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imageskLUCA GIUDICI

Il noto racconto Nella Colonia Penale, uno dei pochi che Kafka ha pubblicato in vita, è esemplare per la tematica del rapporto tra legge scrittura e corpo, che qui trova una delle sue espressioni più feroci e limpide. Qui il testo scritto è il testo della legge, e il corpo è quello del condannato, che viene presentato al lettore come una sorta di selvaggio, quasi un sub umano. La norma si identifica anche con la spiegazione, ovvero con il motivo, la causa stessa della carcerazione e della condanna. Avviene però qualcosa che elabora l’idea fondativa per cui la legge viene scritta, ovvero fissata nella pietra: il testo della condanna viene intarsiato e cesellato direttamente sul corpo del condannato, ed è un complesso, elaborato e delicato meccanismo a farlo, provocando, di conseguenza, anche la morte del condannato. Come annota Reiner Stach, “entra per la prima volta nella letteratura qualcosa che […] sembrava ancora alieno da ogni possibile trattazione letteraria: la tortura”. L’operazione di scrittura / espiazione assume però anche una ulteriore funzione, oltre a quella di fissare nel tempo la norma stessa, diventa anche un ornamento estetico, un orpello che contorna la scrittura stessa. All’incisione vengono aggiunte le decorazioni più varie, al punto che il testo diventa completamente illeggibile, è un segno astratto, perde il suo significato. Questa funzione estetica pare assumere il ruolo principale nell’esercizio del diritto, rispetto a quello della lettera. Per Kafka l’iscrizione della norma nel corpo vivente, nella materia stessa, mostra il conflitto tra la legge arcaica, intesa come destino, e una legge autonoma che l’uomo cerca di darsi ma senza successo. Questa dialettica si esercita attraverso la misura di un delicato equilibrio, di una giustizia che vorrebbe essere espressione del possibile, ma che nei fatti si rivela pura astrazione e follia: il dominio della macchina burocratica. Kafka in questa circostanza, pur descrivendo un contesto disumano, è quindi totalmente interno alla dimensione antropica, e vuole esplicitamente sottolineare la ossessiva e progressiva alterazione di quelli che dovrebbero essere gli elementi costitutivi della società umana, e che subiscono una metamorfosi che si realizza qui nella macchina. L’incipit stesso del racconto invita il lettore ad ammirare la particolarità del congegno. L’ufficiale incaricato della sua manutenzione ne tesse le lodi continuamente, ma non si limita a evidenziarne l’efficienza, ne descrive la bellezza espressamente in senso estetico. Il suo è un approccio che potremmo definire ballardiano ante litteram, proprio per l’incontro tra il metallo e la carne che qui viene descritto. Forse non è un caso che Kafka l’assicuratore fosse un esperto di infortuni. L’umanità kafkiana qui più che mai è vittima di un dispositivo sociale alienante e burocratico, ma forse non è definitivamente perduta. L’ufficiale, costruttore e sostenitore della pena, è isolato ed evidentemente tormentato nel suo desiderio espiatorio e purificatore. Per Kafka costui non rappresenta l’umanità tout court, anzi ne incarna la follia. Gli altri personaggi che lo circondano sono evidentemente concordi con lui circa la validità e l’utilità della pena che deve essere eseguita, ma lo sono per i motivi più bassi: ignavia, ipocrisia e opportunismo. Il protagonista stesso, pur vedendo chiaramente il mostro che ha di fronte non ha alcun interesse nel modificare questo sistema, ma desidera solo allontanarsene. La vittima poi viene descritta come lontana da questa umanità, e forse per Kafka è questo l’unico riconoscimento che potrebbe avere, visto che quest’ultima viene definita “sottomessa come un cane”. Eppure, lo scrittore, come ci ricorda Roberto Calasso, ne Le indagini di un cane, racconto in prima persona, parla di sé come di “un cane tra i cani”, e forse è proprio nella vittima che si vede affine. Non vi è perciò alcun tipo di immedesimazione, se non quella naturale con la vittima, e difatti Kafka sa bene che la legge può essere disumana, che in essa non si può trovare altro che l’insensatezza nella macchina statuale, il moloch burocratico, ma vuole comunque evidenziare la distanza che in ogni caso rimane tra l’ufficiale e il suo dispositivo: per quanto non ci sia nessun tipo di alternativa o di orizzonte, non è un uomo ad eseguire la condanna, ma la macchina. Lasciare che sia questa a macchiarsi del delitto, significa contestualmente sia riconoscere la lucida follia dell’ufficiale, ma anche togliere dalle spalle dell’umanità tutta il peso di questa ennesima condanna morale. In ogni caso il biasimo che il narratore prova di fronte a tutti gli altri esseri umani incontrati durante il suo percorso nella colonia penale è senza rimpianti. La meschinità, l’ipocrisia, la vanteria, sono gli egocentrici sentimenti che esprimono, senza fermarsi davanti a nulla. La macchina – almeno – è bella, pare dire l’ufficiale, contrariamente all’umanità che li circonda. Eppure, anche grazie questa esternalizzazione della pena, questa morte per interposta macchina, il congegno è soprattutto strumento di scrittura. La macchina non uccide con le modalità scontate e note: non fucila, non avvelena, non impicca. La macchina scrive, ed è con la scrittura che uccide. Qui emerge l’ambiguità strutturale della scrittura, che è contestualmente demone e condanna, e che crea questa confusione di ruoli e segni per cui l’uomo è contestualmente vittima e carnefice, in un evidente sdoppiamento semantico, confermando la figura del Doppelganger come presagio e simulacro di morte. Simbolismo che si concretizza una volta di più nell’apparizione conclusiva del racconto, nella tomba sconsacrata e semi nascosta, nel tentativo di disseppellire il cadavere, nelle risate sfrontate di fronte alla profezia che annuncia il ritorno del passato. Un rimando al tempo crudele del mito, qui annichilito dalla bassa brutalità del mondo borghese, dal mondo del bisogno materiale, ma che resta comunque a fondamento del mondo ambiguo della scrittura.

Nella narrativa fantastica contemporanea esistono diversi romanzi e racconti in cui la relazione tra corpo e scrittura viene analizzata in profondità. A titolo esemplificativo, una situazione paragonabile si trova nel romanzo breve di Friedrich Dürrenmatt La guerra invernale del Tibet. L’unico personaggio del racconto, un soldato, è un mercenario sopravvissuto a una guerra devastante, che si ritrova a percorrere corridoi e tunnel scavati nelle viscere di una montagna, da un lato alla ricerca del nemico e dall’altro – contestualmente – cercando di sfuggirgli. Il protagonista è un relitto umano, un cyborg con un mitra meccanicamente innestato su di un braccio, costretto ad aggirarsi nella semi oscurità su di una sedia a rotelle. Il mercenario percorre ossessivamente gli infiniti corridoi sotterranei, e in qualche modo cerca di dare un senso alla disperata solitudine che lo avvolge. Grazie a un punteruolo innestato in uno dei suoi arti incide sulle pareti dei tunnel il racconto della sua vita, il racconto della guerra, e le folli (ma ineludibili) riflessioni filosofiche che sorgono nella sua mente. Questo sistema circolatorio esteriorizzato formato dai tunnel e dalle gallerie appartiene alla montagna. Anche qui è dovuto il riferimento a Ballard e alla sua inversione del punto di vista dello scrittore, che rivolge il suo sguardo verso l’inner world, e attraverso questa visione ricostruisce ciò che noi siamo nel mondo. La montagna e le sue gallerie diventano perciò una proiezione del corpo stesso del mercenario, che usa la macchina con cui ormai è identificato, gli strumenti che ha innestato in sostituzione degli arti, per scavare nella roccia e trascriverci, ad imperitura memoria, come fosse una stele, il dramma del mondo, così che sia eternamente solidificato, nella pietra-carne. È infatti la memoria stessa dell’umanità ciò che il mercenario si assume il compito di trasmettere, “perché l’uomo, qualunque cosa descriva, descrive sé stesso”.  Apparentemente Dürrenmatt all’inizio del testo lascia che sia l’elemento meccanico a farsi carico del compito peggiore e assimila la macchina stessa alla disumanità, mentre mantiene per l’incisore–scrittore un vago spiraglio di accesso a qualcosa di empatico e sensibile, seppur appena emergente dalla bestialità in cui la guerra lo ha fatto cadere. La rappresentazione della guerra e della distruzione che ne deriva, la follia paranoica dell’onnipresente nemico e l’ossessione della fedeltà al proprio comando in contrapposizione al mondo dei politici e degli intellettuali, visti come i veri responsabili della distruzione finale, sono i temi dei racconti e delle riflessioni che il mercenario scrive in modo rimbombante e senza sosta. Ma nel proseguo è l’ossessione che lo pervade, il processo per cui il soldato diventa la macchina, surclassando così il formale dualismo kafkiano tra questa e il suo utilizzatore, che fa sì che la scrittura, così come il dare la morte, diventi un automatismo, un meccanismo. La sua scrittura quasi rimanda a quei fenomeni di scrittura automatica riprodotti sotto l’effetto di ipnotici oppure interpretati come la riprova di particolari facoltà medianiche. La possibilità di scrivere in modo incosciente rivela la distanza che può intercedere tra l’atto della scrittura e il contenuto che si desidera trasferirvi. Il parlottio incomprensibile e illogico diventa una versione limite della scrittura, a cui poco importa il senso, bensì rileva il puro suono, il rumore. Nella parte finale della novella il registro linguistico diventa quello di una rappresentazione teatrale, non è più l’eroismo il sentimento cardine, quanto la sofferenza e la stanchezza. Si coglie qui il prometeico spirito del mercenario, che si rivela però essere una bassa contraffazione della nostra quotidianità, di un dopo guerra ripiombato nel conformismo piccolo borghese, senza più nemmeno la grandezza bestiale di un orco assassino con un mitra innestato al posto del braccio e che tenta di scrivere versi, di trovare la sua via per la vita. Nulla di più del delirio di un moribondo alcolista, ma che raccoglie quelle poche gocce di verità che riusciamo a raggiungere.

Anche in luoghi più distanti dalla letteratura ufficiale il tema trova casa: ad esempio ne la Trilogia dell’Area X, romanzo di fantascienza di Jeff Vandermeer, o nel romanzo La fine di Tutte le cose di China Mieville.  Anche nella saga di Harry Potter si rintraccia lo stesso tema. Nel volume Harry Potter e l’ordine della fenice, compare il personaggio di Dolores Umbridge, come preside della scuola di magia di Hogwarts. Costei dispone di una particolare piuma nera dalla punta molto affilata che non richiede inchiostro, scrive infatti con il sangue dell’utilizzatore e incide le parole sotto forma di ferita sul dorso della mano della persona, tanto più profondamente quanto più la si usa. Harry viene punito, e più volte, e sulla sua mano viene incisa, sempre più profonda, la frase “Non devo dire bugie”. Questa ripresa del meccanismo kafkiano per cui la macchina incide la norma che è stata violata, vuole sottolineare gli aspetti repressivi della scrittura. Non è certamente casuale il fatto che tutto ciò accade in una scuola. In questo caso, inoltre, vi si affianca il motivo epistemologico, per cui la repressione non si esercita più solo sul piano educativo e su quello politico, ma si concentra sul piano della conoscenza, visto che chi detiene il potere della scrittura stabilisce anche cosa è il vero e quali sarebbero le “bugie” da non dire. Difatti non sono trascurabili il dettaglio chirurgico e il linguaggio scientifico con cui J.K. Rowling descrive la scena. Vi è nella scelta del linguaggio e dei termini una sorta di asetticità che rispecchia il freddo razionalismo di un potere burocratico e anempatico: la penna è affilata, il messaggio penetra, le parole sono come un bisturi.  Qui si mostra il grande potere della scrittura, e poco ci importa se si tratta di menzogna e di illusione, certo non si può prescindere dalla lunga penna nera di Dolores Umbridge che è un monito costante, un ammonimento sul dolore che può provocare ciò che ci arriva tramite la parola scritta, e soprattutto sulla particolare influenza di quest’ultima sul corpo fisico, sulla carne, oltre che sulle nostre idee e opinioni.

Il passaggio dalla cultura orale alla civiltà della scrittura è un elemento che probabilmente è posto alla radice della transizione tra il mondo arcaico e mitologico a cui Kafka allude, e la relazione tra la scrittura e il dolore – e la morte – forse rappresenta una sorta di catabasi per questo passaggio epocale. Non è un caso se questa torna ad apparire, sorta di fiume carsico, come una traccia continua nella nostra narrazione umana. La macchina, elemento così centrale nella narrazione fantascientifica contemporanea, mostra qui, nel racconto Kafkiano, tutta la sua potenza, che ancora oggi, un secolo dopo, abbiamo appena iniziato ad indagare.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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