NOTA SU AMICIZIA E POLITICA, A PARTIRE DA UN PICCOLO CAPOLAVORO DI PIERRE AUBENQUE

25-pierre-aubenque-filosofiaMARIO VERGANI

Davvero discutendo di amicizia siamo nel regime degli endoxa e dunque, immediatamente, dalle parti di Aristotele.

L’inimicizia regna sovrana. A partire da questa constatazione sorge la domanda ‒ scandalosa oggi ‒ se sia possibile l’amicizia in politica o, ancora più difficile, l’amicizia politica. Forse è meglio procedere a contrario, partire dall’inimicizia e dalla sua radicalizzazione, fino alla forma dell’inimicizia assoluta, cioè della disumanizzazione dell’altro, fino alla distruzione e allo sterminio. Certo suona fuori tempo pensare ad un rapporto con il nemico che possa risultare utile, come ancora poteva essere per gli antichi, come per il Plutarco del De capienda ex inimicis utilitate secondo il quale l’amico costringe alla sorveglianza e dunque alla cura di sé. Spostandoci sul piano dell’amicizia politica ci dobbiamo chiedere se l’opposizione schmittiana “amico/nemico (pubblico)” e l’assunto che il politico si debba pensare a partire dall’inimicizia, non siano de facto superati. Per un verso è vero che con la “guerra mondiale a pezzi” e con la difficoltà di definire il “nemico pubblico”, di distinguere tra polemos e stasis, ebbene con tutto ciò si produce una progressiva cancellazione di tale distinzione che porterebbe all’indistinzione del “politico” e dunque alla difficolta di definire la sfera pubblica. Ma, per altro verso, le nazioni continuano a raccogliersi attorno alla distinzione amico/nemico, cioè attorno alla guerra, spesso in nome dei più alti valori: la democrazia, la giustizia, la pace.

Se l’inimicizia è assoluta, che senso ha oggi pensare un’amicizia politica che vi si confronti? Che tipo di amicizia dovrebbe essere? Beninteso, non amicizia in politica, ma amicizia politica. La questione non è se nella sfera politica sia possibile intrecciare rapporto amicali o avere rapporti amicali tra parti ‒ partiti o stati, nazioni ‒, ma se sia concepibile un’amicizia, all’altezza dell’inimicizia assoluta che osserviamo, che consenta di pensare la categoria del “politico” o che per lo meno sia indispensabile per pensarlo. Saremmo così agli antipodi della tesi di Schmitt, per il quale senza la figura del nemico non si darebbe il politico in quanto tale. Avremmo così l’ipotesi paradossale secondo la quale perché si dia il politico in quanto tale sarebbe necessaria la figura dell’amico e ‒ nella configurazione attuale ‒  dell’amico in quanto tale, senz’altra aggettivazione o specificazione, un’amicizia senza condizioni.

La grande tradizione classica dell’amicizia politica è certamente differente da quella dei moderni, innanzitutto in ragione del quadro non deontologico, ma eudaimonistico delle etiche antiche. Com’è noto, quanto al significato del termine philia, la traduzione con “amicizia”, con le sue risonanze moderne e contemporanee, è riduttiva; chiaramente non avrebbe senso per un antico chiedersi quale dovrebbe essere il movente della socialità e, alla lunga, della politica, dato che questo è un assunto. Così il dibattito tutto moderno sulle fonti e le istanze morali che dovrebbero sostenere l’aggregazione tra gli uomini ‒ la scuola scozzese, da Hume alla simpatia di Smith; la pitié di Rousseau, ma anche le risorgive contemporanee relative alla necessità di supportare la sfera pubblica mediante gli affetti e le passioni, dall’analisi dei sentimenti prosociali alla Strawson fino alla Nussbaum; o ancora i dibattiti più recenti sul rapporto tra le passioni e la vita politica e sul far difetto e la necessità delle passioni per l’impegno comune ‒  ebbene tali discussioni sono distanti dalla sensibilità dell’amicizia politica classica. In altri termini, il concetto di amicizia evolve lungo i secoli in ragione dei cambiamenti nelle relazioni sociali e politiche e così la sue connessione con il piano delle disposizioni personali e affettive. Cosicché non si può parlare di una concezione univoca di amicizia, ma di amicizie al plurale, di amicizie in un regime di pluralismo.

Ciononostante è vero che la discussione antica più celebre, contenuta nei Libri VIII e IX dell’Etica a Nicomaco e nel VII dell’Etica Eudemia di Aristotele, colloca il problema dell’amicizia dentro la cornice generale della politica, non limitandosi alla casuistica delle relazioni amicali (come comportarsi quando si litiga con l’amico?…), ma spostando ad un livello più alto la questione: l’amicizia è indispensabile per intendere nella sua pienezza la socialità umana e quindi, alla lunga, si dà amicizia politica? La risposta non può risultare che affermativa: da un lato l’amicizia aggrega, dall’altro lato  una comunità di amici potrebbe anche fare a meno del requisito della virtù della giustizia, che nella progressione aristotelica rappresenta il culmine della disamina delle virtù politiche; non c’è neppure bisogno di essere giusti, perché la giustizia è superata dall’amicizia: l’amicizia costituirebbe il coronamento della politica (Etica nicomachea 1155a 1-31 ed Etica eudemia 1234b 18- 1295a)

Ma Aristotele procede con cautela, insiste sugli elementi aporetici e squaderna la pantaporia che l’amicizia, come una valigia, contiene. La diaporesi dialettica consente di sviluppare le aporie in entrambe le direzioni e di compiere la ricerca di ciò che è vero e di ciò che è falso (Topici, I, 2, 101 a 34-36). Ma la diaporia non ha il semplice significato di analisi preliminare (gli endoxa non sono tout court aporie); al contrario è sviluppo di un problema di fatto, anche nel caso in cui nessuna autorità precedente e nessuna opinione diffusa abbia sollevato tale problema. La diaporia sviscera un’aporia presente di fatto e non solo nelle discussioni umane. Aristotele infatti cerca innanzitutto una definizione, cerca il ti esti: che cos’è l’amicizia? Qual è l’essenza dell’amicizia? Come di consueto comincia a differenziare l’amicizia da altre relazioni prosociali che hanno una significazione positiva per l’aggregazione dei cittadini: l’amicizia in senso sostanziale è uno stato dell’animo stabile e non un pathos momentaneo come il sentimento di affetto (philesis); non è benevolenza (eunoia), perché quest’ultimo è un sì sentimento amichevole, ma privo di scelta, pertanto rivolto anche a chi non conosciamo; da ultimo, non è neppure la concordia (homonoia), che è infatti una forma specifica di amicizia, e cioè, in senso stretto, l’amicizia politica che stabilizza la polis e pertanto somiglia maggiormente all’amicizia di utilità. Nessuna di queste può essere sovrapposta all’amicizia. Se si dà amicizia in quanto tale, allora è altro. Viene rilanciata la domanda: su cosa si basa? Anche in questo caso la definizione del ti esti dell’amicizia si diffrange nella distinzione aristotelica più tradizionale tra tre tipi di amicizia: di piacere, di utilità e di virtù. Quale di queste è la vera amicizia, l’amicizia in senso pieno? E prima ancora, una tale amicizia si dà? Il ragionamento procede per via dialettica e dunque non definitoria o assertiva ‒ in questo in linea con le conclusioni aperte e aporetiche del giovanile dialogo sull’amicizia di Platone, il Liside ‒ come sempre accade per questioni che riguardano la prassi, quando è chiamato in causa il sapere tutto umano relativo agli affari tra gli uomini, quando non ne va della sapienza, ma della prudenza (a quali condizioni posso continuare a a fidarmi dell’amico che mi ha deluso?…).

Che si tratti di una domanda che va al di là del tema specifico, investendo invece l’antropologia e dunque portandosi dietro un intero impianto ontologico, lo mostra l’argomentazione che Aristotele imbastisce sul rapporto tra le tre amicizia. Sono chiamati in causa gli stessi utensili teorici già in uso nelle discussioni relative al problema dell’“essere in quanto essere” svolte nella Metafisica. Come l’essere si dice in molti modi, ugualmente, anche l’amicizia pollakos leghetai. E anche in questo caso il problema sarà se il termine amicizia sia equivoco, se abbiamo un caso di sinonimia o di omonimia, se tra le forme di amicizia vi sia somiglianza. Aristotele, sembra indicare una direzione, un significato focale (pros hen) che consente di pensare l’amicizia in quanto tale e, a partire da questa, l’amicizia nelle sue diverse specificazioni: la prote philia o teleia philia. Lo ribadiamo: il discorso aristotelico sull’amicizia ha una cornice politica: si apre con la questione dell’amicizia politica e pensa l’amicizia come coronamento della socialità, un legame che oltrepassa i doveri di giustizia. Allora la questione sarà come pensare politicamente l’amicizia alla luce di questa prote o teleia philia. Per riprendere gli spunti iniziali della nostra riflessione, come pensare, a fronte di un’inimicizia assoluta, l’ipotesi di una amicizia assoluta che avrebbe al tempo stesso un significato politico, al di là della homonoia. Alla luce del presente, una spia dei limiti di questa visione dell’amicizia politica (homonoia) che stabilizzerebbe la comunità la si trova nel passo dell’Etica nicomachea (VIII, 1161b, 15) in cui Aristotele afferma che l’amicizia si basa su una comunità (koinonia), che può essere di vario genere, una comunità che può includere anche gli ospiti stranieri (xeniken), e tuttavia non lo straniero in quanto estraneo, ma, diremmo oggi, lo straniero regolare.

Il piccolo capolavoro di Pierre Aubenque intitolato L’amitié selon Aristote (1963) si trova in appendice a La prudence chez Aristote. Il sapere delle cose umane, il sapere che modifica l’uomo mentre agisce, il sapere etico e politico, è un sapere dialettico, inconcluso: «La vera dialettica è quella che non sfocia su nessuna essenza, nessuna natura, e che tuttavia si rivela sufficientemente forte da “esaminare i contrari” senza il soccorso dell’ essenza. Tale è in Aristotele il trionfo amaro della dialettica: che il dialogo sia sempre rinascente, malgrado il suo scacco. Di più, che lo scacco del dialogo sia il motore segreto della sua sopravvivenza, che gli uomini possano ancora intendersi quando non parlano di nulla, che le parole conservino ancora un senso, anche problematico, al di là di ogni essenza e che la vacuità del discorso, lungi dall’essere un fattore d’impotenza, sia tramutata in un invito alla ricerca indefinita» (P. Aubenque, Le problème de l’ être chez Aristote, 1977, pp. 294-295). Sottolineiamo le parole di Aubenque: “senza il soccorso dell’essenza”, “parlando di nulla”. E tuttavia resta l’idea di qualcosa come una prote e teleia philia, al tempo stesso “prima” e compimento dell’esperienza umana dell’amicizia. Il passo dell’Etica nicomachea attorno al quale ruota l’argomentazione di Aubenque è il 1159a 1-10: «Nasce da ciò il dubbio, se gli amici possano non volere per i loro amici i più grandi tra beni, per esempio che diventino degli dei, dato che in tal modo non saranno più amici loro, e quindi non saranno nemmeno, per loro, dei beni: infatti gli amici sono beni». L’amicizia è una faccenda umana, finita e mortale, non pertiene né agli animali (perché non possono scegliere), né agli dei, chiusi nella loro autarchia, e per i quali il bene non implica la presenza dell’altro; ma se voglio il bene massimo per l’amico, voglio che sia un Dio e se lo diviene dunque non potrà essere più mio amico. Commenta Aubenque: «L’amitié tend à s’épuiser dans la transcendance même qu’elle souhaite ; à la limite, l’amitié parfaite se détruit elle-même» (L’amitié selon Aristote, p. 180). L’uomo felice ha bisogno di amici, non può essere autarchico; detto altrimenti la posizione autarchica non ha bisogno dell’altro, ma se il bene per l’uomo è un bene di relazione, allora mentre nel caso di Dio l’assolutezza sovrana genera indifferenza (dio non pensa che se stesso), nel caso dell’uomo genera inimicizia, perché si rende cieca all’altro.

A partire da queste analisi filosofiche portate sull’amicizia e sull’impossibilità di definirne l’essenza senza cadere in paradossi, si può tornare alla domanda iniziale: cosa sarebbe e come si darebbe oggi un’amicizia politica? Tesi ardita: a fronte dell’eccesso dell’inimicizia, un’amicizia eccessiva. Se è vero che oggi si può verificare come l’inimicizia sia portata all’estremo ‒ un’eccedenza dell’inimicizia ‒ allo stesso modo ci si può interrogare se sia possibile pensare anche ad un eccesso di amicizia, ad un’amicizia che ecceda i valori che una linea maggiore della tradizione ha messo a disposizione per pensare il nesso tra amicizia e politica, cioè un’amicizia sproporzionata. Amicizia nei confronti di un altro che non sia un altro me stesso, che non sia già il mio simile, amicizia nella distanza incolmabile, amicizia con l’estraneo. E se è vero, come sostiene Aristotele, che l’amicizia va al di là della giustizia, allora, quando l’amico non è il simile ma l’altro in quanto estraneo, quanto deve cambiare, come altrimenti dobbiamo pensare il concetto e l’opera di giustizia?

Continuando ad intendersi su un “non so che” che non si lascia dire, la filosofia fa la sua parte, testimone di quell’amicizia che porta nel suo nome.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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