LA TENTAZIONE IMPERIALE DELLA RUSSIA

vladimir-putin-russia-ansaSTEFANO SANTORO

A partire dal XIX secolo le strategie di proiezione imperiale della Russia furono strettamente correlate al dibattito interno alle classi dirigenti e all’intelligencija sul destino dell’impero, in modo particolare sulla sua vocazione europea piuttosto che asiatica. Le discussioni intorno alla possibilità di importare il modello occidentale europeo nell’impero degli zar hanno avuto una parte fondamentale in tutti i progetti di carattere sia riformatore che rivoluzionario e, allo stesso tempo, il modello occidentale ha costituito un punto di riferimento ineludibile in negativo, nella prospettiva di intraprendere una specifica, e alternativa, via russa allo sviluppo.

Fu allora che l’ideologia autocratica iniziò a porre sotto una luce critica i modelli occidentali: se da un lato si continuava ad esaltare la figura di Pietro il Grande come modernizzatore dell’impero, parallelamente si sottolineava la necessità di difendere i valori nazionali tradizionali da un Occidente corrotto e destinato ad un inevitabile declino.

Nell’ultima fase della Russia imperiale, alcuni intellettuali, come Vladimir Solov’ëv, avevano sottolineato le affinità esistenti con l’Oriente asiatico piuttosto che con il mondo occidentale, proponendo l’idea di una Russia che ricomprendesse in sé le complessità di Oriente e Occidente, offrendo una sintesi di entrambi gli universi spirituali. L’emergere del pensiero asiatista, sostenitore di un’espansione della Russia in direzione dell’Asia, legittimò in sostanza una spinta verso Est anche allo scopo di civilizzare gli “arretrati” popoli orientali, con una dinamica che assunse dei connotati coloniali. Fra l’altro, la spinta imperiale russa verso Oriente produsse un curioso effetto prospettico sull’autorappresentazione dell’impero, che da “dispotismo asiatico” e barbaro nell’ottica di alcuni osservatori occidentali, divenne portatore di civiltà nei confronti della “barbarie” dei pastori seminomadi caucasici o delle steppe dell’Asia centrale.

Nel periodo interbellico, soprattutto all’interno dell’emigrazione russa antibolscevica, si iniziò a sostenere che la Russia non fosse né Europa né Asia, ma piuttosto un’entità sui generis, un meta-continente che ricomprendeva i due continenti: si trattava del filone eurasista. Ad accomunare asiatisti prebellici ed eurasisti postrivoluzionari era una netta avversione nei confronti della civiltà occidentale. Tali inclinazioni intellettuali sono riemerse dopo la fine dell’Unione Sovietica, nell’ambito della Federazione russa, nel momento in cui, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, questa dovette confrontarsi con il nuovo “ordine americano” e con il ruolo subordinato che la Russia di Boris El’cin sembrava assumere nei suoi confronti. L’armamentario ideologico eurasista, visto sempre con estremo sospetto durante l’Unione Sovietica, che pur confrontandosi con il mondo occidentale rivendicava le radici occidentali della propria ideologia e guardava, fin dalla sua fondazione, a quello stesso Occidente come a un modello con cui competere e da superare, fu quindi riscoperto. Si ripropose così il tradizionale dilemma, per cui l’Occidente era al contempo modello e pericolo da scongiurare: la democrazia occidentale costituiva una difesa dall’arretratezza asiatica, ma il capitalismo individualista era identificato come un pericolo per l’anima russa. Il vuoto originato dalla crisi epocale del marxismo-leninismo quale ideologia di riferimento del mondo russo fu quindi presto riempito con la vecchia idea eurasista, condivisa sia dagli eredi del comunismo che dal nuovo nazionalismo, rispettivamente rappresentanti da Gennadij Zjuganov e Vladimir Žirinovskij. Quest’ultimo, che aveva fondato, con la fine dell’Urss, il Partito liberaldemocratico – in realtà nazionalista – russo, plasmò un discorso permeato di retorica social-nazionale che si nutriva di risentimento verso quella che era presentata come l’umiliazione inflitta ai russi da parte dell’Occidente, e di una volontà di rivincita in senso imperiale all’interno dello spazio ex sovietico.

Žirinovskij guardava anche all’Ucraina, presentata come un “non-Stato”, e perorava la riconquista della Crimea – ceduta da Chruščëv all’Ucraina nel 1954 in ricordo del trecentesimo anniversario del trattato di Perejaslav tra i cosacchi e lo zar Alessio I –, condendo il suo discorso con una retorica xenofoba e antisemita. La sua fraseologia aprì poi la strada ad alcuni temi forti del putinismo, incentrati sulla minaccia costituita dal corrotto Occidente, in particolare dopo la repressione delle proteste antigovernative del 2012.

L’eurasismo veniva riscoperto ed esaltato, fra gli altri, da un epigono del comunismo sovietico come Zjuganov, che se ne serviva per mettere sotto accusa i poteri forti occidentali e americani, dal gruppo Bilderberg al Council on Foreign Relations, condividendo così con Žirinovskij l’idea del complotto cosmopolita filoccidentale che avrebbe svenduto agli interessi di Washington la nazione russa. In definitiva, nella Russia postsovietica, il pensiero eurasista si rivelò uno strumento ideologico fondamentale per convincere i russi che il loro paese avesse molto da spartire con l’Asia per difendersi dal pericolo proveniente dall’Occidente materialista e dalle sue false istituzioni parlamentari, appendice di un’oligarchia finanziaria senza volto. In questa prospettiva, i “valori asiatici” autocratici potevano rappresentare una valida alternativa alla decadenza occidentale.

Le tendenze antioccidentali presenti nella Russia putiniana si sono tradotte in una nuova forma di nazionalismo, dove però la nazione non viene intesa nel senso ristretto di etnia russa (Russkii), guardando piuttosto ad uno spazio-tempo proiettato in direzione del passato imperiale russo. Con questa visione imperiale coesistono tuttavia, e spesso confliggono, tendenze etno-nazionaliste. Il leader nazionalista Vladimir Žirinovskij ha sempre associato una retorica imperialista e razzista alla necessità di difendere la nazione russa da pericolose influenze esterne, anche di natura etnica, di matrice occidentale. Il teorico del neo-eurasismo Aleksandr Dugin ha coniugato l’esaltazione della Russia imperiale a teorie razziste e antisemite. La stessa retorica putiniana della Russia come nazione divisa da ricostituire e difendere è stata alla base dell’annessione della Crimea nel 2014. Il nazionalismo, in ogni caso, costituisce indubbiamente uno strumento capace di mobilitare la popolazione e creare consenso e allineamento fra questa e le élite politiche, fra stato e società. Ma i gruppi nazionalisti russi sono stati prevalentemente attori non statali, la cui modalità operativa si è incentrata su un uso spregiudicato di internet e dei social media, non disdegnando l’organizzazione di manifestazioni spesso di carattere violento. Fra questi si distinguevano i nazional-bolscevichi di Eduard Limonov, attivo a partire dalla prima metà degli anni Novanta e successivamente, nei primi anni Duemila, gruppi di estrema destra neonazisti anti-immigrazione, sciolti poi dalle forze di sicurezza russe in quanto ritenuti pericolosi per lo stato, da questi considerato complice della decadenza nazionale per la sua incapacità di affrontare i fattori, interni ed esterni, responsabili della disgregazione della società russa. I nazional-democratici acquistarono una certa visibilità durante le proteste anti-Putin del 2011-2012, potendo contare sulla vicinanza di personalità di spicco nel campo intellettuale, come il giornalista e filosofo Konstantin Krylov e l’attivista anticorruzione Aleksej Naval’nyj. I nazional-democratici differivano dagli altri due gruppi per la loro inclinazione filoccidentale, mostrando un’affinità e vicinanza al nazionalismo europeo di formazioni politiche come il Front (oggi Rassemblement) National francese, il Partito della libertà austriaco o il partito Jobbik in Ungheria. L’annessione della Crimea nel 2014 ha portato una certa confusione nella posizione di questi gruppi di opposizione, incerti se condannare o appoggiare le mosse di Putin: Limonov e i nazional-bolscevichi si riconciliarono con il presidente russo, mentre i nazional-democratici e i gruppi neonazisti si divisero fra il supporto alla causa ucraina accanto a forze di estrema destra ucraine come Pravyi Sektor e il battaglione Azov e, la maggioranza, la militanza dalla parte dei filorussi nel Donbass.

L’eurasiatismo post-sovietico, rielaborazione – per tramite in particolare dell’etnologo Lev Gumilëv – di quello interbellico, ha permesso a Putin di sostenere che la fine del comunismo non avrebbe dovuto portare con sé la fine dell’Urss/Russia: la responsabilità di questo tracollo veniva attribuita dal presidente russo alle élite riformatrici sovietiche corrotte dall’Occidente. Probabilmente, il più influente teorico di una geopolitica basata sul pensiero eurasista è il filosofo Aleksandr Dugin, che si è sempre atteggiato a nemico della globalizzazione e della società aperta, ma che al contempo ha respinto il nazionalismo di tipo etnolinguistico, sostenendo piuttosto la necessità di creare un grande stato sovra-etnico, ispirato in qualche modo all’esperienza sovietica, che prefigurasse una futura grande area eurasista. A dispetto del debito intellettuale con la destra radicale europea, di tipo tradizionalista, antiglobalista e antiamericano, però, la visione di Dugin era incentrata soprattutto su una concezione di carattere geopolitico, connotata da “grandi spazi” che delimitavano frontiere di civiltà e includevano diversi stati-nazione. La Russia avrebbe dovuto egemonizzare un grande spazio eurasiatico tramite vasti sistemi di alleanze da realizzare con realtà subcontinentali come l’Iran, l’India e la Turchia.

Dugin ha influenzato, direttamente o indirettamente, personalità diverse dello spettro politico russo, comunisti come Zjuganov, nazionalisti come Žirinovskij e lo stesso Putin. In questo quadro, è interessante notare la saldatura verificatasi fra il Patriarcato di Mosca, guidato dal patriarca Kirill, e la retorica antioccidentale di Putin: la crociata di Kirill era portata avanti nel nome della difesa dei valori cristiani dalla corruzione occidentale, veicolata attraverso strumenti quali il liberalismo, il secolarismo, il femminismo e le “teorie gender”. La Chiesa ortodossa russa costituisce sostanzialmente un gruppo parastatale, dotato di un’agenda ideologica che segue quella governativa, pur senza identificarsi con essa. La loro non sovrapponibilità si è vista ad esempio in occasione della crisi georgiana del 2008 e di quella ucraina del 2014, quando il Patriarcato di Mosca ha condotto per quanto possibile un dialogo con le classi dirigenti dei due paesi. La Chiesa ortodossa inoltre non condivide la riabilitazione del passato sovietico su cui invece la retorica putiniana si è frequentemente fondata.

Pur utilizzando queste risorse ideologiche antioccidentali, lo stato putiniano non può essere ridotto a un veicolo del nazionalismo russo, basandosi piuttosto su una combinazione di riferimenti con chiare radici, più che nell’universo del pensiero nazionalista, in un’eclettica ideologia nazional-conservatrice. La retorica patriottica di Putin, in sé non necessariamente nazionalista, svolge tuttavia una funzione centrale nel suo disegno di rafforzare il proprio sistema di potere marginalizzando le opposizioni sociali e politiche. Anche durante la crisi ucraina del 2014, Putin non ha favorito un etno-nazionalismo russo, visto dal suo entourage come una possibile minaccia all’unità della stessa Russia e ai suoi interessi di potenza imperiale, fondati sulla difesa del “mondo russo” (Russkij Mir), composto sia dai russi della Federazione che dai residenti fuori dai suoi confini, ma inteso anche come una realtà di carattere spirituale, che andava cioè al di là dei limiti dell’etnia russa. In quest’ottica, la “Russia spirituale” rappresentava i valori tradizionali della “vera Europa”, traditi dalle élite politico-culturali occidentali.

La popolarità di Putin si è fondata anche sulla retorica della difesa degli interessi delle minoranze russe e russofone delle ex repubbliche sovietiche, funzionale alla costruzione del consenso all’interno della Russia stessa, sia nella destra ultranazionalista che nell’area dei nostalgici dell’Urss. Questi gruppi erano accomunati dalla volontà di ricostruire un’area grande russa, a vocazione imperiale, in cui includere le ex repubbliche anche sotto forma di “protettorato”, com’è accaduto in Bielorussia e come doveva accadere in Ucraina: progetto, quest’ultimo, che fu poi bloccato nel 2014 con la caduta del presidente filorusso Viktor Janukovyč. Putin ha però sempre ostentato rispetto nei confronti delle differenze etno-religiose, instaurando una rete di collaborazioni con le élite delle repubbliche ex sovietiche. Allo stesso tempo, il presidente russo e il suo gruppo di potere hanno dovuto fare i conti con l’esistenza di un sentimento etno-nazionale russo, spesso xenofobo, presente nella propaganda dei gruppi politico-intellettuali di opposizione e del parastato. Più che un nazionalismo etnico, quindi, il regime putiniano ha elaborato e sviluppato un nazionalismo di stato. È questo che ha consentito di porre su una stessa linea di continuità il passato imperiale russo e l’esperienza sovietica, garantendo una moderata autonomia alle minoranze nazionali nella cornice di un conservatorismo politico-sociale. Il Cremlino ha in sostanza condotto una politica flessibile, capace di generare consenso, basata sul patriottismo grande russo e su una radicata diffidenza nei confronti del sistema occidentale. In questo quadro sincretico, i simboli della tradizione imperiale russo-sovietica sono stati largamente accolti e utilizzati, da Ivan il Terribile ad Alessandro III, da Aleksandr Suvorov a Georgij Žukov e a Jurij Gagarin.

Centrale nell’ideologia imperiale putiniana è il concetto di “verticale del potere”, per cui il leader si pone in una posizione sovraordinata rispetto alla società, e il suo potere è in grado di diramarsi a tutte le membra del gigante eurasiatico. Preservare questa “verticale” dalle minacce esterne, occidentali, ed interne, ossia una possibile rivoluzione fomentata dallo stesso Occidente, è il fine e l’autogiustificazione della politica putiniana. In questa prospettiva, mantenere il potere significa in ultima analisi difendere lo stato e quindi scongiurare l’eventualità che la Russia imploda come l’Unione Sovietica. La proiezione imperiale putiniana degli ultimi anni si è quindi articolata su un piano sia territoriale che identitario. Se per quanto riguarda il primo, si è guardato alla vasta area eurasiatica, a cominciare dalla Bielorussia e da una parte dell’Ucraina, per il secondo si è trattato invece di ristabilire una continuità con quella che il presidente e la sua propaganda considerano essere la missione storica della Russia: la preservazione di quell’identità imperiale travolta dalla guerra civile del 1917-22 e successivamente tornata in vita attraverso l’impero sovietico di Stalin, sotto la superficie dell’ideologia marxista-leninista.

 

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