L’ERGASTOLANO NON COLLABORANTE CHE HA ROTTO OGNI LEGAME CON LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA
GIANPIERO COLETTA
1. Nei primi anni novanta del secolo passato lo Stato italiano ha dovuto fronteggiare la crescente brutalità della criminalità organizzata e per questo motivo ha adottato varie misure legislative di carattere emergenziale prevedendo, tra le altre cose, anche l’istituzione di un regime detentivo più severo nei confronti dei condannati all’ergastolo per reati di mafia o per altri reati di notevole gravità. Il nostro legislatore ha, infatti, inserito nell’ordinamento penitenziario l’art. 4 bis con cui ha disposto che i condannati in parola possono godere dei benefici trattamentali del lavoro esterno al carcere, dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione solo se collaborino con la giustizia e se vi siano elementi che escludano la persistenza di loro collegamenti con il sodalizio criminale in cui operavano.
Con l’art. 4 bis è stato, dunque, introdotto nel sistema penale un tipo di ergastolo – il cd. ergastolo ostativo – che impedisce l’accesso ai benefici penitenziari a quanti lo debbano espiare, a meno che questi non collaborino con le autorità di polizia e con quelle giudiziarie nella ricostruzione dei reati e nell’accertamento della responsabilità degli imputati accusati di averli commessi. In altre parole, con l’articolo in esame è stata delineata una presunzione assoluta di pericolosità sociale per tutti i mafiosi condannati all’ergastolo che decidano di non cooperare con la giustizia e si è ritenuto che tali soggetti non possano usufruire di alcuna misura premiale.
Va, tuttavia, ricordato che diversi studiosi sono giunti alla conclusione che la normativa sull’ergastolo ostativo, escludendo che il reo non collaborante possa tornare in libertà anche se dimostri la sua avvenuta rieducazione, sia irrispettosa di quanto previsto dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in tema di trattamenti inumani o degradanti e sia del tutto incompatibile con l’art. 27, comma 3 della Costituzione perché questo, nell’ottica di un reingresso in società del condannato, individua proprio nella sua rieducazione lo scopo cui deve tendere ogni pena.
Non sorprende, allora, che in varie occasioni si è cercato di modificare l’art. 4 bis per renderlo più coerente con il diritto convenzionale e con il dettato costituzionale e che in tale direzione si è recentemente mosso il nostro decisore politico quando ha adottato il decreto legge n. 162 del 2022, che è stato poi convertito nella legge n. 199 del 2022.
A ben guardare, con la legge in parola la presunzione di pericolosità ostativa alla concessione dei benefici penitenziari per i detenuti non collaboranti è stata trasformata da assoluta in relativa e si è stabilito che anche il condannato all’ergastolo per reati connessi alla criminalità organizzata che non collabori con la giustizia può chiedere al tribunale di sorveglianza di essere ammesso al lavoro esterno al carcere, ai permessi premio e alle varie misure alternative alla detenzione.
Occorre, poi, segnalare che in sede legislativa si è pure fatto presente che, nel decidere se concedere o meno i benefici al condannato che li richiede, il tribunale deve anche considerare la possibile revisione critica della condotta criminosa da parte del detenuto e tener conto sia delle spiegazioni fornite dallo stesso a proposito delle ragioni che lo hanno indotto a non cooperare con la giustizia, sia dell’eventuale esistenza di sue iniziative a favore delle vittime.
È chiaro, insomma, che il legislatore del 2022 ha modificato l’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario in conformità a quanto suggerito dalla dottrina più attenta ai diritti dei detenuti.
Non va, però, dimenticato che lo stesso legislatore ha pure stabilito che l’ergastolano non collaborante può godere dei benefici trattamentali richiesti solo se compia delle azioni che ne palesino il sicuro ravvedimento. Nel nuovo testo dell’articolo si legge, infatti, che il detenuto in questione può usufruire delle misure premiali solo se dimostri di aver adempiuto alle obbligazioni civili e agli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna e se alleghi alla sua istanza elementi specifici che provino l’avvenuta rottura dei collegamenti che aveva con la criminalità organizzata e l’insussistenza del rischio di un loro futuro ripristino.
2. Assodato che, con la riforma del 2022, è stata riconosciuta al mafioso condannato all’ergastolo che non collabori con la giustizia la possibilità di accedere ai benefici trattamentali tutte le volte in cui dimostri di aver rotto ogni legame con il sodalizio criminale di appartenenza, non possiamo ignorare che in passato la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte costituzionale si erano già espresse criticamente sulla disciplina dell’ergastolo ostativo contenuta nell’originaria formulazione dell’art. 4 bis.
Come sappiamo, la prima ad esprimersi in tal modo è stata la Corte di Strasburgo che, nella famosa sentenza Viola c. Italia del 2019, si è pronunciata su un ricorso presentato da un condannato all’ergastolo per associazione mafiosa che lamentava un trattamento incompatibile con il principio di umanità della pena previsto dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nello specifico, il ricorrente lamentava di aver subito un trattamento irrispettoso dell’art. 3 della Cedu, perché il nostro legislatore aveva considerato la sua mancata cooperazione con il sistema giudiziario un ostacolo insormontabile per la concessione di benefici penitenziari.
Con la pronuncia in esame la Corte europea ha sottolineato che anche la lotta alla criminalità organizzata non può giustificare deroghe alla normativa convenzionale e, soffermandosi sulla previgente disciplina dell’ergastolo ostativo, ha contestato la scelta legislativa di ritenere la collaborazione con la giustizia l’unico criterio idoneo a rivelare la rottura di ogni legame tra il condannato per reati di mafia e il suo gruppo di appartenenza. A giudizio della Corte, con questa scelta si è impedito al non collaborante di provare di aver già compiuto in carcere un importante percorso rieducativo, non si è tenuto conto del fatto che l’ergastolano può aver deciso di non collaborare solo per non dover subire le violente reazioni dei suoi vecchi associati e si è preferito dimenticare che spesso i detenuti hanno cooperato con le autorità solo per accedere ai benefici penitenziari e non perché avevano davvero ripudiato i loro valori criminali.
Dando ragione al ricorrente, i giudici di Strasburgo hanno, quindi, condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Cedu e hanno sollecitato il nostro Paese a riformare la disciplina dell’ergastolo ostativo per fare in modo che la stessa non limiti più in misura eccessiva la possibilità dei non collaboranti di accedere ai benefici trattamentali.
Dopo la pubblicazione della sentenza Viola c. Italia, anche la Corte costituzionale si è espressa in modo critico su alcune previsioni contenute nell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario e, con la sentenza n. 253 del 2019, ha dichiarato illegittimo l’articolo in questione nella parte in cui non prevedeva che pure all’ergastolano che non collaborava con la giustizia potessero essere concessi permessi premio in presenza di prove che escludevano l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata e il pericolo di un loro ripristino.
Secondo la Corte, la presunzione assoluta di pericolosità del non collaborante impediva al giudice di valutarne il percorso riabilitativo compiuto in carcere e, per tale motivo, la disposizione che la prevedeva si poneva in contrasto con l’art. 27, comma 3 della Costituzione che ha individuato proprio nella rieducazione del detenuto lo scopo di ogni pena.
Il giudice delle leggi ha, oltretutto, ribadito questa sua posizione quando è stato chiamato dalla Corte di Cassazione ad esprimersi sulla legittimità delle previsioni legislative che negavano all’ergastolano per reati di mafia che non cooperava con la giustizia la possibilità di essere ammesso alla liberazione condizionale. Non sfugge, infatti, che, con l’ordinanza n. 97 del 2021, ha spinto il legislatore a rendere la disciplina dell’accesso ai vari benefici penitenziari più conforme al dettato costituzionale e, per questa ragione, gli ha chiesto di tener conto del fatto che la presunzione di pericolosità gravante sul condannato all’ergastolo per reati connessi alla criminalità organizzata deve ritenersi superata tutte le volte in cui il reo dimostri di aver proficuamente compiuto un percorso di risocializzazione.
In linea con quanto affermato dai giudici di Strasburgo la Consulta ha, quindi, ritenuto illegittima la previgente disciplina dell’ergastolo ostativo nella parte in cui impediva ai non collaboranti di poter usufruire delle misure premiali ed ha anch’essa sollecitato il nostro decisore politico a non considerare più la mancata cooperazione con il sistema giudiziario un ostacolo insuperabile per la concessione delle misure in parola.
Dalla giurisprudenza presa in considerazione risulta, allora, evidente che il legislatore del 2022, riscrivendo l’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario nell’ottica di un reingresso in società del reo, ha tenuto conto delle indicazioni provenienti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte costituzionale. E´ sotto gli occhi di tutti, infatti, che ha scelto di agire in coerenza con tali indicazioni quando ha disposto che il mafioso condannato all’ergastolo può sempre accedere ai benefici trattamentali se provi di essersi pienamente ravveduto e di non aver più alcun legame con il sodalizio criminale in cui operava.
DIRITTO ENDOXA - BIMESTRALE ENDOXA SETTEMBRE 2024 Gianpiero Coletta POLITICHE DELL'AMICIZIA/INIMICIZIA
