LA TENTAZIONE DI ESSERE UOMINI
TOMMASO CICCARONE
Nella tentazione, ricercando la gloria / il prezzo da pagare / è la caduta dell’uomo” (Judas Priest, Pestilence and Pleague, 2009)
1. Libertà della tentaizione ovvero la tentazione come libertà
Il tema della tentazione non può essere dissociato da quello della instabilità e del rischio della “caduta”. La tentazione è complementare alla libertà; ne è una obliterazione.
Da sempre il pensiero filosofico si è confrontato con quello teologico coinvolgendo la riflessione sullo statuto del bene, del male, del peccato e del libero arbitrio. Si tratta di una riflessione, a dire il vero, che parte già prima del cristianesimo sin dai tragici greci (in questa sede penso solo a Sofocle, lo scriba della ambiguità umana).
Nel Mare Magnum della letteratura sulla condizione tragica dell’uomo un punto di riferimento interessante è, per chi scrive, il testo che il filosofo e teosofo Schelling pubblicò nel 1809: Ricerche sull’essenza della libertà umana. “Dio – afferma Schelling – non è il Dio dei morti ma dei viventi. (…)” (cfr. tr. it., Mursia, p. 88). Dio non può che essere “il Dio dei viventi” perché le sue creature, immerse nei flutti della libertà, agiscono e creano a immagine e somiglianza del loro Principio che si “rivela” proprio attraverso la libertà e la vita umana. Ora il fatto che la libertà presupponga tanto l’agire per il bene quanto la possibilità di compiere il male, porta a pensare che l’idea che si possa avere di Dio è l’idea stessa della Libertà ovvero che Dio sia una incompleta rivelazione di sé attraverso le cose della Natura e le cose umane (morale e storia). La grandezza assoluta di Dio –che qui si intende come la vita stessa- sta nella sua incompiutezza che è all’opera, nel tempo e nella storia, intesa appunto come “Odissea dello Spirito”.
Il rivelarsi di Dio attraverso creature simili a sé e agenti in libertà istituisce con esse una “collaborazione” per cui nella vita individuale o nella storia in generale non ci si può lamentare di un Fato o Destino avverso, perché se non è ammissibile un piano di necessità assoluta (per cui saremmo tutti spiritualmente morti e senza libertà, ovvero degli enti come lo sono i sassi) non lo è nemmeno quello di un fatalismo assoluto che, per principio, rende nulla la responsabilità ovvero la libertà.
All’interno di queste alternative, nemmeno l’ateismo è sostenibile perché in assenza di Dio le creature sarebbero autocreazioni o monadi senza relazioni con gli altri o, meglio, “senza finestre sul mondo” come si esprimeva Leibniz.
Una compiutezza autoriferita, moltiplicata per tutte le compiute esistenze degli altri, monadi a loro volta, non ammetterebbe nessuna libertà ma puro nichilismo, quello che chiamerei una “disarmonia prestabilita”. “Il concetto reale e vivente è questo – afferma Schelling –, che essa [la Libertà] consiste in una facoltà del Bene e del Male”. (p. 92; corsivo mio)
2. Sinfonia delle trasformazioni
Cosa significa che “La libertà consiste in una facoltà del Bene e del Male”? Ho facoltà di agire “come mi pare”, nel bene e nel male, come si suol dire. Se fossimo predeterminati al Bene, come angeli, non ci sarebbe Storia ma entomologia.
Non si è mai sentito parlare di “diplomazia di insetti” o della tentazione ad essere diversi da ciò che si è da parte di un criceto, per esempio, tranne che per l’uomo. Gli insetti sono predeterminati dal loro fiuto e istinto ad agire come devono agire in base alle leggi fisiche della natura: dominio assoluto della necessità e non della libertà. La legge della Storia è scritta su ben altro spartito; un’altra sinfonia, direi una “sinfonia della trasformazione o “caduta”, come direbbe Schelling.
C’è libertà perché l’uomo è caduto; è caduco, alla lettera; in-determinato, quindi disposto e aperto alle sue possibilità, scelte, “vicissitudini” (come diceva Giordano Bruno) e…tentazioni. Adamo è caduto perché ha voluto deviare, cedendo alla tentazione irrefrenabile di conoscenza; eccedere rispetto alla sua condizione nella quale Adamo non si è accontentato: l’Eden era di una noia immortale!
La facoltà di sbagliare illumina quella di riuscire buoni; non è scontato il contrario; anzi, le “anime belle” o ascetiche di cui parla Hegel nella Fenomenologia dello Spirito sono esempi di una cattiva o infelice coscienza. Le anime pie che non abbiano ceduto a tentazione almeno una volta e non abbiano deviato dalla loro strada liscia e diritta non vivono le profondità abissali del bene se non pregando a che non si sia indotti in tentazione e invocando la liberazione dal Male… L’eccezione illumina la regola. La regola senza eccezioni decade in fissità o, dal punto di vista dell’agire morale, è incrostata di ipocrisia. Non è un concetto “reale e vivente”. Ciò che è vivo è, si, regolato da schemi biologici e naturali che condizionano, ma a-priori è tale perché possiede nella propria sfera la forza di azione, deviazione e dynamis che è il ventaglio di indeterminate possibilità o potenzialità che, in senso lato, rendono potente la vita, sfuggente a schemi preordinati. La libertà d’azione è data da un costitutivo s-fondamento, oscillazione tra essere e non-essere: il “Ni” dell’”ente” o differenza ontologica (Heidegger).
3. Radice tremenda e smisurata della tentazione
Ai vertici sommi della letteratura di tutti i tempi questa oscillazione, in termini di conflittualità interiore e inquietudine, vi è il celebre Stasimo dell’Antigone di un gigante come Sofocle.
La creatura non avrebbe libertà se non provenisse da qualche abisso o crisi, come del resto gli sarebbe preclusa l’azione se non fosse limitato da un ostacolo (non banalmente esteriore, ma immanente alla propria natura). Però la “crisi”, come suggerisce il senso del termine nella lingua cinese (WēiJī), è anche foriera di opportunità; non necessariamente di deriva e arrendevolezza. Se così fosse sarebbe la scorciatoia più breve e forse anche indolore rispetto al sacrificio delle scelte nei flutti anche critici delle opportunità. La libertà è tale, o degna di questo nome, di fronte allo spaesamento; non essere dove si è come a casa propria.
Allora l’autenticità è l’essere coscienti della tenebra?
Il prezzo non prevede sconti: per conquistare la luce bisogna familiarizzare con il buio: Come già insegnava Platone nel celebre mito della caverna, lo schiavo che esce dall’oscurità, a cui è stato assuefatto per tutta la vita, si accieca al sole. Dolore e fastidio: la libertà ha un odore vertiginoso e nauseabondo forse simile a quello della solitudine. La tentazione di tornare al buio è dietro l’angolo e nelle proprie fibre.
Nello specifico così si esprime Sofocle:
“Molte sono le cose mirabili, ma la più mirabile di tutte è l’uomo”.
Ora, come si vede, ricorre l’aggettivo “mirabile” che è una traduzione possibile dal greco deinon. In verità deinon ha in sé una molteplicità di significati: “terribile” o “tremendo” “mirabile”, “strano”, “smisurato”. Friedrich Hölderlin, nella sua personale traduzione della Tragedia in questione, ha preferito applicare il significato di “smisurato” perché, a giusta ragione, esso contiene bene anche quello del carattere tremendo dell’uomo che è tale perché è l’unico essere capace di eccedere la misura in arroganza e tracotanza (la hybris). Con Sofocle ci si apre alla radicale comprensione dell’essenza dell’uomo che è la sua ambiguità.
Ritorniamo alla questione del Male. In cosa consiste il Male?
Si è indotti a rispondere che esso è un allontanamento dal centro nella dispersione “periferica” dell’essere, in mezzo al molteplice, nella separazione e nella chiusura. In questo senso la perdita di quella “scintilla” che consentirebbe di erompere dalla oscurità attraverso l’intuizione e rammemorazione del legame delle forze o “potenze” dell’Essere è persa e questa perdita è il Male.
Questo è il prezzo della dimenticanza del legame; anzi è la dimenticanza stessa ma anche, per contrasto, la possibilità del ricordo, all’interno della sua tentazione e in virtù delle tentazioni. La separazione è necessaria all’uomo, perché altrimenti sarebbe Dio; ma è proprio la scissione che costituisce il campo esistenziale della tentazione del bene e del male ed è la condizione della ambiguità di ogni essere finito quale noi siamo.
La finitezza è importante perché costituisce l’essenza della singolarità. Ma si tratta di una singolarità mai statica, perché posta in relazione viva con altre singolarità, nel tessuto relazionale dell’Assoluto, ovvero dell’Essere che è vita e non morte.
La ricerca volge al punto decisivo: Bene e Male non possono essere separati dualisticamente perché ciò introdurrebbe un problema nel concetto di Libertà: questa consisterebbe nel dominio della ragione sull’animalità e sulle passioni e ciò, evidentemente, implica determinazione e costrizione. Si considerino, come esempi della tradizione metafisica di tale contraddizione, il platonismo (sottomissione al Bene e “preparazione alla morte”), Cartesio (sottomissione alla morale, seppur “provvisoria”, del conformismo e tradizione), Spinoza (sottomissione del conatus di conservazione del proprio essere alla Laetitia o “Amore di Dio intellettuale”) e, al culmine di questa traccia “negativa”, niente meno che Kant (sottomissione all’imperativo della legge morale del Sommo Bene).
La lotta, la separazione, quindi la stessa possibilità del male, sono il presupposto della libertà e perché Dio si riveli attraverso la creazione che, in fin dei conti, è la Storia dell’uomo. Se fosse tutto indifferenza, come in una mitica Età dell’Oro, Dio non potrebbe rivelarsi nel tempo umano o in ciò che è chiamato il Fondamento/Oscurità. “Sottrarsi alla lotta sembra piuttosto una fuga più che una vittoria” (F. Schelling, Ricerche, op. cit).
Nell’uomo, in cui Dio si rivela attraverso la Libertà, la separazione, e quindi anche la possibilità del Male, sono i presupposti della possibile redenzione attraverso il desiderio (nostalgia) di vera unità (il Bene)e attraverso la lotta con le proprie tentazioni. “Decidere” per l’una o per l’altro è la “crisi”; ma è solo la crisi la fonte della eventuale elevazione verso la luce o, al contrario, ri-precipitazione verso l’oscurità. Bene e Male sono le due facce di una medesima apertura ontologica che è l’uomo, ovvero la Libertà ma nel senso che questa è il proprium dell’uomo e la tentazione ne è una declinazione radicale.
4. La tentazione come segnale di autenticità
“Il demonio secondo la concezione cristiana, non era la creatura più limitata, ma anzi la meno limitata. Le imperfezioni nel comune senso metafisico non sono il carattere consueto del male, ché anzi spesso il male si presenta unito a un’eccellenza delle singole forze che assai più raramente accompagna il bene” (Schelling, p. 103).
Dato che la vita si muove per continue opposizioni e che, al contrario, in assenza di opposizioni ci sarebbe solo una parvenza di vita all’insegna di una indefinita e sospetta “perfezione”, l’affermazione del Bene è tanto più genuina quanto più risalta dal contrasto con un male positivo un po’ come dire che la salute la si apprezza pienamente e se ne è consci solo dopo aver esperito la malattia.
A questo proposito mi viene in mente un bel passaggio che lo stesso Schelling ha espresso nel mezzo delle sue stupefacenti Lezioni di Stoccarda, quando afferma che Dio per sovrabbondanza si è sdoppiato in ragione di una duplicità intrinseca al suo Essere; ovvero in Oscurità e Luce; in Essere e non-essere; in amore e collera e alla luce di cui l’autenticità dell’amore, per esempio, è tale solo alla luce di una correlazione con l’egoismo, con le tentazioni e, in generale, con le sue inevitabili trasformazioni/declinazioni. Insomma: in Dio, nell’uomo (che è a immagine e somiglianza personale di Dio), la libertà e l’amore si rivelano nel chiaro-scuro delle contraddizioni e opposizioni dei principi opposti e non in una qualche traiettoria unidirezionale che esclude forze o sfaccettature a beneficio, riduttivo, di una forza o caratteristica. La traiettoria è sempre foriera di deviazioni ma anche alimentata dalle tentazioni.
Sarebbe molto più coerente ammettere questo piuttosto che calibrare la vita su binari univoci, ritenuti il Bene perché qualche sistema o dottrina dice che questo o quest’altra cosa sia Bene, demarcando così il campo diabolico di ciò che non lo è. Ma alla fine il destino dell’uomo è quello di convivere con la doppiezza del tragico e con l’esperienza del dolore in un “inferno” lastricato non solo delle buone intenzioni ma anche delle costitutive tentazioni.
La oscillazione ne è la condizione: prenderne coscienza può essere l’esercizio per mantenere viva la propria umanità perché impedirebbe che si possa cadere o s-cadere nella santa perfezione del bene o nella diabolica imperfezione della bestia, o meglio del male, giacché la bestia non può essere né al di sopra né al di sotto di sé.
La bestialità, in una accezione morale, consisterebbe in questo: permanere nella inerzia tanto della irragionevolezza quanto di una sospetta raziomania da santi, strappati a qualsiasi tentazione.
L’essere ragionevoli, nello specifico, non è la stessa cosa che essere razionali.
La ragionevolezza non è scontata; la razionalità, laddove ci si arriva, invece lo è nella misura in cui afferisce a sforzi o algoritmi logici, “esercizi spirituali” e, alla peggio, meccanici e abitudinari.
Lo spirito e la “passione”, la instabilità e l’inquietudine, sono quindi gli ingredienti per cui la ragionevolezza si configura come un talento della personalità e spirito. Questo talento non è il risultato di un algoritmo riflessivo, preso “a tavolino” da uno spirito determinato dall’appetito e desiderio di autoconservazione ma è piuttosto la liberazione –direi la sublimazione- dello spirito che mette in contatto il cuore e le tentazioni, con la ragionevolezza; il caos con la possibilità di generare stelle danzanti; il buio e la ricerca oscillante della luce perché, come ha appuntato Nietzsche sul primo esemplare di Aurora, nel 1881, “Chi un giorno deve accendere il lampo, ha bisogno a lungo di essere nuvola”.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA TEOLOGIA Endoxa luglio 2023 Tentazioni Tommaso Ciccarone
