetto da vaiolo in via di guarigione. Il filo veniva lasciato asciugare per almeno 24 ore, quindi se ne tagliava un pezzo lungo poco più di un centimetro e lo si inseriva in un’incisione poco profonda, praticata nel braccio o nella gamba della persona che doveva essere inoculata. La piccola ferita contenente il filo da inoculo veniva ricoperta di gesso per un giorno e poi il filo veniva rimosso. Se tutto andava bene, l’inoculazione produceva una lieve infezione da vaiolo e conferiva l’immunità a vita. Tuttavia, una piccola percentuale degli inoculati contraeva una forma fatale della malattia. Inoltre, gli inoculati rimanevano contagiosi per diversi giorni, per cui dovevano venivano tenuti in quarantena e curati da persone immuni.

All’inizio del Settecento l’inoculazione prese piede grazie all’impegno di Cotton Mather, un eminente pastore protestante di Boston, il quale ne venne a conoscenza nel 1706, quando il suo schiavo Onesimus gli spiegò come questo metodo veniva applicato nell’Africa occidentale. In un opuscolo pubblicato nel 1721, Mather suggerì che l’inoculazione avrebbe permesso di arginare l’epidemia di vaiolo appena scoppiata a Boston. L’unico medico che accolse il suo suggerimento fu Zabdiel Boylston, che inoculò il suo unico figlio e il figlio di Mather. Entrambi i bambini sopravvissero, ma i loro genitori furono accusati dagli altri medici e dagli ambienti religiosi di aver messo in pericolo la loro vita. Lungi dallo scoraggiarsi, Mather e Boylston continuarono a praticare le inoculazioni e riportarono i risultati del loro intervento in varie pubblicazioni. Nel 1726, Boylston pubblicò l’opuscolo An historical account of the small-pox inoculated in New-England, che viene da molti considerato il primo studio clinico nella storia della medicina. Boylston osservò che, tra le 287 persone inoculate nell’epidemia del 1721, i morti erano stati solo 6, mentre tra le 5.759 persone che avevano contratto il vaiolo per vie naturali si erano contati 842 morti. Ciò significa che la percentuale dei morti tra gli inoculati era all’incirca il 2%, mentre la percentuale dei morti tra coloro che si erano infettati per le vie naturali era vicina al 15%.

Tuttavia, il fatto che l’inoculazione fosse molto efficace, con un tasso di letalità più di sette volte inferiore a quello dell’infezione, non costituiva una ragione sufficiente per farsi inoculare. Infatti, anche lasciando da parte gli aspetti disgustosi dell’inoculazione e i fastidi di una quarantena assistita, non si poteva ignorare che questa pratica causava la morte di un inoculato su 50. Ciò significa che la scelta di farsi inoculare sarebbe stata razionale solo se la probabilità che un cittadino morisse di vaiolo in una delle ricorrenti epidemie che affliggevano la sua città fosse stata nettamente superiore al 2%. I dati statistici riportati da Boylston indicavano con ragionevole certezza che le cose stavano proprio così.

La probabilità che l’abitante di una città colpita da una tipica epidemia di vaiolo muoia può essere determinata sulla base della letalità dell’infezione – che, come si è visto, è pari al 15% –, e della sua incidenza nella popolazione cittadina. Se, per esempio, l’infezione ha un’incidenza del 100%, cioè se tutti i cittadini si infettano, e il 15% degli infetti muoiono, allora la probabilità che un cittadino muoia di vaiolo sarà pari al 15%. Se, invece, l’infezione ha un’incidenza del 50%, cioè se si infetta solo un cittadino su due, allora la probabilità che un cittadino muoia di vaiolo sarà pari al 7,5%. Si può facilmente calcolare che il “punto di pareggio” dell’incidenza, cioè l’incidenza in cui la probabilità che un cittadino inoculato muoia di vaiolo è pari a quella di un cittadino che ha contratto l’infezione per le vie naturali, è il 14,4%. Ciò significa che, se sei certo che l’incidenza del vaiolo nella tua città sarà il 14,4%, allora puoi lanciare una moneta per decidere se farti inoculare, oppure no. Se, invece, sei certo che l’incidenza sarà inferiore al 14,4%, allora fai bene a evitare l’inoculazione. Infine, se sei certo che l’incidenza supererà il 14,4%, allora ti conviene farti inoculare. I dati riportati da Boylston non lasciano alcun dubbio sul fatto che l’incidenza dell’infezione nell’epidemia bostoniana del 1721 fu di gran lunga superiore al punto di pareggio; infatti, egli scoprì che il 55,3% dei cittadini contrassero il vaiolo, cioè che si erano infettati 553 cittadini di Boston ogni mille. Il virus aveva colpito più della metà della popolazione della città e condotto alla morte un cittadino su 13.

Con il senno di poi, sulla scorta dei dati pubblicati da Boylston nel 1726, possiamo affermare che, all’inizio dell’epidemia del 1721, l’inoculazione sarebbe stata la scelta migliore per gli abitanti di Boston. Sfortunatamente, nel 1721 nessuno poteva avere certezze sull’incidenza e la letalità dell’infezione che stava colpendo la citta. Ci si doveva, quindi, affidare a previsioni incerte, basate unicamente sull’analogia con le precedenti epidemie di vaiolo che, peraltro, non erano mai state studiate accuratamente. D’altra parte, queste conoscenze, per quanto approssimative, sembravano indicare che le vittime delle tipiche epidemie di vaiolo erano di gran lunga più numerose di quelle dell’inoculazione. Vanno poi considerate anche le spaventose sofferenze di tutti gli infetti; in pochi giorni costoro si coprivano di pustole dolorose e maleodoranti che, nel corso di diverse settimane, si staccavano lasciando ai sopravvissuti cicatrici profonde, butterate e permanenti e, in molti casi, anche la cecità. Tenendo conto di tutti i rischi del vaiolo, inclusi i danni permanenti degli infetti, ci pare innegabile che, almeno dopo il 1726, anno della pubblicazione dell’opuscolo di Boylston, l’inoculazione sarebbe stata la scelta migliore per gli abitanti di qualunque città colpita da un’epidemia di vaiolo.

La lotta di Benjamin Franklin contro il vaiolo

 Nel 1721, quando il vaiolo colpì Boston, Benjamin Franklin aveva quindici anni e lavorava come tipografo nell’azienda editoriale del fratello James, che aveva appena fondato il The New-England Courant, uno dei primi quotidiani americani. Mosso da un’insaziabile fame di polemiche, James Franklin si schierò immediatamente contro l’inoculazione, sostenendo che questa pratica diffondeva l’infezione di vaiolo. Non sappiamo quali opinioni sull’argomento avesse il giovane Benjamin, ma sappiamo che nel 1723, a seguito di un aspro scontro con il fratello, lasciò Boston per stabilirsi a Filadelfia e che, successivamente, fu molto colpito dalla lettura dell’opuscolo di Boylston. La sua convinzione che l’inoculazione fosse efficace si rafforzò alla luce dei suoi eccellenti risultati nell’epidemia di vaiolo che colpì Boston nel 1730. In ogni caso, Franklin si sottopose all’inoculazione e, alla fine del 1732, quando nacque il suo primo e amatissimo figlio Francis, era da tempo un entusiasta sostenitore di questa pratica, che definiva “sicura e benefica”. Nel 1736, quando Filadelfia fu colpita dal vaiolo, Franklin decise che avrebbe inoculato il figlio. Tuttavia, temeva che l’inoculazione sarebbe stata particolarmente rischiosa per Francis, il quale soffriva di seri disturbi gastrointestinali di origine sconosciuta. Considerando molte variabili, compresa l’improbabilità di un’epidemia di grandi dimensioni, Franklin decise di posticipare l’inoculazione di Francis. Sfortunatamente, questa decisione di si rivelò fatale poiché nel novembre del 1736, mentre era ancora in attesa dell’inoculazione, Francis contrasse il vaiolo e morì dopo alcuni giorni di atroci sofferenze. Subito dopo la sua morte gli avversari dell’inoculazione sparsero la voce che Francis era morto a causa dell’inoculazione. Franklin replicò scrivendo sulla Pennsylvania Gazette che “[egli] intendeva far inoculare [Francis] non appena avesse recuperato forza sufficiente da un flusso di cui era stato a lungo afflitto” e che il ragazzo aveva “contratto il vaiolo nel modo comune di infezione”. Il dolore per la morte di Francis accompagnò Franklin per il resto della vita, come ci è testimoniato dalla sua Autobiografia.

“Nel 1736 persi uno dei miei figli, un bel fanciullo di quattro anni, a causa del vaiolo contratto nella maniera solita. Ho rimpianto a lungo amaramente e tuttora rimpiango di non averglielo fatto iniettare come vaccino. Ne parlo nell’interesse di quei genitori che trascurano questa operazione immaginando che non si perdonerebbero mai se il bambino ne morisse; il mio caso dimostra che il rimorso può essere lo stesso nell’una o nell’altra eventualità e che perciò bisognerebbe optare per quella più sicura.”

Come si vede, Franklin consiglia a tutti i genitori di optare per l’eventualità “più sicura”, cioè per l’inoculazione. La convinzione, maturata da Franklin, di avere preso una decisione sbagliata quando rinviò l’inoculazione del figlio viene condivisa da alcuni studiosi che hanno recentemente analizzato il suo dilemma con gli strumenti concettuali della moderna teoria delle decisioni cliniche: si veda M. Best, A. Katamba e D, Neuhauser, “Making the Right Decision: Benjamin Franklin’s Son Dies of Smallpox in 1736”, Qual Saf Health Care 2007; 16: 478–480. Gli autori concludono che, alla luce dei dati pubblicati da Boylston, Franklin avrebbe dovuto procedere senza indugi alla vaccinazione del figlio. L’eccellente articolo di Best et al. mostra che la teoria delle decisioni cliniche non serve solo a orientare le decisioni dei medici di oggi, ma anche a valutare la razionalità delle decisioni prese in passato. Tuttavia, la loro conclusione che decisione di Franklin era sbagliata va accolta con cautela. Infatti, nel 1736, non era affatto certo che il focolaio di vaiolo scoppiato a Filadelfia avrebbe dato luogo a un’epidemia su vasta scala. Vi era, anzi, qualche motivo di ritenere che il focolaio sarebbe stato di proporzioni limitate, come in effetti avvenne. Era, quindi, molto ragionevole ipotizzare che Francis avesse una probabilità di infettarsi di gran lunga inferiore al 50%. Inoltre, si poteva supporre che, a causa dei suoi seri disturbi intestinali, la probabilità che Francis morisse in seguito all’inoculazione fosse molto più alta del 2%. Furono queste ragionevoli considerazioni che indussero Franklin a rinviare l’inoculazione. A noi pare che la sua decisione, a dispetto dei suoi esiti infausti, non sia stata una decisione sbagliata. Fu, invece, un tipico esempio di decisione razionale presa sulla base dei dati clinici ed epidemiologici allora disponibili, che non consentivano di dissipare l’ignoranza su alcuni rilevanti parametri probabilistici.

Dopo la morte del figlio, Franklin si impegnò strenuamente nella lotta contro il vaiolo. A partire dal 1750 collaborò con diversi medici, tra i quali il famoso William Heberden del Pennsylvania Hospital, fondato nel 1751 con il decisivo contributo di Franklin. In particolare, Franklin aiutò Heberden nella raccolta dei dati statistici che portarono alla pubblicazione, nel 1759, dell’opuscolo Some account of the success of inoculation for the small-pox in England and America; together with plain instructions by which any persons may be enabled to perform the operation and conduct the patient through the distemper. Come si intuisce dal titolo, questo opuscolo, scritto da Heberden e introdotto da Franklin, non si limita a fornire informazioni dettagliate sull’efficacia dell’inoculazione, ma spiega anche come questo intervento possa essere praticato in sicurezza a casa propria, senza ricorrere a un medico. Questa circostanza rivela la sollecitudine di Franklin per le persone che non erano in grado di permettersi le spese mediche. Per questa ragione, distribuì gratuitamente al pubblico 1.500 copie dell’opuscolo e, nel 1774, fondò la Society for Inoculating the Poor Gratis, che offriva ai poveri l’inoculazione gratuita, somministrata da un medico.

Benjamin Franklin e la pandemia di Covid-19

Sono passati esattamente 300 anni da quando i cittadini di Boston affrontarono una letale epidemia di vaiolo. Le controversie settecentesche su come affrontare le epidemie di vaiolo preannunciano le attuali discussioni sull’utilità della vaccinazione nel contrasto alla pandemia di Covid-19. In particolare, l’approccio di Franklin all’inoculazione ha ancora molto da insegnarci. Franklin sosteneva che l’inoculazione era una pratica sicura, anche se conduceva alla morte un inoculato su 50. Si tratta di un valore impensabilmente alto per un vaccino moderno. Tuttavia il giudizio di Franklin era corretto, se inteso come una valutazione comparativa: infatti, occorreva confrontare i morti causati dall’inoculazione (1 su 50) con quelli causati dall’infezione in una tipica epidemia di vaiolo (1 su 13). Non vi è dubbio che Franklin avrebbe accolto con entusiasmo la scoperta del vaccino antivaioloso di Jenner e sarebbe stato felice di apprendere che, nelle sue ultime versioni – impiegate fino al 1980, quando fu dichiarata la totale eradicazione della malattia –, i decessi erano solo 1 o 2 ogni milione di vaccinati. Questi numeri sono identici a quelli dei decessi determinati dai recenti vaccini contro il Covid-19. Possiamo, quindi, essere certi che oggi Benjamin Franklin sarebbe un formidabile avvocato della vaccinazione per il Covid-19. Vale anche la pena notare che la riflessione di Franklin non fu guidata solo dalla sua straordinaria intelligenza, ma anche dalla sua razionalità, cioè dall’uso appropriato degli strumenti concettuali offerti dalla logica, dalla statistica e dall’epidemiologia della sua epoca. (Sulla razionalità di Franklin in ambito medico si vedano, per esempio, S. Finger, Doctor Franklin’s Medicine, University of Pennsylvania Press, 2006 e M. Best, D. Neuhauser e L. Slaven, Benjamin Franklin: Verification and Validation of the Scientific Process of Health Care, Trafford Press, 2003.)

Nell’ultimo mezzo secolo gli studiosi di scienze cognitive hanno dimostrato che l’intelligenza è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per la razionalità. A questo riguardo, Steven Pinker (Razionalità, Mondadori, 2021) osserva che neppure l’intelligenza dei premi Nobel li protegge dall’irrazionalità, non appena essi si avventurano al di fuori del loro campo di competenza.

“Nell’articolo The Nobel Disease: When Intelligence Fails to Protect Against Irrationality (La malattia dei Nobel: quando l’intelligenza non protegge dall’irrazionalità), Scott Lilienfeld e i suoi colleghi hanno elencato le convinzioni poco fondate di una decina di premi Nobel nei campi, fra gli altri, dell’eugenetica, delle megavitamine, della telepatia, dell’omeopatia, dell’astrologia, dell’erbalismo, della sincronicità, della pseudoscienza della razza, della fusione fredda, delle cure strampalate per l’autismo, nonché sulla negazione che l’AIDS sia causato dall’HIV.”

Non deve, quindi, sorprendere il fatto che, fin dai tempi di Franklin, l’antivaccinismo non è stato sostenuto solo dagli oscurantisti religiosi, ma anche da grandi intellettuali, tra i quali non potevano mancare i filosofi, sempre pronti a pontificare su qualunque argomento – specialmente su quelli che non conoscono. Dobbiamo a G. Corbellini e A. Mingardi (La societa chiusa in casa. La libertà dei moderni dopo la pandemia, Marsilio, 2021) alcune interessanti osservazioni sul pedigree dell’antivaccinismo contemporaneo.

“Quando [l’inoculazione] arrivò nell’Occidente illuminista, intorno al 1721, venne proposta o imposta da istituzioni politiche a individui che si stavano emancipando anche psicologicamente dall’etica comunitaria, per costruire società più differenziate e dove circolavano la scienza e le moderne idee di libertà. Quella tecnica era inoltre percepita come “straniera”. Una parte della popolazione e del mondo intellettuale non l’accettò. Non solo per motivi religiosi. Tutti ricordano Voltaire e la sua lettera su Lady Montagu, o i pamphlet di Verri e Parini, ma nessuno sembra voler ricordare che Kant e Rousseau, come diversi altri, erano fortemente contrari alla pratica, perché era rischiosa e innaturale, cioè immorale. Kant criticò pesantemente, su basi etiche e con toni disgustati, anche la vaccinazione jenneriana.”

Il fatto che intellettuali della statura di Voltaire, Kant e Rousseau si opponessero alla disgustosa innaturalità della vaccinazione indica che la sola intelligenza, per quanto brillante, non basta a evitare le trappole cognitive in cui cade, quasi inevitabilmente, che non fa uso della razionalità scientifica, a partire dagli elementari principi logici e probabilistici accessibili a qualunque persona colta di media intelligenza.

“Fart Proudly, by Benjamin Franklin” by kjarrett is licensed under CC BY 2.0

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