TENTAZIONI: BREVE MEMORIA DI UN’EREDITÀ EBRAICO-CRISTIANA

Masolino,_Tentazione_di_Adamo_ed_Eva,_dettaglio,_Cappella_Brancacci_1CARMELO VIGNA

1. Tutti usiamo distinguere le “tentazioni” dai “tentativi”, anche se i due termini hanno in comune quel che il verbo “tentare” solitamente significa. Il verbo dice di cosa “neutra”, mentre la “tentazione” fa venire in mente una situazione in cui per un essere umano ne va del bene e del male. Implica, in altri termini, la chiamata a una scelta. Ciò che, invece, il “tentativo” non include in sé e per sé. In effetti, quando uno è “tentato”, è tentato di “andare oltre” una certa situazione o una certa condizione. Ad es. uno è tentato dalla passione per il gioco d’azzardo o è tentato dall’assunzione di droghe o è tentato dal desiderio di vendetta per un torto subìto. L’“oltre”, poi, significa solitamente “oltre il lecito” oppure “oltre la regola” oppure “oltre la misura” oppure “oltre il costume”. Il “lecito”, la “regola” o la “misura” o il “costume” ancora una volta alludono inevitabilmente, anche se variamente, alla differenza tra bene e male. “Male” è ciò che sta “oltre” il “lecito” la “regola” o la “misura” o il “costume” ed è ciò verso cui il trasgressore, dunque, procede: “trasgressione” dal bene al male, ossia “scelta del male, anzi che del bene”. Questo detto molto in generale.

2. Due sono i luoghi fondamentali della figura della tentazione nella tradizione ebraico-cristiana: il primo luogo è quello di Genesi, 3, celeberrimo (Adamo ed Eva tentati dal serpente); il secondo è quello evangelico delle tentazioni di Gesù (racconto in Matteo e Luca, cenno in Marco, omissione in Giovanni). Naturalmente, episodi simili, cioè riconducibili alla cifra della tentazione sono numerosi nella Sacra Scrittura (v. ad es., la storia di Davide e Betsabea), ma li lasciamo tutti in ombra, anche perché i due archetipi citati possono da soli “saturare” in qualche modo il senso (breve) della cosa.

3. Las tentazione adamitica – che è poi un racconto popolare (di valore simbolico) – mette in campo il più potente tra i tentatori, cioè il demonio nella forma del serpente, e (forse) il più vulnerabile dei tentati, ossia la coppia umana originaria. Il suggerimento del serpente ai progenitori, come tutti sanno, è di mangiare il frutto dell’albero del bene e del male per diventare come Dio. E questo, nonostante il divieto proprio da Dio proveniente (si accenna anche a un proibizione per l’“albero della vita”…).

4. Eritis sicut Deus. La tentazione è tanto più potente, quanto più grande è il premio ai tentati. E quale premio più grande che “diventare come Dio”? E chi resisterebbe a una tentazione dove si consegue il possesso di tutto al costo solo di un gesto quasi innocuo e… a portata di mano? Tanto più che il suggeritore insinua l’idea che la proibizione divina è dettata da paura e da invidia. Dio non vuole accanto a sé altri come lui, insinua il serpente.

5. Lo schema del racconto popolare sembra fatto apposta per denunciare l’ingenuità o la dabbenaggine dei progenitori, a cominciare dalla donna. Ma la mira principale del racconto non è quella, a mio avviso. Il racconto dei vecchi saggi di Israele vuole invece ammonire gli umani, svelando un meccanismo molto spesso poco avvertito, ma sempre micidiale per chi si lascia da quel meccanismo imprigionare. È un meccanismo che fa perno sull’essenza stessa dell’uomo e sul desiderio che vi inside. Lo vedremo meglio tra poco.

6. Si rifletta, intanto. Ogni essere umano è “immagine” di Dio, si dice nel primo dei due racconti delle origini. E questa “immagine” è posta come il vertice della creazione. E a un essere che in qualche modo sa di Dio e che in qualche modo è già somigliante a Dio, perché vietare di diventare compiutamente Dio? Non sembra, questo, un divieto arbitrario e crudele? E non sarebbe giusto disobbedire a un divieto siffatto? Non ne va forse dell’umana dignità?! L’avvertimento drammatico di Dio: “Se mangerete di questo frutto, ne morirete” sembra confermare, d’altra parte, la natura minacciosa del comando, e quindi l’origine del comando in un nemico, non certo in un amico.

7. Questa storia popolare narra pure il seguito della trasgressione originaria: la severità di Dio per i trasgressori, ma anche la pietà e la tenerezza di Dio per loro. Dio non solo non li fa morire, i due, ma anzi cuce loro delle vesti per ripararli dal freddo… E si aggiunge anche la smentita del Mentitore, nel racconto, e anzi la sua condanna, perché Dio assicura che “la donna” (e la sua “stirpe”) gli schiaccerà il capo. Il Mentitore in nessun caso l’avrà vinta…

8. La “storiella” di Genesi, 3 allude, già ne accennavo prima, a una dinamica generale delle umane tentazioni, proprio perché mette in campo la tentazione di… diventare come Dio. E questa, in effetti, a me pare la radice di ogni tentazione, piccola o grande che sia. Lo si può subito ricavare da questa semplice sequenza: cedere a una tentazione significa cedere alla tentazione di oltrepassare una legge (o una regola o una misura o un costume condiviso). Ma oltrepassare, in tal caso, significa simbolicamente rifiutare la sequela della legge e quindi giudicare la legge come chi, quanto alla legge, se ne sta al di sopra. Ora, la legge implica l’indicazione di un limite per l’uomo e il limite per l’uomo implica a sua volta il limite dell’uomo. Rifiutare questo limite è lo stesso che rivendicare l’illimite per sé. Cioè, rifiutare la finitudine è rivendicare per sé l’infinità. Ma l’infinità è ciò che si può predicare solo dell’Assoluto.

9. È facile, a questo punto, intendere la stretta “parentela” tra il racconto popolare di Genesi, 3 e ogni umana tentazione (cui prima accennavo). Anche la più piccola. Acconsentire a una piccola tentazione significa, infatti, erigersi a padrone della regola, per piccola che sia la regola. E poiché ogni regola, per piccola che sia, simboleggia la relazione tra il finito e l’infinito, la trasgressione di ogni regola è come la trasgressione adamitica: dove esplicitamente l’io degli umani aspira ad emulare la divina onnipotenza, quella che decide del bene e del male. Facile anche intendere come l’albero del bene e del male sia accompagnato nel giardino dall’albero della vita. Chi decide del bene e del male è onnipotente. Chi è onnipotente possiede la vita per sempre.

10. Andiamo ora al secondo racconto, cioè al racconto delle tentazioni di Gesù Cristo. Questo racconto non è tanto un racconto “popolare”, come quello di Genesi 3, ma certamente non è neppure un “resoconto” cronachistico. Sembra costruito piuttosto, anch’esso, come un racconto simbolico, tessuto, com’è, di riferimenti scritturistici, ossia sembra costruito come un racconto che “riflette” (non mi viene in mente parola migliore) una misteriosa e decisiva tappa spirituale della vita del Cristo.

11. Come è noto, la doppia narrazione evangelica (paralleli: Mt., 4, 1-11; Lc., 4, 1-13) racconta di tre tentazioni, che Gesù respinge con risposte taglienti. In tutte e tre, la trama si regge sullo stesso suggerimento del Tentatore: oltrepassare una certa condizione di finitudine. Che le pietre possano essere tramutate in pane o che si possa fare un volo dal pinnacolo del tempio senza sfracellarsi al suolo o che si possa diventare padroni del mondo, è sempre l’oltrepassamento della finitudine che viene suggerito all’uomo Gesù: oltrepassamento da parte dell’io (come padrone della legge) rispetto alla legge umana o naturale), così che appaia evidente che l’io prende (cioè poi usurpa) il posto di Dio. Nella seconda tentazione, Satana suggerisce addirittura al Cristo di… mettere alla prova Dio!

12. Eritis sicut Deus è, dunque, il nocciolo duro del senso della tentazione. Di qualsiasi tentazione. Persino nella storia della tradizione spirituale – quanto al demoniaco – si lascia intendere che la “caduta” angelica è venuta dopo il grido (satanico): “Non serviam!”, cui fa da contraltare, si narra, la barriera combattiva dell’arcangelo Michele: “Quis ut Deus?!” (Mi-ca-el è l’ebraico di “Chi come Dio?”). Ma, al di là delle note devozionali popolari cristiane, fa fede di senso la rivelazione neotestamentaria in cui il Cristo di Dio dice di sé che è venuto per servire, non per essere servito. La giovannea “lavanda dei piedi” ne è forse la raffigurazione simbolica più potente, mentre la frase paolina di Filippesi, 2, 5-11 (… semet ipsum exinanivit formam servi accipiens…”) ne è la sintesi teologica più efficace.

13. Ora, per finire, qualche complemento en philosophe. La “somiglianza” degli umani con Dio non può che essere riferita (ed è stata sempre riferita) al “logos”. È noto che Aristotele, per definire l’uomo come specie diversa dagli altri animali, lo dice “zoon logon echon” (“animale che ha il logos”) ed è noto che con il termine “logos” i greci indicavano tutto ciò che ha a che fare con l’uso dell’intelligenza (pensare, intuire, parlare, discutere ecc.). Giovanni apostolo, con geniale audacia, addirittura conia le prime battute del suo racconto evangelico usando di questa antica parola greca, cui imprime una radicale curvatura cristologica. “En arché en o Logos…”. Boezio, alcuni secoli dopo, ritorna sul tema aristotelico, sottolineando che il “logos” non è solo qualcosa che l’animale uomo ha o possiede, ma è la forma ultima dell’individualità umana. Definisce, come si sa, la persana umana nel corso delle sue ricerche teologiche come “rationalis naturae individua substantia”. Dove la sostanza individuale che l’uomo è, è “per essenza razionale” (“natura” qui va tradotto con “essenza”). Tre secoli di filosofia moderna (da Cartesio ad Hegel) e parte della filosofia del Novecento (da Husserl a Gentile e fino a Gustavo Bontadini almeno) sono venuti in chiaro sulla trascendentalità del “logos”. Cioè sulla natura intrascendibile della soggettività o sulla infinità intenzionale dell’orizzonte dell’umano manifestare ciò che è. Ebbene, questa “infinità intenzionale” è, in ultima istanza, la condizione di possibilità della “tentazione” umana. Basta scambiare (maldestramente) questa “infinità intenzionale” per una infinità tout court (cioè per una finità ontologica) è il gioco è fatto. E anche le persone più geniali (e forse soprattutto quelle) ci cascano. Basti qui ricordare il Nietzsche di Al di là del bene e del male

14. Parte dei contemporanei (specie in Occidente, specie tra i più giovani) sembra vivere all’ombra di Nietzsche. Sembra una accolita di suoi nipotini… L’idea di una libertà onnilaterale, la trasformazione di ogni desiderio in un bisogno e di ogni bisogno in un diritto, la convinzione d’aver diritto a diritti dì ogni genere, tutto questo sarebbe incomprensibile senza la nascosta e diffusa convinzione di potersi installare “al di là del bene e del male”. La frequentazione assidua dei “Social” fa il resto: con la confusione – che induce – di reale e di virtuale. Siamo, per esare altra formula, ai diritti senza doveri, quindi alle pulsioni senza la modulazione della saggia ponderazione. La tentazione è così inconsciamente ridotta a un innocuo… “tentativo”.

15. È da rammentare che una deriva siffatta si è più volte storicamente realizzata. E tutte le volte ha partorito il deserto e la morte. Come nelle guerre. Come nella degenerazione dei costumi. Come nella dissoluzione di alcune civiltà. Ma non può essere questo l’umano destino. E per nostra fortuna non lo è. Lo ha inteso avvertire Giovanni nella sua Apocalisse. Lo ha assicurato Gesù a Pietro: Portae inferi non praevalebunt… (Mt., 16, 18). Il mondo della tentazione può essere solo parte del mondo penultimo, e in ogni caso finirà. L’ultimo è il mondo della sequela del bene senza ombre. Che in qualche maniera è già qui, anche se a modo di seme (o anche di “piccolo resto”).

Masolino, Tentazione di Adamo ed Eva, dettaglio, Cappella Brancacci 1” by Nicola Quirico is licensed under CC BY-SA 4.0.

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