MADRE, OVVERO DEL CORTOCIRCUITO NEL DIALOGO TRA L’UOMO E L’ARTE
LUCILLA MININNO
Dall’uscita della Madre di Darren Aronofsky (2017), film impresso come immenso nell’immaginario di chi scrive, sono passati alcuni anni. Ma nel frattempo, indimenticabile, l’opera continua ad avere la capacità di insinuarsi, lentamente, nel notturno dell’anima, specie se ti collochi nella schiera di coloro che da tempo si stanno domandando in quale momento preciso della storia collettiva si sia incredibilmente rotto qualcosa nell’antropologico dialogo tra uomo e arte. È possibile che tale corto circuito sia proprio quello narrato attraverso il conflitto tra i due protagonisti dell’opera di Aronofsky, attraverso il conflitto tra sacro e santo di cui l’opera parla?
Seguendo l’evoluzione della vicenda, drammaturgicamente, abbiamo due protagonisti: lui, il Poeta, uno scrittore di fama e successo, in continua ricerca di ispirazione; lei, la Madre, un’artigiana minuziosa, paziente e accogliente. Vivono in una casa persa nel nulla. Intorno non ci sono viali, percorsi, sentieri, qualcosa che conduca da qualche altra parte. Solo alberi ed erba, di un verde dipinto, un verde scenografia.
Nelle immagini iniziali, la stessa casa è stata appena distrutta da un qualche incendio, di cui non si racconta esplicitamente, ed è lei, la Madre, che la sta ricostruendo. Fa tutto da sola. E mentre lei ricostruisce e si prende cura di lui, il Poeta cerca inutilmente l’ispirazione che non arriva, neanche da quel diamante proibito che lui custodisce gelosamente nel suo studio, quell’unico resto dell’antico incendio, quella reliquia che lui considera il suo regalo, la sua ancora di salvezza.
Fin quando nella casa piomba un uomo, un malato terminale, che finge di essere finito lì per caso, ma che presto si scoprirà trasportare nella sua valigia un’immagine del Poeta, una sorta di santino. Si scoprirà, così, che lui è giunto appositamente per vedere il Poeta prima di morire. È il suo ultimo desiderio, nella speranza del miracolo o, quantomeno, della estrema, benedetta, unzione. Quando scopre l’inganno, nonostante le richieste della Madre che non si fida di lui, il Poeta, però, non lo caccia via, anzi lo tiene con sé: da quell’uomo vuole assorbire la vita, i racconti, in lui vuole trovare uno stimolo per la scrittura che non arriva. Il Poeta cerca nell’uomo malato, nella fragilità della sua vita, nella sua paura della morte, l’ispirazione, la narrazione da costruire. Non lo caccia neanche quando lo raggiunge la di lui moglie e si insidia in casa anche lei; neanche quando i due, per troppa curiosità, rompono il diamante proibito, il regalo tanto prezioso; neanche quando giungono in casa anche i loro figli e uno ammazza l’altro. Piuttosto, oltre che sede del delitto, la casa diventa, per qualche giorno, il luogo della commemorazione, del rito funebre celebrato proprio dal Poeta, davanti ad amici e parenti giunti per l’occasione.
È così che il conflitto tra la Madre e il Poeta si esaspera. Il dialogo e ogni tipo di confronto diventano via via impossibili. La Madre continua a chiedere inutilmente al Poeta di mandare tutti via, di cacciare quegli estranei violenti e invadenti che non hanno alcun rispetto per la loro casa. Ma è solo dopo la loro ennesima, grave, disattenzione, che fa allagare la casa, di fronte all’evidenza della non-cura, che la Madre esplode e riesce a cacciare tutti. Da qui, come dopo un diluvio che ripulisce e rigenera, quando tutti finalmente vanno via, prima assistiamo ad una furibonda lite tra Madre e Poeta e poi la lite si trasfigura in un brevissimo, precario, momento di amore, consumato sul bilico delle scale, un momento di unione tanto fugace e rapido quanto sufficiente, però, per generare un figlio.
È nello stesso istante che il Poeta trova finalmente l’ispirazione e, insieme a suo figlio, concepisce anche l’opera da scrivere.
Ma è proprio quando il conflitto tra i due pare essere risolto, che, invece, inizia la fine.
Pochi mesi dopo, quando la Madre e il Poeta sono ormai prossimi alla nascita del bambino, lo scritto tanto atteso viene pubblicato e i fan e i discepoli iniziano a raggiungere la casa per prendere la propria copia o per un autografo, per una foto. Prima una manciata, poi una massa, poi una folla infinita, un fiume in piena. I fedeli si moltiplicano, a dismisura, entrano da ogni porta e finestra, occupano la casa, la abitano, e, affollandosi gli uni sugli altri, degenerano. Si scannano per i confini, rubano e si ammazzano tra di loro per una copia del libro, per accaparrarsi qualcosa che appartenga al loro santo, al loro idolo, e possano tenere con sé. Prendono così possesso della casa fino a distruggerla. La casa diventa la sede dell’apocalisse, di guerre e conflitti, la sintesi del mondo e della storia dell’uomo, dal diluvio, così come radicato nell’immaginario biblico dell’occidente, in poi. Il tutto per una fede cieca nel Poeta, nella sua parola, a patto che essa sia continua, perpetua, che mantenga le promesse. Ma più la folle cresce, più il Poeta viene schiacciato. La sua parola s’impoverisce e non basta. Deve sempre alzare la posta in gioco. I fedeli hanno così fame di dio, che, per sua stessa concessione, arrivano a mangiare suo figlio, appena partorito, e finiscono per ammazzare la Madre, su cui si accaniscono con una violenza inaudita. È proprio lei, però, che, con le ossa rotte di ira e dolore, un’istante prima della fine, dà fuoco alla casa e pone fine a tutto… Ma il fuoco, come il diluvio aveva anticipato, distrugge e rigenera, per ridare inizio alla storia che ricomincia esattamente come nell’inizio del film: il Poeta estrae dal petto della Madre il diamante e lo rimette al suo posto. Esattamente come nei primi fotogrammi del film.
Ecco che una vicenda narrata con le migliori tinte di un quasi horror, rivela da subito la sua intima natura di discorso sul sacro, o meglio del dialogo tra uomo e sacro, qui perfettamente incarnato nell’arte. Sacro e arte sono d’altronde la stessa cosa: sono sistemi rituali, collettivi.
Tuffandosi nella mente dell’autore, oltre ai vari riferimenti biblici, piuttosto espliciti, si riesce ad intravedere, innanzitutto, che il diamante appare, ancor prima della bibbia, come un totem, ossia come l’oggetto proibito, l’oggetto sacro. Siamo nelle prime forme religiose, quelle elementari ben descritte dal sociologo Émile Durkheim. Siamo prima delle scritture, delle istituzioni religiose tradizionali. Siamo nel sacro come cardine di tutte le forme religiose, siamo nell’elemento originale, elementare, nella sfera delle tribù, dei clan legati dal totem, dei tatuaggi, degli alimenti proibiti, degli animali proibiti, siamo nella sfera dei riti, della loro violenza, del sacrificio, dei rapporti dentro e fuori i clan. Siamo nel sacro per eccellenza, quello studiato dai maestri della sociologia e dell’antropologia, quello in cui hanno affondato la lama l’opera Durkheim-iana e quella Girard-iana. Siamo davanti a ciò intorno a cui si stringevano i primitivi e che permeava tutta la loro vita. Il diamante è l’emblema, ciò che identificava i clan, ciò che stabiliva i rapporti dentro e fuori le tribù. Il tutto all’unico fine della tutela della collettività, della continuità della sua vita oltre la morte. Il totem scelto doveva servire a questo: a garantire la vita del gruppo a dispetto della morte, all’interno di un sistema pagano, ciclico.
E in quanto elemento sacro, il totem era separato dalle cose profane, proibito. Solo pochi eletti potevano toccarlo, solo i santi. E invece, come nell’umanità tracciata da Aronofsky, il problema nasce quando si rompe il diamante proibito, quando, cioè, l’evoluzione umana, sociale, (moderna!) priva la collettività della sacralità. Quando l’uomo malato e sua moglie toccano il diamante e lo rompono, la collettività resta senza il sacro, senza l’elemento proibitivo e legante, senza la sua identità. Resta sola davanti alla morte. E qui nasce la fame del sacro, intesa come vuoto rituale. Il totemismo ritualistico del sacro lascia solo momentaneamente lo spazio alla scrittura, all’istituzione religiosa, al dogma. Il clan lascia spazio a fedeli sottomessi gerarchicamente ad una dimensione superiore. Il sacro diventa fede, compensa il vuoto con un tentativo di rappresentazione verticale del mondo, con una costruzione a tavolino della concezione dell’universo. Ma quanto può durare? Il Poeta non può placare la fame viscerale del sacro… Il Poeta non è la trascendenza! Lui è il santo, il profeta, la scrittura che tramanda con mano umana le credenze, che lo fa linearmente, secondo un rapporto verticale. Ma, una volta crollate le promesse delle sue narrazioni, dove ritrovare il sacro, ancora? Quando l’ispirazione finisce e lo scritto è pronto, le risposte del Poeta non bastano più. Non c’è verbo, né scrittura che regga. Non c’è dogma che sostenga il discorso. Serve l’irrazionale del rito collettivo. Serve di nuovo il totem.
È a questo punto che, nell’opera di Aronofsky, l’odore del sacro si diffonde dalla Madre. Anche se nessuno dei personaggi, inizialmente, lo riconosce, tutti finiscono per sentirlo. Lo sentono nel suo sangue di donna partoriente, sangue che filtra e gocciola nelle mura della casa. È la Madre che genera e rigenera il diamante, che lo racchiude, lo conserva, nel suo petto. Il sacro è in lei. Il sacro è lei, la Madre. È lei che ha il totem nel suo petto, è lei l’emblema, lei che assicura la continuità della storia, è lei il circolare che non prevede né inizio né fine, né vita né morte, ma continuità. È in lei che si manifesta il sacro, è lei il capro espiatorio del rituale collettivo. Lei è la forza irrazionale che crea. Che questa forza la si voglia chiamare dio o madre natura, non importa. Qui la si vuole chiamare, sinteticamente, semplicemente, sacro. Arte.
Il conflitto tra i due protagonisti diventa proprio questo: il santo imposto verticalmente dall’uomo all’uomo (il Poeta, il divo) versus il sacro che tale è per sua natura, per effervescenza collettiva, come direbbe Durkheim, per pratica rituale (la Madre, l’Arte).
Capiremo solo dopo, nel finale, che tutto questo avviene ciclicamente. Dopo ogni incendio, lui, il Poeta, recupera il diamante dal petto di lei, lo rimette al suo posto e la Madre si ri-sveglia, ciclicamente, in un corpo nuovo, chiamando “Amore?”, come se stesse chiedendo allo spettatore dove sia finito, questo sentimento. Il film inizia, e terribilmente finisce, con una domanda, rivolta a tutti “Amore?”. Dietro la parola amore, si ricordi, c’è il sanscrito kama, ossia desiderio, passione, c’è la radice indoeuropea ka, che si traduce con desiderare in maniera viscerale, c’è il verbo greco mao, ossia desidero, ma soprattutto c’è il latino latino a-mors, che si traduce senza morte… Il tutto si traduce nel desiderio di un legame, che ci unisca, oltre la morte…
Non è forse questa la domanda che l’Arte, quella collettiva, quella rituale, pone, o dovrebbe porre, al nostro tempo? Non siamo forse, oggi più che mai, tutti affamati di sacro, di qualcosa che ci leghi, di un dialogo profondo, archetipale, come le correnti più notturne della vita sociale, qualcosa ci unisca nella ricerca della continuità della vita oltre la morte?
E chi altro, universalmente, potrebbe legarci in questa ricerca atavica se non l’arte? Chi, se non l’arte, è in grado di legarci profondamente, nel rito dei suoi loghi, nel silenzio dei suoi sipari, delle sue tavole di legno, nella bellezza delle sue note, dei suoi colori? Il sacro e la sua tribù sembrano non comunicare più. È qui il corto circuito artistico del nostro tempo: nonostante abbiamo profondamente un atavico bisogno di essi, tutti i luoghi in cui l’arte è sacrale, rituale, come i teatri, vengono chiusi, continuamente. È questo il corto circuito che va risolto. Occorre ricostruire lo spazio rituale. E allora qual è l’incendio che dovrà salvarci? Quale il diamante da recuperare? Dove e come ricostruire il rituale? Quale la domanda a partire dalla quale ricostruire? Che non sia, forse, semplicemente quella che Aronofsky centra in pieno: “Amore?”.
ARTE CINEMA ENDOXA - BIMESTRALE ESTETICA FILOSOFIA DIALOGHI ENDOXA SETTEMBRE 2023 Lucilla Mininno
