PRIMO BACIO
TOMMASO GAZZOLO
- Nelle pagine della sua interminabile Esegesi, Philip Dick osserva – secondo una specie di tesi leibnizana – che nell’individuo sono già presenti tutti gli eventi futuri che gli accadranno: si attualizzeranno, però, solo nel loro presente, e fino a quel momento esistono «come i solchi di un LP prima che la puntina lo raggiunga […]. L’unica “musica” è dove l’ago la tocca, mentre più avanti c’è solo un’oscillazione codificata lungo una spirale elicoidale». Così Dick spiega il déjà vu, il quale non consiste che nel fatto che, talvolta, riusciamo ad anticipare, anche se in modo confuso, la canzone che la puntina sta per cominciare a suonare.
Il déjà vu è dunque, qui, un’anticipazione di ciò che sembrerebbe essere non ancora presente, del futuro. Ma, a rigore, ciò che Dick dice è l’esatto contrario: è un’anticipazione del passato, se – come si è detto – questo “futuro” è già traccia o, meglio, è già inciso come una serie di lunghi solchi a spirale i quali, esattamente come nei dischi in vinile, codificano le variazioni di pressione sonora nel tempo. Il solco è già lì, l’accadimento è già stato, anche se solo quando l’ago comincerà a seguirlo si attualizzerà e il suo movimento verrà trasformato in suono. Ma cosa significa “anticipare” il passato?
Molto si è scritto, si scrive, sul déjà vu, con infinite variazioni, sempre però a partire dall’idea di un “falso” riconoscimento, della sensazione di aver già vissuto una situazione come quella che sta accadendo – e che ci pare così familiare e proprio per questo perturbante, inquietante. Ma questo già visto, in realtà, non è mai stato vissuto, non è mai stato presente. Ma allora perché già visto, perché ci appare come passato? In Infanzia berlinese, Benjamin aveva notato come, qui, è il passato che sembra aver dimenticato il futuro presso di noi. Un passato che non è mai stato vissuto, ma che proprio in questa possibilità d’esser vissuto che ancora conserva è rimasto presso di noi, si rende nuovamente (e cioè: per la prima volta) presente.
2. La sensazione d’aver già vissuto un certo istante, d’aver già sentito quel nome, quel suono, non è pertanto né una ripetizione di quel che già si è vissuto, né un’anticipazione di quanto accadrà. È un’ “anticipazione” del passato, di quel passato che non è ancora stato, della sua possibilità “pura”, dovremmo dire, del suo poter finalmente accadere. Ma è la natura di questa possibilità che andrebbe, ancora, forse discussa. Ché questo passato mai stato, mai vissuto, che ora si ripresenta come possibilità, non può indicare la sua possibilità di accadere in futuro come futuro, poiché non sarebbe allora il passato, ma il futuro. Non sarebbe dell’ordine del già stato, del già accaduto. Le possibilità del passato non sono ciò che il futuro si incaricherà di realizzare – non è un passaggio dalla potenza all’atto che, qui, cerchiamo di isolare; al contrario, è la disattivazione di questa logica. La possibilità del passato non è nel suo poter essere futuro.
La possibilità del suo essere vissuto, allora, significa: la possibilità che divenga il nostro passato, pur non essendo mai accaduto. In questo senso il déjà vu ne è l’anticipazione: indica, cioè, come quella sensazione di “già vissuto” sia la possibilità di renderlo il passato del nostro presente. Questo è lo spiraglio che il déjà vu, per un istante, apre: che ciò che è accaduto possa non essere accaduto, e accaduto ciò che non è accaduto.
3. Ciò che nella teologia del XI secolo si inaugurerà come dibattito sull’onnipotenza divina, in fondo non è che il campo in cui si articola questo problema: quello di restituire il modo della possibilità anche al passato. La posizione per cui Dio può agire in modo tale che ciò che è accaduto non sia accaduto (ut quae facta sunt, facta non fuerint, come dirà Pier Damiani), restituendo ad esempio ad una fanciulla la verginità perduta, non è che la formulazione come tesi teologica della tesi logica per la quale, «ciò che si dice di cose passate vale ugualmente per quelle presenti e quelle future».
Questo è il punto da cui muove il ragionamento: ciò che vale per il presente e per il futuro, vale anche per il passato. In particolare, seguiamo ancora Pier Damiani, la pretesa impossibilità che ciò che è accaduto non possa non essere accaduto, a rigore riguarda anche il presente ed il futuro. Anche per il presente, infatti, è impossibile che, se qualcosa è, non sia, almeno fin tanto che è. Così come è impossibile che ciò che sta per accadere non stia per accadere: se è vero, infatti, che sta per piovere, allora è anche vero che è impossibile che non stia per piovere. Se allora si sostiene che non è possibile che una stessa cosa sia accaduta e non sia accaduta, lo si dovrà fare per la stessa ragione per cui si sostiene che è impossibile, riguardo al futuro, che ciò che sta per accadere non stia per accadere.
L’argomento di Damiani è stringente: se davvero valesse che ciò che è accaduto non può non essere accaduto, ciò dovrebbe valere anche per il presente e per il futuro, con la conseguenza di dover concludere che Dio stesso non avrebbe mai alcun potere, alcuna possibilità di agire, neppure relativamente al nostro futuro. Se, allora, si potesse dimostrare che, invece, lo ha, allora si sarebbe con ciò dimostrato anche che il passato può cessare di essere stato.
La teologia consente di scoprire questa nuova logica, di cui stiamo andando in cerca. Poiché, per Damiani, Dio non conosce tempo, di modo che tutte le cose passate in lui non passano mai, né accadono le cose future, ciò significa che, in lui, nulla propriamente accade e nulla passa. La fondazione di Roma, per Dio, non è pertanto un evento passato, qualcosa che è stato una volta e che ora non è più: essa è invece presente, ora e sempre, davanti a lui, dal momento che «il suo presenta non diventa mai passato», «il suo oggi non diventa mai domani». Se così stanno le cose, allora, Dio può far sì che Roma non sia mai stata fondata, senza che ciò significhi che egli contraddica ciò che ha già voluto in passato, o che Roma, a quel punto, sarà stata e al contempo non stata. Nel momento in cui, infatti, Dio stabilisce che Roma non sia mai stata, egli non interviene su ciò che è passato, ma in ciò che chiameremmo, se pur impropriamente, il suo presente. Che solo per noi è invece il passato. Per questo Pier Damiani avverte: per noi, ciò significherà che Dio potè far sì che Roma, prima di essere fondata, non fosse fondata; per lui, invece, significa solo che può far sì che Roma non sia mai fondata.
Se dalla teologia torniamo alla sua logica, diventa chiaro come, qui, l’onnipotenza divina costituisca il dispositivo per mostrare come la tesi dell’immutabilità del passato non dipenda da alcuna sua proprietà, ma esclusivamente dal modo in cui i tempi grammaticali, e dunque il linguaggio, separano passato e futuro – laddove però questi, in sé, non hanno alcuna differenza “ontologica”. Certo Pier Damiani non è, in quest’ottica, che uno dei primi autori di una discussione secolare, che conoscerà diverse variazioni e posizioni – e che certo non possiamo ripercorrere neppure per sommi capi. Ma quel che qui interessava, era soltanto fissare questo punto: che la lunga riflessione sul déjà vu, propria del Novecento (da Bergson a Proust, da Freud a Benjamin a Bloch, etc.), non andrebbe slegata da quella medievale sull’onnipotenza divina. In entrambi i casi, infatti, il registro “psicologico”, da una parte, e quello “teologico”, dall’altra, non sono che gli ordini discorsivi entro cui si tenta di pensare il problema ontologico del passato, del suo poter non essere stato.
4. Certamente ciò non va senza “circolarità” che non possono essere evitate, ma che vanno percorse sino in fondo. Rendere non accaduto ciò che è accaduto, non vorrebbe dire, necessariamente, far sì che il presente sia ora il risultato di un passato diverso da quello in base al quale si è agito sul passato stesso? Il problema passa, nel nostro secolo, dalla teologia alla scienza, con il “paradosso del nonno”: come potrei tornare indietro nel tempo per uccidere mio nonno, se, così facendo, renderei impossibile la mia stessa nascita, e dunque il mio stesso viaggio nel tempo?
Già i teologi, però, discutevano che cosa volesse realmente dire “cambiare” il passato: significava la possibilità di far sì che ciò che è realmente, una volta, accaduto cessi di essere accaduto, o, diversamente, indicava l fatto che ciò che è accaduto sarebbe sempre potuto non accadere? E ancora: Dio può cambiare il passato o – come dirà Borges – solo le immagini del passato, ossia il ricordo di ne abbiamo? Se seguiamo l’intuizione già propria di Pier Damiani, non potremo però confondere la nostra “percezione” del passato con il passato stesso, la sua reale “natura”: non si tratta, cioè, di un’alterazione dei ricordi, ma del carattere in sé contingente del passato come tale. Il fatto che il pensiero contemporaneo – a differenza di ciò che la teologia poteva fare attraverso il discorso su Dio – non sia in grado di risolverne, e in fondo di pensarne sino in fondo, le implicazioni, non significa che allora ad essere vero sia, al limite, solo una versione “debole”, “psicologistica”, dell’argomento.
5. Ridurre, in ogni caso il déjà vu a un fenomeno “psichico”, a un’esperienza vissuta, è improprio e, soprattutto, sterile – esattamente come lo sarebbe ripercorrere il dibattito sull’onnipotenza divina come se in questo l’interrogazione riguardasse il Dio della religione, mentre riguarda, piuttosto, lo statuto del passato come tale. In ciò, il déjà vu non è un “falso” ricordo, ma l’opposto del ricordo (volontario, della memoria), la sua negazione: perché mentre il ricordo presuppone un passato che, come tale, è accaduto e trascorso, e che ora viene “rammemorato”, riportato cioè alla presenza come il passato che il passato è stato, il déjà vu, come si è detto, fa riferimento ad un passato che non è mai stato, e che diviene, attraverso questo, possibile come passato.
Ricordo perfettamente la prima volta che ho baciato L., una sera d’estate, sul muro delle scale di un palazzo. Quella volta provai un déjà vu, come se quel bacio lo avessi già dato, una volta, tanto tempo prima. Era il bacio che, in una sera come quella, in un’estate di trent’anni prima, non diedi alla prima ragazza di cui mi innamorai, mentre eravamo rimasti soli, appoggiati ad un muro che costeggiava le scale di casa sua, a guardarci. Non la rividi più, a causa, forse, anche di quel bacio non dato.
Trent’anni più tardi, quel déjà vu è venuto a indicarmi la possibilità, sempre e ancora possibile, di avere, da ragazzino dato quel bacio, che fu il mio primo.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA DÉJÀ VU Endoxa luglio 2024 tommaso gazzolo
