PROSPETTIVE POLIAMOROSE: DALL’AMORE ROMANTICO ALLE RETI AFFETTIVE

Gruppo-Dipendenza-affettivaGABRIELE DE FILIPPO

Uno dei testi maggiormente conosciuti all’interno della comunità poliamorosa, considerato per molto tempo addirittura la “Bibbia” del poliamore, ossia La zoccola etica (1997) di Dossie Easton e Janet Hardy, definisce una relazione poliamorosa, in termini generici, come «una relazione intima, sessuale e/o romantica che lega tra loro più di due partner e che presuppone la consapevolezza e il consenso di tutte le persone coinvolte. Può assumere le forme più varie, dalla frequentazione libera di più partner (i quali sono tutti al corrente della situazione relazionale di ognuno) al matrimonio di gruppo, e può o meno prevedere, a seconda degli accordi stabiliti dai partner stessi, l’esclusività sessuale tra le persone coinvolte. Il concetto di poliamore si distingue perciò tanto da quello di poligamia quanto da quello di “relazione aperta”».

Una mappatura esaustiva delle origini, delle influenze e degli sviluppi della comunità poliamorosa statunitense è stata presentata poi da Deborah Anapol nel testo Polyamory in the 21ST century (Poliamore nel XXI secolo), pubblicato nel 2010. La «nuova etica sessuale» che contraddistingue la comunità poliamorosa, sostiene in aggiunta la Anapol, si impegna a sostituire la cultura del consenso alla cultura dello stupro, poiché mette al centro della relazione la comunicazione e la solidarietà tra partner.

Su questa scia, in tempi più recenti, con la pubblicazione nel 2018 di Pensamiento monógamo, terror poliamoroso, (tradotto a settembre del 2022 anche in italiano) Brigitte Vasallo ha proposto di convertire l’esperienza d’amore collettiva del poliamore in un vero e proprio strumento di trasformazione politica. Secondo l’autrice, la monogamia non si riduce ad una pratica né, tantomeno, ad un’alternativa relazionale tra le tante, configurandosi, piuttosto, come un sistema ed una forma di pensiero escludente. Scrive a riguardo Vasallo: «La monogamia è un sistema di pensiero che organizza le relazioni in gruppi identitari, gerarchici e avversi, attraverso strutture binarie con poli reciprocamente escludenti. È una sovrastruttura che determina ciò che chiamiamo la nostra ‘vita privata’, le nostre pratiche sesso-affettive, le nostre relazioni amorose. Il sistema monogamo decide come, quando, chi e in che modo amare e desiderare, e anche quali circostanze sono causa di tristezza, quali di rabbia, cosa ci fa male e cosa no. Il sistema monogamo è una ruota che distribuisce privilegi sulla base dei legami affettivi ed è, inoltre, un sistema per organizzare quei legami».

L’autrice, nel corso del libro, ha modo di chiarire anche che la pratica monogama non è una pratica ‘cattiva’ di per sé. Ad essere violento è il sistema in cui è radicata, ma non perché la pratica sia violenta, semmai ha dovuto generare all’interno della propria struttura quella violenza per potersi imporre, «per inocularsi dentro di noi, così come è stato inoculato il colore rosa o la servitù di genere. Per normalizzare. Questo è il problema».

In altri termini, il sistema monogamo, invece che tentare di organizzare una forma di sopravvivenza collettiva, preferisce che ci riproduciamo in modo identitario ed esclusivo, con nomi e cognomi, con lignaggio, segni di riconoscimento. Le creature partorite dal sistema monogamo, di conseguenza, non si avvertono come figlie di una comunità, ma di un padre con nome e cognome e di una madre con nome e cognome. In questo modo non avere cognomi diventa grave tanto quanto averli e non volerli trasmettere. Di più: Vasallo suggerisce che quando proviamo ad analizzare un sistema impositivo dobbiamo guardare sempre ai margini. Questi fanno parte del sistema stesso, che a sua volta li crea. Ai margini si trovano vite per le quali è impossibile accedere alle risorse che il sistema offre, eppure vengono imposte loro le stesse regole osservate da quanti, al contrario, ne beneficiano. L’imposizione, dunque, non esclude tagliando semplicemente fuori gli emarginati, piuttosto li segrega e controlla, lasciando che siano proprio questi ‘mostri’ a confermare il normale della normalità.

A proposito: le nostre credenze sul matrimonio tradizionale risalgono alle culture agricole, in cui tutto ciò che le persone mangiavano, indossavano o utilizzavano era autoprodotto, e in cui un’ingente quantità di lavoro poteva essere svolta solo nel contesto di famiglie estese e numerose; tutti contribuivano a fare sì che nessuno morisse di stenti e il matrimonio svolgeva, pertanto, una funzione utile alla sopravvivenza. Quando parliamo di «valori familiari tradizionali», quindi, ci riferiamo a un modello di famiglia ben specifico: una famiglia estesa a nonni, zie e cugini laddove la «famiglia tradizionale» costituiva originariamente un’organizzazione atta a svolgere il lavoro necessario a mantenersi in vita. Anche oggi esistono famiglie strutturate secondo modalità tradizionali, spesso all’interno di nuclei familiari da poco trapiantati da altri paesi, oppure come supporto di base in seno a popolazioni urbane o rurali economicamente vulnerabili.

Per quanto possa apparire curioso, tuttavia, il controllo del comportamento sessuale al di fuori delle classi sociali proprietarie ha assunto rilevanza soltanto dopo la rivoluzione industriale e la fiducia smisurata nel progresso che le si accompagna. Il sogno di partecipare a questa egemonia, a questa promessa di scomparsa delle disuguaglianze, è stato rafforzato dai miti dell’amore romantico su cui si fonda l’idea di coppia contemporanea. Un costrutto che, non a caso, iniziò a svilupparsi proprio in Europa e proprio nell’Ottocento, secolo in cui decolla quell’altra forma di amore romantico e monogamo: la nazione.

Da più parti scrittrici e intellettuali del pensiero femminista hanno contestato aspramente tanto la credenza popolare dell’amore come fonte di ogni felicità, tanto l’interpretazione individualista delle pene d’amore propugnata dalla psicologia. Contrariamente all’idea trasmessa dalla mitologia popolare, in quest’ottica, l’amore romantico non sarebbe veramente fonte di trascendenza, di felicità e di realizzazione personale; esso rappresenterebbe, piuttosto, una delle principali cause della perdita di sé e della distanza tra l’uomo e la donna, oltre che una delle pratiche culturali attraverso le quali la donna verrebbe indotta ad accettare o, meglio, ad «amare», la propria sottomissione all’uomo.

Cionondimeno, Eva Illouz dedica dense pagine del libro Perché l’amore fa soffrire (2011) allo sforzo di puntualizzare che nel tanto criticato ideale ottocentesco, certo, le donne si trovavano in una posizione strutturalmente subalterna, eppure erano riconosciute al contempo come emozionalmente più forti. L’ideale cavalleresco di cui l’uomo era portatore prevedeva, infatti, un requisito fondamentale: l’attitudine a difendere i deboli con coraggio e lealtà. La condizione di debolezza della donna, pertanto, era iscritta in un sistema culturale che riconosceva valore alla donna nobilitandola, perché trasfigurava, da un lato, il potere maschile nell’inclinazione virtuosa a proteggere, dall’altro, vedeva nella tenerezza e nella fragilità femminile una purezza d’animo ineguagliabile e da salvaguardare. Di conseguenza, sempre secondo la Illouz, l’inferiorità sociale della donna veniva in parte mitigata con l’assoluta devozione dell’uomo in amore, dove a sua volta egli era chiamato a dare prova della propria virilità, bravura e reputazione, sotto l’occhio vigile dell’intera comunità. Il fatto che la donna fosse privata di ogni diritto economico e politico era associato e compensato, pertanto, dalla rassicurazione che in amore non solo godeva della protezione dell’uomo, ma gli era superiore.

Quando la cultura successiva conservò e amplificò l’ideale dell’amore come forza in grado di trascendere la vita quotidiana, tuttavia, pose al centro dell’intimità della coppia i due ideali politici della parità di genere e della libertà sessuale, spogliando così l’amore dei rituali di deferenza e dell’aura mistica nei quali era stato avvolto in precedenza. Ciò che dell’amore era sacro diventò allora profano e l’uomo si vide alla fine costretto ad affrontare concretamente e con lucidità le reali condizioni di vita della donna. Ad ogni modo, l’anelito romantico che pone alla ricerca di un amore capace di spingersi al di là delle immediate differenze di status sociale, abitudini, educazione e in grado di trasfigurare reciprocamente gli amanti nella versione più nobile di se stessi, probabilmente, continua a costituire per alcuni di noi un desiderio impellente che risponde a bisogni pienamente legittimi e assolutamente degni di cittadinanza quali quello di protezione, comprensione, dolcezza, condivisione delle fragilità come delle ambizioni, complicità che ne consegue. Potremmo allora salvare, forse persino promuovere, quantomeno tali aspetti dell’amore romantico, giacché essi offrono ancora oggi – anzi, azzarderei: adesso più che in passato! – una bussola alquanto preziosa per orientare la vita degli individui all’interno dei rapporti interpersonali che ogni giorno si stringono.

Tirando questi fili, la «Rivoluzione degli affetti» prospettata da Vasallo, ci suggerisce che la costituzione e l’impianto della monogamia ha condotto la storia contemporanea ad un tratto del cammino in cui si aprono davanti a noi due grandi strade. Una è l’autostrada egemonica ad alta velocità del capitalismo. Vasallo afferma con tono sferzante che fu il capitalismo a rafforzare e organizzare l’impulso atavico alla riproduzione, concretizzandolo nei termini di una filiazione finalizzata alla produzione seriale di lavoratori, ahimè, incardinati in classi sociali diseguali e antagoniste. Forse un po’ più pacificamente, possiamo almeno concederle che l’esclusività e la competizione s’inseriscono perfettamente all’interno del sistema economico capitalista, in quanto le valorizza e le rende anzi indispensabili.

L’altra via è la creazione e il consolidamento di ciò che la comunità poliamorosa chiama «reti affettive», vale a dire spazi di vita cooperativa potenzialmente meno conflittuali. L’esigenza, quasi immediata, di simmetria avvertita nelle relazioni monogame dipende in larga parte dalla struttura concorrenziale su cui si fondano, attraverso la quale si costruisce una relazione basata sulla competizione con gli altri, per vedere chi ottiene più riconoscimenti sia dal partner che dalla società. L’etica della cura che orienta il pensiero poliamoroso, invece, propone una prospettiva lontana dalla logica del do ut des, si pone al di là della simmetria del debito e del rivaleggiare ossessivo. Il vecchio paradigma dell’amore monogamo, infatti, invece di scoraggiare la gelosia e la possessività in modo che le persone potessero scegliere liberamente il modo in cui accoppiarsi, imponeva delle barriere culturali e morali volte a eliminare le alternative legittime, tracciando intorno alla coppia o alla famiglia nucleare confini netti ed escludenti. Per il nuovo paradigma, invece, facciamo tutti parte di una grande rete affettiva che, mano a mano, si specifica in contesti relazionali sempre più circoscritti ma mai estranei rispetto al quadro generale di partenza: mentre molte persone abbracciano volentieri l’altruismo soltanto quando si tratta dei propri figli o del coniuge, l’amore poliamoroso pone le basi per una nuova visione del mondo in cui riconosciamo la nostra parentela con tutta l’umanità, rendendo i confini della famiglia più flessibili e più permeabili al mondo esterno, meno isolati dalla comunità.

L’orizzontalità che desideriamo per le nostre relazioni dev’essere allora costruita da altri spazi che non siano quelli antagonistici e possessivi legati ancora al concetto ormai traballante di «famiglia tradizionale». Lo slogan – che non si limita a rimanere slogan ma diventa prassi – il personale è politico – è allora centrale per allargare la riflessione sulla subordinazione strutturale dei ‘più deboli’ e dei ‘mostri’ anche in ambito domestico: le relazioni di potere, infatti, non esistono solo nel pubblico, ma pervadono anche il privato nelle relazioni di coppia e di famiglia.

Questa ipotesi del primato del potere, tuttavia, quando estremizzata, non solo costituisce il motivo dominante della critica femminista all’amore, ma anche il suo tallone d’Achille. La dichiarazione più rimarchevole delle femministe afferma che alla base dell’amore e della sessualità ci sia la lotta per il potere, rispetto alla quale l’uomo ha prevalso e continua a prevalere, facendo coincidere, grazie a questa sua vittoria continua, il potere sessuale con quello economico. Tale potere sessuale maschile consisterebbe nella capacità di definire gli obiettivi della relazione e di stabilire le norme che regolano il corteggiamento e l’espressione dei sentimenti d’amore, rafforzando disparità di potere politico ed economico di più ampio respiro.

Sebbene in tutt’altro contesto, Harry G. Frankfurt ci rammenta, però, in The reasons of Love (2004) la natura incondizionata dell’amore, evidenziandone il suo carattere, sotto alcuni limitati aspetti, «impolitico» – o, se si preferisce, «pre-politico» – di cui, talvolta, gli attivisti più coinvolti invece si dimenticano. Egli nota quanto sia facile sovrastimare l’importanza della morale sull’andamento delle nostre vite. La morale, come del resto la politica, secondo l’autore attiene di meno a ciò che determina le nostre scelte e orienta la nostra condotta – ci dà meno informazioni di quelle di cui avremmo bisogno riguardo a ciò che dovremmo tenere in considerazione e a come dovremmo vivere – di quanto comunemente siamo abituati a credere. Una gestione ponderata di quegli aspetti della nostra vita che hanno un valore normativo, in sostanza, non è detto che abbia l’ultima parola sulle nostre decisioni e sulle nostre relazioni.

Frankfurt sottolinea come l’amore sia, fondamentalmente, un interesse disinteressato all’esistenza dell’oggetto che si ama e a ciò che è bene per esso. Proprio come in politica, l’amante desidera che l’oggetto del suo amore continui a vivere e a realizzarsi e non abbia a soffrire; diversamente dalla prima, in più, egli desidera tutto questo di per sé, non in funzione di un qualche ulteriore obiettivo. Qualcuno potrebbe avere a cuore la giustizia sociale soltanto perché riduce il rischio di disordine; qualcun altro la salute altrui solo perché una persona malata non gli risulterebbe di alcuna utilità. Per l’amante, invece, la condizione dell’amato è importante di per sé, indipendentemente dagli effetti che si potrebbero riverberare su altre situazioni.

Frankfurt, chiarendo ulteriormente il concetto, enfatizza la differenza con un altro modo di avere a cuore gli altri che, a tutta prima, potrebbe definirsi totalmente disinteressato, ma, a ben vedere, si differenzia dalle ‘ragioni dell’amore’ perché è impersonale. Una persona che dedica la propria vita alla cura dei poveri e degli ammalati senza altri fini, infatti, potrebbe anche rimanere indifferente rispetto alla specificità di coloro che vuole aiutare. In questo caso, ciò che identifica i beneficiari della sua cura caritatevole non sarebbe anzitutto l’amore che questa persona nutre nei loro confronti. La sua generosità non si rivolgerebbe in primis alla loro identità di individui, né verrebbe sollecitata dalle loro caratteristiche personali. Si limiterebbe a riconoscerli come appartenenti ad una categoria che le interessa. Qualsiasi povero o qualsiasi malato andrà bene per colui che desidera fortemente aiutare i poveri e gli ammalati.

Possiamo concludere con Frankfurt, dunque, che la natura incondizionata dell’amore – non fa alcuna differenza, in questo caso, se monogamo o poliamoroso – presenta quattro caratteristiche concettualmente imprescindibili e irriducibili ad ogni lettura esclusivamente politica del fenomeno. La prima consiste fondamentalmente in una forma di interessamento disinteressato per il benessere o la realizzazione della persona che si ama. Chi ama non è mosso da altro scopo se non quello di ricercare il bene dell’amato, desiderabile di per sé. In secondo luogo, come già evidenziato, l’amore è diverso da tutte le altre espressioni di interessamento disinteressato – come ad esempio la carità – in quanto è necessariamente personale. L’amante si innamora della singolarità incommensurabile di colui che ama, rendendo con ciò impossibile l’interscambiabilità della sua persona con qualunque altra, persino con una ‘migliore’. L’uomo o la donna amati, in questo caso, lo sono per loro stessi e non in quanto esemplari di una specie o di una categoria di persone particolari. In terzo luogo, considerando il bene dell’amato alla stregua del proprio, l’amante gioisce o soffre a seconda che questo bene venga raggiunto o meno. Infine, ma non da ultimo, occorre sempre rammentare che l’amore impone dei vincoli alla volontà e alla libertà dell’individuo che eccedono ogni capacità di umana comprensione: non dipende solo da noi ciò che amiamo e ciò che non amiamo. L’amore non è soltanto questione di scelte, è determinato anche da condizioni che vanno al di là del nostro diretto controllo volontario e, anzi, spesso ci ‘prende’ o ci ‘molla’ senza un preciso «perché». Soltanto in virtù di queste ‘ragioni’, cioè per il fatto che l’amore, secondo Frankfurt, è una pulsione naturale prima ancora che una libera scelta, creatore sia di valore intrinseco o finale sia di importanza, egli può affermare allora che l’incoercibile libertà su cui si basa «è anche il primo fondamento della ragion pratica», qualunque sia l’orientamento sessuale, politico o religioso mediante cui prende corpo nell’individuo.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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