LA COSTRUZIONE DEL NEMICO: BREVE FENOMENOLOGIA STORICA SULLE FIGURE DELL’INIMICIZIA

Enemy-DENIS-VILLENEUVENICOLÒ PITARO

Chi siano i nemici per una determinata comunità politica è una domanda che la storiografia non cessa di porsi, collegandola con i fenomeni che ne costituiscono la necessaria premessa: la guerra (nei confronti di altri popoli e ordinamenti) e i conflitti interni a una determinata società. I conflitti (interni ed esterni) rivestono un’importanza e una diffusione evidenti in tutta la storia dell’Occidente (così come nella storia delle civiltà extra-europee) e coinvolgono gli aspetti più diversi della dinamica sociale e della produzione culturale. Anche il sapere giuridico è stato indotto a intervenire sui principali profili del fenomeno, dalla legittimazione della guerra alla definizione del nemico, alla condotta delle ostilità, e non ha omesso di tematizzare il nesso fra sovranità e conflitto. La letteratura storiografica ha pertanto ampia estensione su questo tema. La molteplicità dei problemi e dei contesti studiati dalla storiografia “polemologica” e la conseguente vastità di quest’ultima sono dunque tali da far apparire velleitaria l’intenzione di proporre una domanda di carattere generale sulla “costruzione del nemico”. Certo, è possibile rintracciare alcuni criteri che delimitino il perimetro dell’indagine. In primo luogo, la dinamica conflittuale assume caratteristiche diverse a seconda che si indirizzi all’esterno di una determinata comunità politica oppure si consumi al suo interno. Conviene tener distinti il pòlemos e la stasis, la guerra tout court e la guerra “civile”, e delineare di conseguenza due figure di ostilità: nei confronti di individui appartenenti a un ordinamento diverso dall’ordinamento di riferimento oppure nei confronti di un socius, di un membro interno all’ordine politico-sociale considerato. In secondo luogo, un ulteriore criterio di riduzione della complessità è suggerito dall’adozione della stessa espressione di “nemico”; un’espressione che non si riferisce a un individuo coinvolto in un conflitto qualsiasi, ma evoca la figura di un antagonista radicale, giudicato capace di mettere a repentaglio l’esistenza stessa della comunità politica. Resta indubbio però che, anche accogliendo una siffatta delimitazione del campo, la fenomenologia storica che ci troviamo di fronte resta amplissima.

Cambiano i contesti e tuttavia le figure dell’inimicizia, prodotte nel vivo di un conflitto che mette a repentaglio la comunità politica, tornano a presentare alcuni tratti ricorrenti. Basta passare in rassegna alcuni momenti della storia occidentale per imbattersi in immagini e schemi argomentativi che non sembrano esaurirsi in un contesto specifico. L’impiego del bannum nei comuni medievali è un esempio efficace di una strategia che assume l’avversario come incompatibile con il bonum civitatis, con la preservazione della comunità politica, e lo colpisce con una sanzione che, attraverso l’espulsione ne cancella l’identità politico-giuridica. Nello stesso periodo, la Chiesa, impegnata sul duplice fronte del potenziamento del proprio impianto gerarchico e della lotta all’eresia, presenta l’eretico come un ribelle e un nemico, resosi estraneo al corpo vivente della comunità e come tale meritevole di essere colpito da rilevanti incapacità giuridiche. L’eretico è un ribelle e quindi un nemico che insidia l’ordinamento – la comunità ecclesiale – di cui fa parte. L’eretico e il ribelle appaiono figure intercambiabili di inimicizia per la Chiesa medievale e tornano a proporsi come tali nel panorama della prima modernità. Le monarchie assolute offrono, alle soglie della modernità, il quadro più compiuto delle strategie di individuazione e di neutralizzazione del nemico interno: che, ancora una volta, è tale in quanto i suoi crimini permettono di presentarlo come una minaccia mortale nei confronti dell’ordine giusto che in questo caso trova la sua principale nervatura nella maiestas del principe. L’antico regime viene travolto dall’onda della rivoluzione, ma non per questo si interrompe l’inimicizia. Proprio nella rivoluzione francese il tema del nemico acquista una valenza decisiva. Nella retorica giacobina, la rivoluzione assume la valenza di una lotta mortale fra l’oppressione e la libertà, fra il passato e il futuro, fra la luce e le tenebre, tanto da giustificare, nell’urgenza del conflitto, la sospensione dei diritti e lo stato d’eccezione. È la presenza del nemico, la necessità di debellarlo, che giustificano l’intervento “extra ordinem” del potere; un potere che deve colpire quei cittadini che, in quanto ostili alla rivoluzione, cessano di far parte della nazione e operano nel Paese come quinta colonna o spia del nemico. Le immagini dell’estraneità, dell’ostilità, del tradimento si intrecciano per stigmatizzare il nemico e legittimarne la pronta eliminazione. La drammatizzazione del nemico interno raggiunge la massima evidenza nella fase giacobina della rivoluzione, ma non si esaurisce in essa. Al contrario, nel corso dell’Ottocento e del Novecento la figura del nemico si incarna in personaggi sempre diversi, a seconda dei contesti e degli orientamenti ideologicopolitici, mantenendo al contempo qualcosa della sua fisionomia consolidata. Il nemico, per la Francia liberale, è il gesuita che agisce in segreto per condizionare l’intera società. Non mancano i nemici per il neonato Stato nazionale italiano, che li individua prima nei briganti dell’ex regno di Napoli e poi, a fine secolo, negli anarchici e invoca e applica contro di essi una strategia sbrigativa, imposta dall’urgenza del momento e dal carattere radicalmente “ostile” dell’avversario. Cambiano le formule politiche e i contesti ma si presentano sempre di nuovo la figura dell’avversario-nemico e le connesse strategie che ne invocano la pronta eliminazione in ragione della sua radicale estraneità nei confronti della comunità politica. È questa la logica che il Fascismo accoglie e potenzia identificando sé stesso con la nazione italiana e considerando gli antifascisti come estranei alla nazione, nemici del popolo (tanto che una legge, la “legge sui fuorusciti” del gennaio 1926, applicando questo assunto, prevede la confisca dei beni per chi all’estero agisse contro il Fascismo). E la medesima logica è rintracciabile nella Germania nazionalsocialista come nel regime staliniano, pur nella diversità dei contesti e delle ideologie. La logica del nemico domina nei “totalitarismi” del Novecento, ma non è una loro esclusiva: è una logica che viene da lontano, si ritrova negli Stati liberali dell’Ottocento, sopravvive al crollo dei regimi totalitari, non è ignota alle democrazie del secondo dopoguerra (si pensi ad esempio all’America del maccartismo) e raggiunge il nostro presente, dove nuove figure di nemico compaiono all’orizzonte (migranti, élite ecc.). È infine impossibile non evocare una strategia di “costruzione del nemico”: la strategia adottata, prima, dalla societas christiana nei confronti dell’ebreo “deicida” e poi dal razzismo otto-novecentesco nei confronti dell’ebreo che contamina l’integrità della razza ariana. L’anti-giudaismo e poi l’antisemitismo sono fenomeni nel loro complesso difficili da decifrare storicamente, data la loro durata e la loro diffusione, ma si offrono in ogni caso come un serbatoio inesauribile di immagini di ostilità e di strategie di espulsione ed eliminazione del nemico. Si potrebbe continuare in questa elencazione di contesti profondamente diversi e tuttavia caratterizzati dalla ricorrenza di figure di inimicizia relativamente simili. Sarebbe comunque impossibile offrire tanto un’esaustiva rassegna dei contesti storici coinvolti nella logica del “nemico” quanto una loro descrizione analitica (peraltro disponibile grazie agli apporti di una ormai consistente storiografia). I miei richiami servono soltanto allo scopo di rendere più concrete le caratteristiche comuni che tali contesti mostrano rispetto alla costruzione del nemico.

Ammesso che questo sia fondato, conviene tentare di capire quali siano gli elementi che, ricorrendo nei diversi contesti, possano valere come un minimo comune denominatore di una strategia di costruzione del nemico.

a) È innanzitutto necessario indicare con precisione quale sia il “livello di realtà” in cui situare il processo di costruzione del nemico: è il livello dei discorsi e delle rappresentazioni, il limaccioso flusso retorico che rende possibile la comunicazione sociale e produce le immagini, gli schemi concettuali e gli stereotipi volta a volta dominanti. L’immagine del nemico è uno di questi stereotipi, all’elaborazione del quale collaborano le componenti più diverse del discorso pubblico. Possiamo parlare di “costruzione” del nemico per sottolineare che la formazione dello stereotipo non ha niente di inevitabile e di “naturale”, ma implica l’attività creativa e inventiva dei soggetti. Dobbiamo però evitare di attribuire alla “costruzione” del nemico i caratteri di un’intenzionalità sempre e comunque lucida e disincantata, di presentarla come un machiavellico instrumentum regni, e dobbiamo piuttosto vedere in essa l’attivazione di simboli, credenze, timori, aspettative largamente condivisi.

b) La costruzione del nemico è la formazione di uno stereotipo che trae forza dalla capacità di ridurre drasticamente la complessità del reale introducendo un’elementare contrapposizione dicotomica (da un lato noi, dall’altro lato i nemici): il risultato è la sensazione di avere un rapporto prevedibile e controllabile con il mondo esterno, di poterne neutralizzare l’oscura minacciosità nel momento in cui si dà un nome e un volto a un pericolo fino a quel momento oscuro e indeterminato.

c) La costruzione del nemico è rassicurante non soltanto in quanto semplifica il reale attraverso una sua rudimentale categorizzazione, ma anche in quanto rafforza la coesione di un gruppo che spesso prende coscienza di sé (o comunque rafforza il senso della propria identità) individuando una minaccia o un pericolo. È in gioco la percezione di un’estraneità che si rende portatrice di un pericolo mortale.

d) Il nemico viene spesso presentato come invisibile e dissimulato e proprio per questo tanto più infido e insidioso. Un elemento ricorrente nella costruzione del nemico è il suo collegamento con il complotto, con la congiura, con una consorteria segreta e quindi ancora più inquietante. La lotta al nemico interno alimenta quindi una strategia del sospetto e dello svelamento che non ha invece luogo nei confronti di un nemico dichiarato e scoperto come il nemico esterno.

e) È appunto questo il messaggio centrale veicolato dall’impiego del termine “nemico”: la netta contrapposizione fra due realtà antagonistiche, il carattere dicotomico della scena politica, l’eliminazione di zone grigie o intermedie, l’impossibilità di distinzioni e tergiversazioni. Non a caso Carl Schmitt ha individuato nella contrapposizione fra amico e nemico l’essenza di una politica finalmente emancipata dalle illusioni dialogiche, dall’inconcludente bavardage del parlamentarismo liberale. L’impiego del termine “nemico” esclude la possibilità di assumerlo come un interlocutore, sia pure avverso, e vanifica l’ipotesi di una qualche forma di convivenza. A distinguere l’avversario dal nemico non è una differenza di grado nel comportamento “ostile”, ma è un salto di qualità: il nemico mette a repentaglio l’esistenza stessa della comunità politica, è, per essa, una sfida mortale.

f) Se il nemico minaccia di travolgere l’ordine, la risposta “difensiva” della comunità deve essere all’altezza del pericolo decisivo che la sovrasta: lo stereotipo del nemico suggerisce, prima, la strategia del sospetto e poi impone la neutralizzazione della minaccia. Se la minaccia è mortale, allora è legittimo e doveroso l’impiego di ogni mezzo efficace per arginarla. La logica del nemico è la logica dell’eccezione. Che l’eccezione sia un momento consustanziale all’ordinamento oppure che essa ne sospenda i meccanismi ordinari facendo trionfare il potere nella sua nudità, resta fermo comunque che il nemico si muove in uno spazio “esterno”, per il quale vale una logica non riducibile alla dialettica della norma. Stato di eccezione e stato di inimicizia si sostengono a vicenda.

g) Vincere il nemico significa renderlo definitivamente estraneo: significa gettarlo fuori, espellerlo dal perimetro della città. Da questo punto di vista, l’antico strumento del bannum mantiene una sua straordinaria esemplarità. Quale che sia comunque la sanzione adottata, l’intervento reclamato dallo stereotipo del nemico deve avere un carattere espulsivo. Il nemico sconfitto deve essere collocato in uno spazio esterno, separato dalla realtà vivente della comunità e per questo già prossimo alla morte. In questa prospettiva, il passaggio dall’espulsione all’uccisione del nemico non è un salto di qualità, ma uno spostamento lungo una linea continua, tracciata dalla logica (l’espulsione del corpo estraneo) dettata dall’immagine stessa del nemico. Il nemico come un pericolo che minaccia la comunità, ne insidia, ora apertamente ma più spesso subdolamente, l’esistenza e richiede, per essere scongiurato, l’intervento compatto e deciso della comunità stessa; e la comunità, a sua volta, come un gruppo che rafforza la propria identità contrapponendosi al nemico e lo neutralizza gettandolo fuori, espellendolo, annientandolo.

Sono questi i profili principali di uno stereotipo del nemico costruito dalle retoriche dominanti nei più vari contesti storico-culturali. Stereotipo che è possibile rintracciare oggi nella più moderna “retorica sovranista” che vede i suoi principali nemici nelle figure del migrante o nelle indefinite élite intellettuali, economiche e finanziarie.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

Lascia un commento