TENTAZIONE, DESIDERIO, IMMAGINE
ULDERICO POMARICI
1. “I can resist anything except temptation” (posso resistere a tutto tranne che alla tentazione). Con questa celebre frase, tratta da Il ventaglio di Lady Windermere, Oscar Wilde sferzava la morale delle religioni rovesciando in positivo il negativo senso tràdito. Nel corso dei secoli, le varie precettistiche che declinavano il dover essere dell’uomo avevano infatti consolidato una severa dottrina del peccato che aveva il suo fulcro proprio nelle tentazioni e nella necessità di rifiutarle. E noi dal Padre non dobbiamo essere abbandonati alle tentazioni, come recita la recente riformulazione del Padre Nostro, che invece, in modo inquietante e apparentemente controintuitivo, affermava: «e non ci indurre in tentazione». In realtà, la traduzione corretta del testo sarebbe: «non metterci alla prova», perché noi umani siamo fragili e l’onnipotenza divina comprende, non esclude, le tentazioni. Noi siamo di continuo esposti alle tentazioni, oggi più che mai. Il mondo umano è creatura di Dio, e, come afferma Agostino, è la civitas diaboli, il regno delle tentazioni. E alle tentazioni, dice la dottrina cristiana, occorre resistere, difendersi. Perché anche Dio potrebbe abbandonarci alle tentazioni, così come non toglie il Male dal mondo. Ma le tentazioni alle quali viene sottoposto Gesù nel Vangelo sono in realtà strategiche, la prova decisiva della propria capacità di assumere il governo del mondo, della propria rinunzia a ogni tentazione umana: la dichiarazione di essere di altra natura dall’uomo (e dal diavolo). La tentazione è ontologicamente propria dell’umano e della sua fragilità. Gesù resiste a Satana che lo tenta nel deserto. Qui si riunivano tutti coloro che volevano impadronirsi del potere; era il luogo dove anche Davide era andato prima di impossessarsi del trono del re Saul e dare inizio al regno di Israele. Allora il diavolo lo porta nel deserto perché il potere del Messia nasce proprio nel vuoto del deserto e vuole tentare Gesù spingendolo a cedere all’amore per il potere piuttosto che professare il messaggio evangelico, il potere dell’amore. E lo tenta tre volte chiedendogli miracoli che Cristo si rifiuta di fare. Gesù non vuole fare miracoli che mostrino un potere suggerito da Satana. Dice infatti: «sta scritto: non tenterai il Signore Dio tuo». Gesù ribadisce la propria sovranità su Satana. Non ha nulla da dimostrargli perché anche Satana gli è sottomesso e dunque non può tentarlo. Ma qui, come pure in modo diverso nel caso di Giuda, Satana è utile alla narrazione cristiana: resistere alle tentazioni è la prova della sovranità di Gesù. Dunque le tentazioni sono parte integrante della teologia e della teocrazia. Accade anche in una disciplina spirituale come il buddismo: il Buddha Sakyamuni, il Buddha storico, nel suo percorso verso l’Illuminazione si è trovato al cospetto delle tentazioni inviategli dal suo nemico, Mara, che vuole distoglierlo dal compimento del viaggio spirituale di liberazione dal Samsara, il ciclo vita/morte dell’uomo contrapposto al Nirvana, la meta celeste. Piacere sensuale, fame e sete, desiderio, dubbio; presunzione o ingratitudine, onori e fama ingiustamente ricevuti, esaltazione di sé stessi e denigrazione del prossimo: tutto ciò, che è profondamente umano, assume, nelle raffigurazioni buddhiste, le sembianze di animali feroci e fantastici, allegorie dei sentimenti e delle loro aberrazioni, o di donne. Dunque le tentazioni assumono qui le fattezze persecutorie del senso di colpa. Se invece assumiamo laicamente la tentazione nel significato originario di temptatio, siamo di fronte a un tentativo, una ricerca, con il fine di oltrepassare i limiti delle proprie conoscenze, raggiungere quell’infinito che è il controcanto della nostra fragilità umana. Faust non si lascia forse tentare da Mefistofele perché vuole squarciare il velo sui segreti della natura e conquistare così un potere sovrumano? Cos’è che lo muove, nel cedere alla tentazione e addirittura rinunciare al potere sulla propria anima, se non il desiderio che è sempre, in mille forme, anche desiderio di conoscenza? Se non l’infrangere il velo che avvolge la conoscenza dell’uomo? La tentazione originaria, quella del paradiso terrestre, non è forse legata in modo indissolubile alla conoscenza? Conoscere vuol dire vedere ciò che fino a quel momento era oscuro. La tentazione quindi dà figura al desiderio di oltrepassamento. L’umanità va oltre, procede dovendosi coprire le pudenda, una volta mangiato il frutto dell’albero della conoscenza: questo è il prezzo da pagare, apprendere che esistono il bene e il male di cui il pudore, la remissione delle tentazioni, è figura essenziale. Che cosa ci tenta, se non afferrare ciò che non siamo ancora ma che vogliamo con tutte le nostre forze e per possederlo indefinitamente? Transgredior, oltrepassare lo status quo, il presente, che in realtà – in senso lato – è proprio di ogni forma di conoscenza, la pulsione a travalicare i limiti del proprio sapere. Andare verso un altrove.
2. Le tentazioni contemporanee hanno natura essenzialmente iconica. Noi, oggi, siamo cacciatori di immagini. Ci aggiriamo in un mondo sempre più immateriale, e tentiamo di continuo di catturare evanescenze senza possibilità tuttavia di appropriarcene. Il desiderio – e la tentazione che ne è parte – fugge in avanti con le sue immagini, slitta sempre oltre e ci costringe a un lavoro di Sisifo. Siamo costretti a inseguirlo con l’immagine di cui è forma, senza speranza di possederlo una volta per tutte: afferrarlo è come appropriarsi della propria ombra, calpestarla. Impossibile. Il desiderio è il daimon che ci guida e ci definisce. È molto improbabile, dice Arendt ad esempio, che noi, che possiamo conoscere, determinare e definire l’essenza naturale di tutte le cose che ci circondano, di tutto ciò che non siamo, possiamo mai essere in grado di fare lo stesso per noi: sarebbe come scavalcare la nostra ombra. C’è insomma un legame strettissimo tra il desiderio, che è il motore del pensiero così come della trasgressione, e l’immagine. Il desiderio ci spinge innanzi, nell’esperienza conoscitiva, attraverso le immagini e il potere dell’immaginazione. In questo senso, Il pensiero autentico è sempre trasgressivo. L’immagine è ciò che noi siamo, e noi non incontriamo più se non immagini, in un mondo ormai virtualizzato dove trionfa l’immaginazione, essenziale elemento costruttivo. Questa è la nostra maniera di conoscere. Questa saggezza è antica. Già nel XII° secolo, nello scontro filosofico tra nominalismo e realismo, il monaco cluniacense Bernardo di Morlay affermava: «Stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus»( “Roma antica esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi”), nel senso antimetafisico di non possedere più certezze ontologiche ma solo le virtù del linguaggio. E se l’uomo desidera ‘per natura’ vedere, come recita l‘incipit della Metafisica di Aristotele, l’immagine, fisica o mentale che sia, implica di per sé un rapporto con il desiderio. Anzi, l’immagine è desiderio, lascia sempre a desiderare, non coincidendo mai con la cosa vista. La cosa eccede sempre la sua immagine. Un lato della cosa si sottrae inevitabilmente allo sguardo. Vediamo solo quello che vogliamo vedere, mai la cosa nella sua totalità. ‘Curiosità’ significa letteralmente prendersi cura di questa mancanza, del vuoto che si apre oltre il visibile. Talvolta oltre il lecito, come nel mito di Atteone. Quanto più un oggetto del desiderio è proibito, più severa la censura dello sguardo, tanto più l’oggetto diventa appetibile. Quanto più è distante, sconosciuto, tanto più aumenta la sua capacità di sedurre o spaventare. Omne ignotum pro magnifico est significa questo: che siamo indotti a ‘magnificare’, dunque a ingigantire, ciò che non conosciamo, ciò che non è trasparente alla nostra intelligenza. Il non visibile. Se il mito classico, con i suoi riusi moderni, racconta il castigo di chi ha trasgredito un divieto di vedere, la versione contemporanea della pulsione scopica è invece sempre più desiderio di essere visti. C’è uno spostamento della hybris e della sanzione conseguente che ricompone l’ordine infranto: si viene divorati, o consumati, bruciati, non per aver visto, ma per essersi troppo concessi alla vista altrui. Per aver ceduto alla tentazione in un eccesso di immagine e di desiderio. Il rifiuto della realtà, tuttavia, in un futuro distopico, sarebbe, oggi, proprio l’iconoclastia.
3. C’è un racconto platonico che illustra bene questa ambiguità del desiderio e della tentazione anche in filosofie precristiane. Anzi, le prepara. Nel quarto libro della Repubblica fa la sua comparsa un tale Leonzio che, mentre saliva al Pireo, notò dei cadaveri distesi ai piedi del carnefice; da un lato desiderava vederli, dall’altro per ripugnanza distoglieva lo sguardo. Per un certo tempo lottò e si coperse il volto, ma alla fine, vinto dal desiderio, spalancò gli occhi e corse verso i cadaveri gridando: «Ecco, disgraziati, saziatevi di questo bello spettacolo». Leonzio è combattuto da desideri contrastanti: il desiderio di guardare uno spettacolo ripugnante e il senso di repulsione che lo spinge ad allontanarsi. Diviso tra due forze. Qui è in atto uno scontro il cui esito non è scontato. In un momento precedente, Socrate aveva assimilato l’ira (thymoeides), nella sua forza dirompente, al desiderio (epithymetikon). Mentre ora, nel conflitto dell’anima, l’ira prende le armi a sostegno della ragione (logistikon). Il desiderio, infatti, è sinonimo di tentazioni dalle quali occorre difendersi. Questo racconto è molto importante perché per la prima volta nella tassonomia platonica istituisce accanto alla dimensione razionale dell’uomo e a quella passionale, una terza dimensione, quella dell’ira, virtù bellica propria dei soldati a guardia della Città e dell’equilibrio dell’anima individuale. L’ira, arma bifronte (in quanto può allearsi con la ragione o con le passioni), fondamentale per contrastare le tentazioni del desiderio colto nella sua dimensione destrutturante. Qui diventa chiaro, per la prima volta, l’isomorfismo tra anima individuale e Città: entrambe scorrono in parallelo e necessitano di forme analoghe per poter vivere bene. Entrambe sono minacciate dalle tentazioni dell’epithymetikon. Questo cosa significa? Che la ragione, da sola, non è in grado di difendersi, è in balia delle tentazioni. La parte irascibile – strategica per sopraffare il desiderio libero da ogni freno in quanto privo di arché, acefalo – gli impone invece un principio, alleandosi con il logistikon e ponendosi a guardia di questo. Al piacere del sapere e a quello del guadagno si aggiunge così, un Terzo fondamentale che fa da fulcro, il piacere della vittoria. Un principio bellico, la lancia che deve saper contrastare gli appetiti sfrenati che naturalmente ci possiedono. A meno che, dice Platone, il thymoeides non venga corrotto da una cattiva educazione. In quel caso si alleerà con il desiderio (e le sue tentazioni) portando alla rovina l’anima e la Città. Ma Platone, contro la stasis, la guerra civile che distrugge anima e Città, pretende l’unità. Chiede l’unità dell’anima e della Città contro ogni deviazione. Lo spazio del desiderio è infatti eversivo, costellato dalla poliedricità delle tentazioni che vi trovano luogo e continuamente rinascono, come le teste dell’Idra. Tutti elementi che confluiranno nelle precettistiche religiose e morali nei secoli successivi.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Endoxa luglio 2023 Tentazioni ULDERICO POMARICI
