I VOLTI DI REMBRANDT E IL DIALOGO DELLA COSCIENZA
GABRIELE DE FILIPPO
Nel corso della sua vita Rembrandt, autore di circa ottanta autoritratti, come in una specie di diario illustrato, si è costantemente posto in dialogo con la propria figura. Per oltre quarant’anni, dalla prima immagine in cui si ritrae – nella Lapidazione di Santo Stefano del 1625 – fino agli ultimi quadri del 1669, l’anno della morte, egli ha fatto coesistere i vari tempi della sua vita nello spazio di un volto. Da un corrugamento della fronte a uno stiramento delle labbra, da una contrazione delle pupille all’arrossire delle guance, i solchi o le rughe che l’età, le abitudini, gli eventi vi hanno depositato racchiudono e raccontano l’evoluzione di una storia, di un quotidiano colloquio con se stesso e con gli altri mai interrotto. Rembrandt si è rivelato capace di conferire al suo vissuto – anche piuttosto travagliato talvolta, soprattutto nell’ultima fase della sua vita – quella che potremmo definire, letteralmente, come un’identità rifinita a regola d’arte. A più di tre secoli di distanza, quando i nostri occhi si soffermano ad interrogare le straordinarie memorie che ci ha lasciato, la sua immagine continua a manifestarci o nascondere determinati pensieri e passioni. Nell’ultima serie di autoritratti della vecchiaia, dipinti dal 1660 al 1669, ad esempio, i disegni, le incisioni o i dipinti che lo raffigurano, non lo rappresentano più vestito da soldato, da santo, da orientale, da nobiluomo con catena d’oro, pelliccia o camicia ricamata, oppure addobbato con berretti delle più varie fogge; piuttosto, in un periodo segnato dal lutto e dalla povertà, egli concentra nei tratti melanconici e stanchi del suo viso l’impietoso lavoro di scavo che il tempo e la cognizione del dolore hanno operato su di lui. Questo dialogo silenzioso con la propria immagine, infatti, costituisce per Rembrandt il precipitato di vicende e stati d’animo che si sono trasformati in carattere e in tratti fisionomici. Oltre l’immobile res extensa di un corpo che mostra, anno dopo anno, i suoi progressivi deterioramenti, la stratificazione di qualità secondarie e valori simbolici che conserva continuano a interpellarci ancora oggi con la medesima peculiare intensità vitale di un tempo. I volti di Rembrandt dialogano con lo spettatore: contemplando la sua immagine dinamica e reattiva noi ci avvertiamo a nostra volta scrutati da uno sguardo che – forse manifestando qualcosa di analogo al ritratto della Monna Lisa del Giocondo – rivela una qualche verità anche su noi stessi e sull’essere umano in generale; la testimonianza, per così dire, di una storia “viva”, tanto più umana e comune, quanto più unica e irripetibile, ancora in grado di emozionarci e sulla quale residua sempre qualcosa di ulteriore da dire.
Rammentando ed arricchendo le interpretazioni di Simmel e di Schama (, Remo Bodei (2011) ci ha suggerito che le memorie di Rembrandt ci parlano poiché il pittore ha mostrato come nel viso il «massimo di tempo si concentri nel minimo di spazio». Raccontandoci una storia in cui l’individualità accoglie in sé e rielabora in modo assolutamente originale le contingenze della vita, l’artista ha smussato o accentuato di conseguenza i tratti di un’identità che si è resa tanto più universalmente riconoscibile quanto più è risultata abile nell’intrecciarsi con altre vite ed eventi particolari. Rembrandt, grazie alla sua impareggiabile abilità nel mantenere aperto nel tempo il dialogo silenzioso tra se stesso, la sua identità e tutto ciò che la trasforma, si è dimostrato capace di esprimere massimamente superficie e recessi della condizione umana, in tutta la sua potenza come in tutta la sua miseria, attraverso la traduzione del dialogo silenzioso con la propria coscienza in arte, racconto muto di una storia che è anche in parte la nostra.
È vero, siamo abituati a pensare che il dialogo sia fatto di parole, non di tempi: ce lo rappresentiamo soprattutto come discorso parlato, colloquio fra due o più persone, come discussione più o meno concorde o che miri a un’intesa, magari all’incontro tra forze politiche diverse, oppure come un componimento o trattato in cui, invece della forma espositiva o narrativa, viene utilizzata la forma dialogica (come nel caso dei dialoghi di Platone o di Giordano Bruno, ad esempio).
Eppure mi sembra che gli autoritratti di Rembrandt ci segnalano come la dimensione all’interno della quale si costituisce e sviluppa ogni dialogo fecondo sia propriamente il tempo. Nella sua accezione più comune, il tempo rappresenta per noi l’orizzonte di senso entro cui disporre gli eventi – quelli individuali come quelli collettivi – che ci riguardano, ordinandoli, ponendoli in relazione e lasciandoli dialogare tra loro secondo le regole e le strategie che la nostra personale capacità di assimilazione e risemantizzazione dei ricordi più significativi elabora nel corso della vita: ciò definisce la nostra storia e rende manifesti i tratti maggiormente riconoscibili della nostra identità. Se non dedicassimo il tempo necessario al dialogo con la nostra coscienza, e con esso alla costellazione di rapporti, attività, impegni, passatempi, responsabilità, scadenze, passioni che ci sorreggono, infatti, la nostra conoscenza riguardo fatti o teorie rimarrebbe superficiale, nessuno dei nostri progetti riuscirebbe mai a decollare, la soluzione ai problemi che incontriamo difficilmente verrebbe trovata e la comprensione delle parole, delle persone e delle situazioni che, di volta in volta, ci interpellano si rivelerebbe per noi una missione disperata, se non addirittura suicida.
Da qui il paradosso del ‘nostro tempo’: persino l’abbondanza di tempo libero non si risolve più in un rallentamento del tempo della vita individuale, in una hegeliana «domenica della vita», in un fertile dialogo con la propria coscienza e con gli altri, ma in una sua ennesima accelerazione, in una corsa fatta di scadenze e impegni per tenere faticosamente il passo con quello di una società dominata dalla competizione e segnata in molti casi dal desiderio di accumulare in breve tempo il maggior numero possibile di esperienze (anche a causa, per molti, della minore plausibilità della promessa di vita eterna dopo la morte). Ciò implica, seppure in termini di accettata normalità quotidiana, che il presente – a tutta prima così pieno di cose e di eventi – sia, in verità, vuoto di significato, perché abbandonato ad un futuro ridotto ad accumulazione incessante di esperienze interscambiabili, nonché privato del controllo vigile di una coscienza ‘coscienziosa’. Se è vero, dunque, che il nostro presente, è in realtà già un passato, in ritardo di una frazione di secondo, il nostro tempo storico, al contrario, invecchia sempre più in fretta, «zippato» nella velocità dei mutamenti dell’esperienza individuale e collettiva che comprimono fino a renderne incomprensibile il senso generale.
Il sentire se stessi come appartenenti a una storia, al contrario, implica una coscienza paziente e capace di fare i conti con la pluralità di sensi che investe tutte le cose, disposta a incorporare relazioni sociali e naturali il cui valore simbolico non è riducibile al solo valore d’uso o a schemi conoscitivi e che richiede tempi e pause di riflessione appropriati ad ogni nuova sfida.
In altri termini: soltanto un verace dialogo con se stessi e con gli altri, protratto nelle diverse epoche della nostra vita nonostante i rischi e le sofferenze che un tale compito ciclopico, ma irrinunciabile potrebbe talvolta includere lungo il tragitto, impedisce alla coscienza di atrofizzarsi, di procedere col pilota automatico inserito e finendo col diventare oltremodo schiava di tutte quelle abitudini (Hegel, non a torto, le definiva “meccanismi spirituali”) che impediscono al dialogo della coscienza di far saltare equilibri ormai irranciditi, seppur ben rodati. Modalità di organizzazione alternative, più adatte alle nuove esigenze, ma poco testate e, quindi, ancora incerte sul piano della concretezza e della correttezza applicative potranno allora saltare all’occhio della mente ed essere prese seriamente in considerazione. Il dialogo è, infatti, costitutivamente apertura al nuovo, altrimenti non ci sarebbe ragione di scambiarsi opinioni contrastanti, di meravigliarsi per alcuni avvenimenti su cui desideriamo invece dibattere, né di esternare alcun tipo di impressione soggettiva per descrivere il nostro stato d’animo attuale. Tentare un dialogo mentre si rimane arroccati nelle proprie convinzioni o incollati alla melma della propria routine è una contraddizione in termini che riduce la nostra proprietà di linguaggio a chiacchiera o contumelia.
Da un lato, proprio perché il mondo, per l’esserci, non è una realtà da contemplare, ma un insieme di strumenti da adoperare, nella manipolazione delle cose egli si trova sempre in mezzo agli altri: Heidegger ha sottolineato come tutto ciò porti a sviluppare la tendenza a comprendere il mondo secondo l’opinione comune, a pensare quello che si pensa, a progettarsi cioè in base all’anonimo si della mentalità pubblica. Le opinioni comuni, infatti, spesso si condividono non perché le abbiamo effettivamente verificate, ma solo perché sono comuni e anche quando si contrappone agli altri, l’esserci lo fa rimanendo per lo più negli heideggeriani schemi del si: «Ci teniamo lontani dalla ‘gran massa’ come ci si tiene lontani, troviamo ‘scandaloso’ ciò che si trova scandaloso» (corsivi miei)». Nel mondo del «si», pertanto, dominano la chiacchiera, la curiosità e l’equivoco: il carattere comune di tutti questi fenomeni è che riducono ogni dialogo a vuote parole che lasciano il tempo che trovano, la distanza dei cuori e delle menti tra gli interlocutori non viene accorciata mediante discorso, anzi, non essendo toccate minimamente le corde della coscienza, il destino delle considerazioni fatte rimane semmai quello di dileguarsi immediatamente nell’etere dei vaneggiamenti e della verbosità inconcludente.
In contrapposto a ciò, la contumelia o rissa verbale scatta quando la coscienza comune, stentando a orientarsi nello sviluppo rapido, accidentato e diseguale di vicende e saperi – la cui complessità e interdipendenza dei dati più diversi ha raggiunto, ormai, una dimensione quasi incommensurabile per la capacità di impadronirsene e di elaborarli da parte di un individuo – si abbandona alla parola carismatica del capo o ritiene di essere già in possesso della verità: in questo caso, ciò che in apparenza si presenta alle nostre orecchie come un dialogo rimane, nel migliore dei casi, una polifonia di monologhi, mentre nel peggiore, il pretesto per degenerare nell’alterco e nello scontro fisico.
In merito alla questione, uno dei padri fondatori dell’ermeneutica quale Gadamer, non ha mancato di sottolineare come capire qualcosa significa provocare una “fusione di orizzonti” proprio perché la verità non è monologica, ma dialogica e richiede sempre dei tempi di incubazione prima, di metabolizzazione poi, che non possono essere ignorati: essa non svela un dato preesistente a cui il nostro intelletto era destinato ad adeguarsi passivamente sin dall’inizio, ma il risultato attivo dei nostri dialoghi e dell’interpretare in comune.
Dal latino dialogus, in greco antico διάλογος, composto di dià, “attraverso” e lògos, “discorso”, il dialogo letteralmente, non a caso, indica quel movimento per cui due o più persone si lasciano attraversare reciprocamente dalla parola al punto che la condivisione di informazioni utili, stati d’animo di portata epifanica, battute sagaci e alquanto riuscite, ma anche di osservazioni meno essenziali come pettegolezzi, provocazioni, dettagli frivoli, uscite infelici, modifica il panorama mentale che mantiene o meno in colloquio i dialoganti, trasforma i loro convincimenti, ne altera la condotta nel tempo.
Dal latino tempus, parola riconducibile alla radice indoeuropea tem– (taglio, sezione), da cui i termini greci τέμνω (separo) e τέμενος (recinto) comprendenti i significati di fase, periodo, intervallo, soltanto il tempo ci offre, pertanto, la possibilità di crescere assieme nel dialogo, di procedere oltre le sabbie mobili del presente. Dando ascolto e rielaborando a misura della propria creatività consigli e pareri altrui, possiamo avvalerci dei nuovi strumenti offerti da un colloquio la cui incisività pratica, se orientata ad un costante esercizio di ascolto critico e fiducia reciproca, ci rende in grado di perfezionare le lenti attraverso cui filtriamo la realtà, può aiutarci a governare meglio la fitta rete di notizie attraverso cui passiamo ogni giorno al setaccio tutte le nostre esperienze.
D’altro canto, impegnarsi ad elaborare la nostra immagine complessiva del mondo nel dialogo, alla luce di considerazioni maturate non esclusivamente in solitaria, bensì condivise all’interno di un gruppo, espone all’eventuale messa in dubbio delle posizioni sostenute nel dibattito e sottopone al legittimo monitoraggio della comunità. Ogni atto di condivisione è sempre, infatti, anche un temibile banco di prova per le nostre idee, in ogni parola si annida la seccante possibilità di venire fraintesi, i nostri valori – cioè, letteralmente, quelle argomentazioni capaci di farsi valere in una pubblica disputa – possono unirci come allontanarci. Cionondimeno soltanto il pugnace colloquio con se stessi e con il mondo rende la nostra coscienza propriamente umana e giudiziosa, quello stesso dialogo silenzioso tra sé e la vita che Rembrandt ha portato avanti in maniera esemplare durante tutta la sua esistenza e che può riaccendere in ognuno di noi la scintilla capace di alimentare il fuoco della passione, sostituire i binari morti di una quotidianità asfissiante con l’energia dei nuovi inizi, rinvigorire l’anelito a conoscere se stessi che ci responsabilizza e conserva spiritualmente in vita attraverso lo scorrere degli anni.
ARTE ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA DIALOGHI ENDOXA SETTEMBRE 2023 GABRIELE DE FILIPPO

