COSTRUIRE L’AMICIZIA, DISSOLVERE IL POTERE
CARLO LOTTIERI
Una delle frasi più note sull’amicizia si deve a Michèle de Montaigne, che parlando del suo legame con Étienne de la Boétie scrisse: «Si on me presse de dire pourquoi je l’aimais, je sens que cela ne se peut s’exprimer qu’en répondant: parce que c’était lui, parce que c’était moi». L’autore degli Essais evidenzia come nella relazione d’amicizia s’imponga l’unicità dell’altro: il carattere in nessun modo “funzionale” (strumentale, sostituibile) della persona che s’incontra, con cui si sviluppa un rapporto di simpatia e a cui in seguito si finisce per essere legati. È pure interessante sottolineare come le pagine che Montaigne dedica all’amico si trovino in un capitolo, intitolato “De l’amitié”, che doveva prefare il testo che La Boétie aveva scritto ancora giovanissimo: il Contr’un (poi diventato Discours sur la servitude volontaire).
È come se per Montaigne fosse una cosa sola ricordare l’affetto che l’aveva unito al poeta, morto tanto presto, e l’invettiva contro il potere che l’amico aveva scritto quando non aveva che 22 anni. È insomma possibile riconoscere quanto egli fosse consapevole della dimensione politica dell’amicizia.
- L’altro, l’amicizia e l’universo dei rapporti funzionali
Nella relazione amicale si manifesta con forza la centralità dell’altro. Se talvolta possiamo trascurare il nostro prossimo e i suoi diritti, non è così di fronte a una persona che stimiamo, verso la quale nutriamo affetto e simpatia. In tal senso l’amico è colui che più di altri riconosciamo come “non governabile”, perché nel momento in cui iniziassimo a disporre di lui come di un oggetto (regolandolo, gestendolo, estraendo da lui risorse anche contro la sua volontà, usando la minaccia del “se non… allora”) quel rapporto si dissolverebbe, ma soprattutto verrebbe meno quel riconoscimento che invece è cruciale.
In tal senso, se l’amicizia è il luogo dei rapporti tra persone uniche e irriducibili (come Montaigne ha insegnato), è opportuno ricordare che con il delinearsi dello Stato sovrano s’inaugura una storia basata invece su relazioni impersonali. La formula dei reali di Spagna (Yo, el Rey) non indicava soltanto la distanza abissale che separava il monarca dal resto della società, ma sottolineava pure come la regalità dovesse prevalere sul re stesso. Pure nella formula francese usata alla morte del sovrano e alla proclamazione del successore l’importanza dell’istituzione doveva essere chiara a tutti: “le roi est mort, vive le roi!”.
Mentre l’orizzonte medievale poggiava su relazioni personali, la modernità vive di astrazioni e logiche burocratiche. C’è stato chi, come Max Weber, ha visto proprio in questo tratto quello che più di tutti caratterizzerebbe l’avvento del mondo nuovo. Non è un caso che nella società moderna ogni legame interindividuale (familiare, confessionale, locale) sia avvertito come pericoloso e in grado di minacciare la terzietà dell’ordine giuridico e l’astrattezza della dimensione societaria.
Nella Ricchezza delle nazioni c’è un passo in cui Adam Smith afferma che «people of the same trade seldom meet together, even for merriment and diversion, but the conversation ends in a conspiracy against the public, or in some contrivance to raise prices» (Libro I, Capitolo X, Parte II). Il padre dell’economia moderna sottolinea che non intende certo impedire tali incontri, ma semmai contestare quelle norme di legge che impongono a tutti coloro che praticano una professione d’iscriversi nel medesimo registro. In Smith la cooperazione tra persone del medesimo settore non comporta di per sé una minaccia al bene comune: al contrario, egli vuole evidenziare che esiste il rischio di una “cattura del regolatore” e che l’ordinamento non dovrebbe favorire questo esito, come invece avviene. È però interessante rilevare come a più riprese nel passo si sia letto proprio un attacco alla cooperazione tra imprenditori dello stesso ambito e come esso sia stato utilizzato per giustificare quel cosiddetto “diritto della concorrenza” che avversa in ogni intesa e cooperazione sul mercato, ritenendole lesive di un vero ordine competitivo.
In questa prospettiva che sotto diversi aspetti è aberrante, tra gli imprenditori dovrebbe prevalere l’inimicizia; e quello che vale per gli imprenditori, alla fine, dovrebbe valere per tutti. C’è allora da chiedersi se lo spirito di matrice assolutista che segna le istituzioni non abbia favorito una cattiva comprensione del rapporto tra mercato e monopolio, portando a ritenere che la concorrenza sia l’esito di una programmazione dall’alto (come sarà esplicitamente teorizzato, nel Novecento, dai teorici dell’Ordoliberalismus). E se oltre a ciò non sia da riconoscere in questo l’esigenza, già chiara a Thomas Hobbes, di dissolvere ogni autonoma struttura sociale, non lasciando più nulla tra il singolo e lo Stato, tra l’individuo e il Leviatano.
Nell’economia mainstream, che sottovaluta il ruolo dell’imprenditore e della sua ricerca del profitto, la vita economica diventa una fisica sociale retta da leggi impersonali: un insieme di funzioni che non soltanto può essere trascritto in termini matematici, ma può essere gestito e regolato dagli amministratori del marchingegno.
- Il potere e la perversione dell’amicizia
Nella sua dura denuncia contro la pretesa di un solo uomo di disporne di tanti altri, La Boétie evidenzia come la “corte” (ossia l’area del potere) sia dominata dal cinismo, dalla menzogna e dal disprezzo reciproco. Ai suoi occhi è chiaro che il dominio deve dissolvere ogni amicizia, poiché entro quelle logiche tutti pensano soltanto al loro tornaconto e non si pongono alcun limite. Di conseguenza, nelle stanze del potere non troviamo alcuna fratellanza, ma semmai una complicità interessata.
Per giunta, nel Discours vi è una raffinata analisi di come quel governo che alcuni esercitano su altri finisca fatalmente per pervertire le relazioni personali. La sleale ferocia che Nicolò Machiavelli pochi decenni prima aveva esaltato nel Principe (basti pensare all’episodio che vede protagonisti il Duca Valentino e Remirro de Orco), secondo La Boétie caratterizza strutturalmente le relazioni che legano quanti perseguono il comando. Per lo scrittore francese, «in quel gran numero di coloro che si sono trovati a che fare con re malvagi, sono davvero pochi – se ve ne sono – quelli che a loro volta non hanno sperimentato la crudeltà del tiranno che in precedenza essi avevano fomentato contro altri. Spesso si sono arricchiti all’ombra del suo favore grazie al bottino ricavato da altri e alla fine l’hanno arricchito loro stessi con il loro bottino». La politica è spietata e attira a sé uomini disposti a tutto.
È anche interessante rilevare che se l’amicizia di cui parla Montaigne è una dimensione essenzialmente personale, nel momento in cui La Boétie rileva come a corte la generosità lascia il posto al cinismo e all’opportunismo la sua analisi intende sottolineare come l’aver accettato gli schemi del dominio (uomini che governano loro simili) conduca ad accantonare ogni disponibilità disinteressata.
Quando quattro secoli dopo in Carl Schmitt si torna a osservare le logiche istituzionali muovendo dalla coppia amico-nemico, il quadro è molto diverso. Distinguendo tra le logiche pubbliche e quelle private, lo studioso tedesco ci guida entro una dimensione che ha definitivamente creato due universi distinti e ha consegnato la sfera pubblica al controllo dei poteri di Stato.
Per il cattolico Schmitt è certamente valida la norma evangelica che ci chiede di amare il nemico, ma questo vale soltanto per la dimensione personale (privata) e non per quella statale (pubblica). Lo svilupparsi delle istituzioni che conosciamo, d’altra parte, ci ha sempre più inglobato in entità collettive, che per certi aspetti ci trascendono.
L’inimicizia politica che conduce al conflitto poggia su una perversione dell’amicizia stessa. Nella conflittualità pubblica che deriva dalla coppia amicus-hostis la relazione che unisce due persone in un affetto corrisposto non ha più nulla di quella sospensione del sé su cui Montaigne richiamava l’attenzione. Al contrario, il nemico pubblico (hostis) implica l’amico pubblico, che è semplicemente il membro del tuo partito e/o della tua nazione, e che non necessariamente conosci e rispetti.
Ancora una volta va rilevato come nelle pagine schmittiane, a partire dalla distinzione pubblico-privato, quella che egli definisce “amicizia” entro la sfera politica finisce per descrivere rapporti astratti e funzionali.
Se per Schmitt la politica è sempre contrapposizione, la lotta tra le comunità (tra il “noi” e gli “altri”) è strutturale, perché è attorno alla tensione tra amicizia e inimicizia che si gioca larga parte della vita sociale. Soltanto a partire dalla consapevolezza di questa polarità è dunque possibile vivere umanamente tale condizione, assolutamente insuperabile. Per questo il politico, che non può essere annullato nell’etico e neppure nel giuridico, sarebbe pensabile solo se non viene omesso quel dato cruciale che rinvia al conflitto quale dato insuperabile.
Nella modernità, per come viene letta da Schmitt, la distinzione tra pubblico e privato legittima l’inimicizia. Tanto che ai suoi occhi l’illusione liberaldemocratica di affrancarsi dalla tensione essenziale tra l’amico e il nemico non solo è infondata, ma è pure foriera di conseguenze funeste. La tesi è che i sogni delle utopie progressiste sono destinati a convertirsi in incubi, mentre sarebbe ben più saggio accettare la realtà quale è.
In pagine ormai classiche, il giurista tedesco ha sottolineato come la volontà di eliminare ogni belligeranza e violenza dall’orizzonte del possibile abbia trasformato l’hostis (avversario) in un inimicus (nemico ideologico), e lungo questa strada ci abbia trascinato nelle guerre totali dell’epoca moderna. Se il nemico diventa impossibile, le forze della civiltà dovrebbero spazzar via tutto quanto impedisce il trionfo del bene e della concordia.
È soprattutto la costruzione dell’idea di umanità a rendere impensabile la guerra, così da legittimare – in forma assai paradossale – lo scatenamento di una violenza illimitata a danno di chi mette in pericolo la pace, dato che «proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all’umanità, monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare soltanto – visto che non si possono impiegare termini del genere senza conseguenze di un certo tipo – la terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso deve essere dichiarato hors-la-loi e hors-l’humanité e quindi che la guerra dev’essere portata fino all’estrema inumanità» (Der Begriff des Politischen).
L’intuizione di Schmitt è profonda e invita ad accettare l’imperfezione della condizione umana. Si è scritto molto sul cattolicesimo dello studioso, ma non sempre s’è avvertito come tale identità sia riconoscibile soprattutto nel suo realismo, che porta a fare i conti con l’uomo quale è veramente e a guardare con sospetto all’illusione di un mondo pacificato dalla democrazia. Nei suoi scritti pare risuonare a più riprese quella formula di Pascal, che sottolineava come l’uomo che voglia essere un angelo finisce per diventare una bestia. L’umiltà di chi si riconosce imperfetto (e quindi peccatore) è una premessa importante sulla via della saggezza.
Per Schmitt, la radice di tutto questo sta nel trionfo dell’economia moderna, che è al tempo stesso tecnica, fede nel progresso, idealità liberale. E in questo senso secondo lo studioso tedesco il testo che maggiormente esemplifica questa visione, volta a sostituire alla guerra il commercio, è il saggio di Benjamin Constant sull’esprit de conquête, che a suo parere «inaugurò l’intera spiritualità liberale dell’Ottocento».
Quando parla della politica, investigando gli arcani su cui poggia il potere nell’età inaugurata dall’avvento dello Stato, Schmitt è illuminante; al tempo stesso, però, è quanto mai deludente ogni qual volta si riferisce agli ordini di carattere evolutivo e, in particolare, quando prende in esame le forme dell’economia di mercato. Ne discende che mentre egli può essere assai utile a operare una demistificazione del dominio, difficilmente può essere utilizzato per immaginare e costruire forme di convivenza che pongano al centro proprio la simpatia e la volontaria disposizione a cooperare.
- Dall’amicizia a nuove forme politiche
D’altra parte, la nostra tradizione filosofico-politica (largamente hobbesiana) ha costruito le istituzioni partendo da un’antropologia che ha proclamato un’insuperabile ostilità tra gli esseri umani. Se senza la violenza concentrata nella mani del sovrano la società non sarebbe altro che bellum omnium contra omnes, non c’è spazio per le relazioni amicali.
Non è un caso che le teorizzazioni prevalenti riconducano il diritto a obblighi, sanzioni e forme di manipolazione sottili (si pensi al nudge), né che gli orizzonti istituzionali del nostro tempo interpretino quelle logiche. La sovranità in nuce contestata da La Boétie non è stata allora accantonata: più semplicemente, la corona è stata trasferita dal re a un parlamento che, in seguito, ha preteso d’interpretare la volontà di tutti noi. A seguito di tutto ciò, il potere sovrano non è stato indebolito, ma semmai rafforzato.
Qualsiasi alternativa è stata considerata “irrealistica”. Accuse di irenismo e utopismo sono state indirizzate a quanti hanno pensato che non l’inimicizia fosse all’origine di un’adeguata visione della città, ma invece la volontà di confidare nell’altro, vivere al suo fianco, costruire una reciproca conoscenza e far crescere la capacità di essere simpatetici. Ma se l’ortodossia ci parla di una spirale che dall’odio genera il potere, e dal potere nuovo odio, la vera scommessa (contra Schmitt stesso) è provare a delineare qualcosa di diverso.
Un cambio di paradigma può venire dal rafforzarsi di logiche che delineino un orizzonte in cui la guerra sia possibile, ma non necessaria; in cui non sia l’ostilità verso reali o presunti hostes a definire il patto fondativo, ma invece la volontà “federale” di costruire convivenze che permettano una vita degna di essere vissuta. Si tratterebbe insomma di fare emergere un’altra politica, intesa più come costruzione di ordini sociali che non quale antidoto a ipotetici conflitti.
Nella storia e nella teoria non mancano esempi formidabili: dalle proprietà condivise degli antichi comuni fino alle reti commerciali al centro di ogni società che includa divisione del lavoro e specializzazione, dalle città private fino alle esperienze più innovatrici nella gestione della giustizia e nella finanza (si pensi a bitcoin).
Dalla proprietà e dal contratto possono venire ordini politico-istituzionali che non reputino la guerra e il dominio il loro orizzonte. Bruno Leoni amava citare quel passo dell’Henry V in cui s’evidenzia come il legame affettivo, se connesso a grandi ideali, possa smuovere le montagne: «we few, we happy few, a band of brothers». Nel contesto dell’opera shakespeariana si trattava di una cooperazione per la battaglia, è vero, ma quella fratellanza può certamente essere alla base di una disponibilità a cooperare volta a privilegiare il rispetto, il riconoscimento reciproco, la pace.
ENDOXA - BIMESTRALE Carlo Lottieri ENDOXA SETTEMBRE 2024 POLITICHE DELL'AMICIZIA/INIMICIZIA
