A PROPOSITO DEL SOLARPUNK CINEMA
EUSEBIO CICCOTTI
- Premessa
Nel Manifesto Solarpunk (2014) di Adam Flynn vengono elencati i principali “punti” del movimento riguardanti la creazione artistica: (1) Una estetica solare. Raccontare storie visive in cui la chiarezza della composizione del quadro, la luminosità e il contrasto dei colori siano centrali;
(2) La pluralità e le diversità culturali. Porre in relazione di scambio e di arricchimento reciproco le diverse storie culturali dei cinque continenti;
(3) L’etica hacker. Utilizzare la tecnologia predigitale e digitale, l’I.A., per migliorare la vita sul nostro pianeta;
(4) Giustizia etico-sociale. Portare le società di ogni continente alla piena democrazia, comunità inclusive, e consentire a tutti di accedere ai beni e alle risorse del pianeta;
(5) La solidarietà umana. Ognuno deve collaborare nell’aiutare il proprio simile nel superare le difficoltà e il gap economico-sociale.
- Il cinema muto era già solarpunk?
Se guardiamo alla storia del cinema, a volo d’uccello, sicuramente molti capolavori hanno trattato almeno uno o più punti, prima della pubblicazione del Manifesto di Flynn. Ad esempio, la luce e il sole, elementi fondanti dell’estetica solarpunk. Sappiamo che le prime pellicole del cinématographe, ossia per tutti gli anni Dieci e parte degli anni Venti, avevano bisogno di molta luce per essere impressionate. Per questo si girava preferibilmente in primavera-estate e negli interni si ricorreva assai a fonti di luce artificiale. In Italia, ad esempio, per sfruttare la luce solare, tra il 1904 e il 1907, oltre a Milano e Torino, diverse case di produzione aprono nel centro-sud: Roma, Velletri, Napoli, Palermo. Gli inglesi si spostano da Londra, piuttosto grigia e buia d’inverno, a Brighton, più assolata, dove nacque la nota “Scuola di Brighton”. Dal 1911-12 i produttori americani, oltre che per problemi di concorrenza sleale tra le case di produzione sulla East Coast, vanno alla ricerca del sole e della luce della California per poter girare in esterni tutto l’anno: nasce Hollywood. Potremmo dire che il cinema geneticamente vive dei suoi panorami illuminati dal sole, è una solar art ante litteram.
Auguste e Louis Lumière, in Francia, raccontano la città, certo nel suo progresso industriale (treni, carrozze a cavallo, folle di persone nei grandi centri, operai e fabbriche), ma anche nella sua luminosità quotidiana, sia in giornate assolate sia con l’affasciante bianco della neve. Si pensi all’ Arrivée d’un train à La Ciotat o a La sortie des usines, con gli operai e le operaie “colti” mentre escono dai cancelli di legno sulla strada, in una giornata di pieno sole. Da notare cosa indossano le donne: abiti eleganti, con tanto di cappellino della domenica (pare che i Lumière convocarono i loro dipendenti la domenica 10 marzo 1895, giornata, secondo il meteo, di pieno sole primaverile). O, ancora, si guardi Bataille de niege, con la luce bianca riflessa dal manto di neve che ricopre le strade e i tetti di Lione: il gioco delle palle di neve lanciate tra adulti e ragazzi, traduce la festa per la neve, la gioia di vivere (naturalmente è un docu-ricosruito, come quasi tutti i film dei Lumière, ma per il pubblico sarà “vero” per decenni). E, in altri “documentari” la città è ripresa in piena luce, con le persone che camminano, viaggiano, lavorano: una vita quotidiana ancora non schiacciata dai ritmi meccanici che trent’anni dopo ci farà vedere Charlie Chaplin in Tempi moderni. I Lumière, del resto, inviano anche un loro operatore a riprendere il Africa, Egypte: panorama des rives du Nile (1897, 32’’: è la prima carrellata del cinema: una sorprendente camera-boat inquadrante la sponda opposta: alberi, viandanti, radure: questo, un documentario). Ecco che il cinema delle origini scopriva le bellezze di un mondo dalla natura incontaminata, immagini fuori dal bagaglio culturale di un europeo scolarizzato del tempo.
Nei primi anni Venti abbiamo poi un capolavoro, Nanook l’eschimese (1922), di Robert Flaherty, in cui la vita al Polo Nord di un semplice nucleo famigliare, sconosciuta al pubblico di allora, mostrava, oltre alla natura incontaminata, una cultura diversa. Insomma, il cinema assolve a funzioni – del resto connaturate al suo statuto ontologico di replicare il mondo -: la conoscitiva e la pedagogica. Nelle povere, sporche, antigieniche periferie delle città industrializzate, il cinema ci arriverà decenni dopo (forse il primo è, ma solo per alcune inquadrature, Berlin – Die Sinfonie der Grosstadt, 1927, Walter Ruttmann: la breve inquadratura della povera mamma colta a elemosinare, con accanto due bambini rasati a zero – pidocchi-, sulle scale di una chiesa).
- Modern Times (1936) di Charlie Chaplin: il primo film solarpunk?
Il primo capolavoro, invece, che si chiede dove ci stia portando la nostra sempre più accelerata società industriale, danneggiando il nostro equilibrio mentale, “progresso” che aveva contribuito con le prime armi tecnologiche (mitragliatrici, gas, bombe, aerei militari) alla Grande Guerra, è Tempi moderni (1936), di Charlie e Chaplin. Nella vicenda del disoccupato clochard, finito in manicomio per esaurimento mentale causato dai ritmi della catena di montaggio, che tornato in società tenta di vivere in una modesta casa di legno rimediata nella brulla periferia della metropoli, con una trovatella (la “Monella”), c’è tutta la denuncia al modernismo senza regola (la sequenza del robot che dovrebbe alimentare gli operai meccanicamente senza fare perder il tempo nella mensa, è ancora oggi di una forza creativa impareggiabile). È il primo film-denuncia della storia del cinema in cui un operaio viene letteralmente divorato dalla macchina produttiva simboleggiata dagli ingranaggi. Se si volesse indicare, dunque, un inizio storico del cinema solarpunk il termine post quem potrebbe essere Tempi moderni.
- La pace con la natura secondo Hayao Miyazaki
Quello che viene chiesto al cinema contemporaneo, sia dichiaratamente solarpunk, o che venga ad esso accomunato, è qualcosa di diverso rispetto al cinema dei decenni precedenti. Oggi alcuni autori sentono il bisogno di inserire nella propria “poetica” storie che denuncino gli abusi e i danni di aziende, compagnie, multinazionali, Stati, nei confronti del patrimonio naturale del nostro pianeta. Ecco la difesa del patrimonio della fauna (Sulle ali dell’avventura, 2019, di Nicolas Vanier); la coltivazione naturale dei prodotti della terra (Il mio amico giardiniere, 2007, Jean Becker); una alimentazione sana (Focaccia blues, 2009- di Nico Cirasola: la lotta, in un centro del sud, della focaccia pugliese contro un ristorante Mc Donald’s); una seria e scientifica ricerca delle fonti alternative di energia che non causi a sua volta il danneggiamento dell’ecosistema (il potente documentario 2040 (2019) di Damon Gameau – ascrivibile al cinema solarpunk a pieno titolo -, un inno, tra l’altro, al solare sul tetto di casa).
Dunque, sono molteplici i film che possono ascriversi al filone solarpunk in quanto diverse opere avevano affrontato temi in omaggio/difesa della natura e delle tradizioni e popolazioni locali, soprattutto a partire dagli anni Sessanta-Settanta (alcun nomi: Jean Rouch, Sergej Paradžanov; le foto di Sebastião Salgado).
Per incontrare film più a tema, rientranti nel Manifesto di Flynn, e spostandoci verso la fine del secolo scorso, più di uno studioso indica nel capolavoro di Hayao Miayzaki, Nausicã della valle del vento (1984), il film precursore del cinema solarpunk. È la storia di una ragazza, appunto Nausicaã, che lotta per la pace e la difesa della natura (ha il dono di comprendere il linguaggio degli animali), in una epoca post apocalittica in cui i viventi debbono cercare di far ripartire la vita su un pianeta ampiamente danneggiato. Il tratto rotondeggiante dei volti angelici dell’infanzia, le vivide tinte dei vestiti dei personaggi, il pastello variegato della vegetazione e dei monti, dai colori sia fortemente contrapposti sia espressi in graduazione (per esempio il rosa o l’azzurro), traducono il desiderio di una vita serena, l’ottimismo in un futuro possibile dove trionfi il rispetto e la pace, temi cari alle teorie solarpunk. La lotta della ragazza si “colora” di ottimismo, lo spettatore ne rimane incantato, anche grazie a una forza estetica scaturente da una sorta di “dottrina del colore” ideata da Miayzaki. Una estetica del colore in cui «[…] le sfumature si avvicinano da ambo le parti (dell’oggetto, ndr) fino al punto in cui il colore appare in modo puro; ad esempio, il rosso puro e l’arancione puro si distinguono nettamente l’uno dall’altro, così come pure si distinguono dalle loro stesse sfumature» (E. Stein, Qualità sensibile. Dottrina dei colori, in Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma, 2001, p. 76).
Sul piano semantico ci limitiamo a un’altra osservazione: nelle attività/capacità del personaggio è centrale la pratica del volo: Nausicaã solca i cieli, si sposta con il suo aliante correndo in aiuto degli amici in pericolo: ella vede tutto dall’alto, come gli spiriti giusti che ci aiutano dal cielo; infatti vedere dall’alto, volare, agire, difendere chi è debole, significa essere giusti, super partes. È ancora l’ottimismo della cultura yamatologa riletta da Miayzaki, in difesa del nostro pianeta.
- Tornare ad amare la campagna: Il mio amico giardiniere (2007) di Jean Becker
In questa nostra breve riflessione abbiamo scelto di soffermarci su due opere uscite in distribuzione negli anni duemila: Il mio amico giardiniere (2007) di Jean Becker e The Promise Land (2012) di Gus Van Sant. Becker rilegge il romanzo Dialogue avec mon jardinier di Henri Cueco (Seuil, 2000), permettendosi delle riuscite varianti nella sceneggiatura (scritta insieme a Jean Cosmos e Jaques Monnet). Nel film i due personaggi del romanzo, un pittore in crisi creativa e famigliare, che torna a dipingere nella sua casa di campagna (Daniel Auteil), e un ferroviere in pensione, esperto coltivatore di ortaggi (Jean-Pierre Daroussin), chiamato a far rinascere l’orto della scomparsa madre del pittore, ricevono la stessa presenza scenica rispetto all’ipotesto (in Cueco il pittore aveva più “scene” rispetto all’ortolano).
Nella trama, il caso vuole che il pittore e il giardiniere, al loro primo incontro, si riconoscano: erano stati per qualche anno compagni di classe più di quarant’anni prima. Poi il pittore, figlio della farmacista del paese, “sospeso”, cambiò scuola, e successivamente scappò di casa per studiare pittura a Parigi «contro il volere di mia madre che mi voleva farmacista»; mentre il compagno, iniziò la vita di operaio «perché per noi del ceto popolare dopo l’obbligo scolastico si andava a lavorare per aiutare la famiglia».
Così la vecchia amicizia, man mano che i due si incontrano e collaborano (vanno insieme ad acquistare una falce; decidono che tipo di insalata seminare; si confidano le loro passioni e i loro problemi quotidiani), rinverdisce ogni giorno di più, come gli ortaggi: le barriere sociali scompaiono. Becker intesse un continuo delicato, profondo, pimpante dialogo sulla vita, con inattese osservazioni in forma di aforismi di filosofia quotidiana. Uno continuo scambio di punti di vista intarsiato di umoristiche battute: sulla pittura, sugli ortaggi, sull’amore. E continuando la goliardia dei tempi delle elementari si danno persino due soprannomi: “Del Quadro” (il pittore), “Del Prato” (l’ortolano).
Nel racconto di Il mio amico giardiniere si inseriscono naturalmente dei motivi personali trattati con estrema raffinatezza dagli sceneggiatori e dal regista: la crisi coniugale di Del Quadro; il suo rapporto con la figlia; la crisi creativa nel ritrarre paesaggi in stile impressionista; la malattia di Del Prato e il viaggio in auto a Parigi per la visita da un amico di Del Quadro, chirurgo specialista; l’operazione del giorno dopo, inutile, rispetto al tumore avanzato; la riservata moglie algerina di Del Prato dai «grandi occhi neri», per i quali va orgoglioso il marito.
Al regista bastano poche pennellate per ogni personaggio secondario. tutte intersecantesi con la vicenda portante dei due amici: al massimo due scene, perché lo spettatore sappia tutto di lui/lei. Becker crea un film accuratamente bilanciato tra tutte le minime parti: dall’ortaggio, al tocco del pennello sulla tela, da uno sguardo alla camminata del personaggio. Ogni inquadratura, sia in dettaglio, che primo piano, o campo medio, frontale o di tre quarti, è magistralmente connessa con il tutto per il raggiungimento di un’impeccabile armonia estetica. «Nell’opera d’arte le parti intrattengono un doppio genere di rapporti: di ciascuna con le altre e di ciascuna col tutto. Tutte le parti sono connesse fra loro in un’indissolubile unità, sì che ciascuna è essenziale e indispensabile e ha una collocazione determinata e insostituibile, al punto che una mancanza dissolverebbe l’unità e una variazione riporterebbe il disordine. Le parti, così connesse e congiunte fra loro, costituiscono e delineano il tutto: l’integrità dell’opera risulta della connessione delle parti fra loro. […] l’armonia delle parti forma l’intero perché il tutto fonda la loro unità» (Luigi Pareyson, Estetica, Teoria della formatività, Firenze, Sansoni, 1974, p.107).
Unità tra il racconto principale e i micro-racconti tradotti anche attraverso una regia volutamente lineare nella sintassi interna alle scene (la panoramiche che accolgono l’arrivo dell’ortolano allo chalet in motorino; le panoramiche sull’orto; i piani ravvicinati sull’erba alta e fitta da falciare; i dettagli degli ortaggi, i primi piani tra i due amici o di entrambi in piano ravvicinato – per esempio a tavolo o nelle scene della pesca in barca), ma anche con il cambio rapido di scena (interno casa/orto; chalet/Parigi; flash-back dei ricordi di entrambi). Riuscito il ricorso narrativo ad alcune figure retoriche.: L’ anafora: l’arrivo, ogni mattina, dell’ortolano in motorino, con un cagnolino del paese che lo insegue sulla strada asfaltata abbaiando); l’analogia: la verdura: dalla realtà ai quadri del pittore; la similitudine: la grande carpa da catturare con l’amo «che si avvicina come la morte»; la metafora ossimorica: il verde, il rosso, l’arancione degli ortaggi rinvianti alla gioia di vivere dei due amici (seppur uno deve superare le sue crisi, e l’altro inizia stranamente a sentirsi male).
E la morte di Del Prato, sapientemente non mostrata (giusta reticenza) conclude un sereno percorso di un uomo come noi. Egli, che sognava di fare il contadino, ha lavorato tutta la vita sui binari «facendo massicciate, alzando traversine pesanti, con il risultato dell’ernia, ma non mi dispiace»; ha cresciuto due figlie; ha una moglie che lo ama con riservatezza, con la quale ogni anno condivide due settimane a Nizza, «durante la bassa stagione, per risparmiare». Ha realizzato un sogno che non si aspettava: regalare all’amico dimenticato dell’infanzia, che credeva perduto, un orto ricco di colori e di vita. Assistiamo al “progresso” spirituale di cui parla Thibon: il pittore trova una personale nuova arte: «dipingere gli ortaggi giganti come nelle tele di Botero!». Lo spettatore realizza che «il vero progresso dell’uomo non dipende dalle sue acquisizioni temporali (prosperità materiale, facilità tecniche, sviluppo dell’istruzione, ecc.) ma dal modo in cui si serve di tutte le cose – o delle loro assenza, giacché la povertà terrestre è spesso una scorciatoia verso il cielo – in vista del suo fine eterno» (Gustave Thibon, L’invisibile luce, D’Ettoris Editori, Crotone, 2022, p. 206).
Il mio amico giardiniere è anche un film filosofico sulla pittura, sul difficile momento della creazione artistica, quando il pittore, da solo davanti alla bianca tela, cerca di tradurre le impressioni che il mondo reale gli sta trasmettendo. Del Quadro, mentre ripensa l’Impressionismo osservando la vegetazione del suo ampio terreno intorno allo chalet (prato, alberi, erba, fiori, ortaggi, verdure), sta anche cercando sé stesso in rapporto al mondo; sta costruendo una conoscenza del sé andando oltre le cose visibili del suo giardino, in un certo senso, sta entrando nella realtà che la riflessione artistica nel suo ampio atelier di Parigi («per anni ho dipinto sempre nudi») non gli consentiva. «Nei grandi protagonisti della pittura moderna, Manet o Whistler, Monet o Bonnard [citato da Del Quadro ndr], van Gogh o Henri Rousseau, Seraut, Renoir, Matisse, Braque o Picasso, Rouault o Chagall […] mai la pittura fu così acuta e unita a una penetrazione così potente delle Cose visibili, attraverso la manifestazione del Sé creativo del pittore e dei significati occulti da lui afferrati nella realtà” (Jacques Maritain, L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia, Morcelliana, Brescia, 2016, p. 53).
Per l’uso coraggioso di una fotografia cinematografica quasi fauve (firmata da Jean-Marie Dreujou: con un uso accorto dei filtri evita magistralmente ogni minino riflesso di sovraesposizione), per il ricorrere al “tatami-shot” per la lattuga, i porri, la bieta; per inserire il pittore con cavalletto, tela, colori e pennelli, sotto un albero, en plein air, alla maniera impressionista, cercando continuamente il respiro della natura, che ci culla in sala, Il mio amico giardiniere si può considerare un film solarpunk,
- Salvate la provincia americana! Promised Land (2012) di Gus Van Sant
La Global, una potente compagnia impegnata nella estrazione del gas naturale, acquista terreni a prezzi stracciati da piccoli agricoltori, in diversi Stati degli USA. Due funzionari della company, Steve Butler (promosso vicedirigente: ha già portato alla azienda centinaia di terreni: è il deciso Matt Damon,) e Sue (Frances McDormand, acuta e brillante) sono inviati dai vertici dell’azienda a McKinley, una cittadina agricola, per convincere i restii agricoltori, fortemente legati alla terra, che faticano a portare vanti i raccolti e gli sparuti allevamenti di bestiame, a vendere il loro unico bene: Pomised Land (2012) di Gus Van Sant.
La diegesi, pur riposando su una drammaturgia tradizionale, inserisce un’originale e inattesa svolta da giallo: tra i due e la comunità locale, che si fronteggiano a colpi di discorsi e incontri nella palestra della scuola, o alla sera al pub, per convincere gli agricoltori, si inserisce un giovane attivista ecologista Dustin (un disinvolto John Krasinski). Non solo affigge cartelli nei prati e incolla manifestini (con la scritta“Global go Home”) dappertutto, ma andrà anche nella classe della delicata maestra Alice (Rosemarie DeWitt, una recitazione con un sorriso privo d’affettazione) conosciuta anche da Steve al pub, della quale forse si sta innamorando. Il prestante attivista mostra ai bambini, con affascinanti esperimenti dal vivo, come quelle trivellazioni siano dannose: ossia adottino il metodo sbrigativo della fratturazione idraulica, responsabile dell’inquinamento permanente delle falde acquifere.
Si scoprirà che Dustin non è un ambientalista ma un inviato della Global per confondere i contadini: prima denunciando la dannosità delle perforazioni e poi negandolo con falsi documenti di falsi tribunali, tutto fornito dalla Global all’insaputa di Steve e Sue. Questo doppio gioco da spy film, per due motivi: evitare che veri ambientalisti arrivino nella cittadina, e poi, successivamente, ri-convincere i locali che le trivellazioni non fanno male come certa falsa stampa scrive. Steve, scoperto l’intrigo della Global, decide di rivelare la verità ai cittadini riuniti in palestra per votare la vendita degli appezzamenti: «Le trivellazioni sono dannose e vi daranno quattro soldi. Mi dispiace avervi ingannato».
Naturalmente, viene licenziato ed egli, ex figlio di contadini, rimane a McKinley, accolto in casa dalla maestra Alice. Insieme a venti ettari di terreno e tanto di laghetto: una proprietà famigliare che la giovane docente, tornata dalla città a vivere in campagna, non lascerebbe mai.
Promised Land è un inno alla riconciliazione dell’uomo metropolitano con la natura. Steve ha ancora negli occhi quel giovane agricoltore, intento a riparare il suo vecchio trattore, il quale pacatamente gli spiega perché non venderà mai il terreno a nessuna azienda energetica: «Quel ragazzo lì (indica un ragazzo in secondo piano che passeggia con un fucile scarico in spalla, ndr), mio nipote, ha perso suo padre in Iraq e questa terra suo padre l’ha lasciata a me e a lui».
Gus van Sant conferisce ai suoi agricoltori la stessa dignità di cui parla Thibon: «Le paysan ce n’est pas seulement quelqu’un qui produit du blé, du vin, des fruits, du lait – c’est un homme qui a une façon particulière et irréducible de vivre, de sentir, de penser, de réagir aux événements et aux hommes – pychologicaquement, socialment, taditionnellment […]» (Gustave Thibon, Propos d’avant-hier pour apres-demain. Inedits, Mame, Paris, 2023, p.18).
Naturalmente il taglio solarpunk di Promised Land si riverbera sulla forma stilistica: ampie inquadrature, campi lungi, carrelli su distese di appezzamenti; riprese in plongée delle case immerse in distese figure geometriche (quadrati, rettangoli, quadrilateri) di immensi terreni, variegati nella coltivazione. Qui i colori si alternano tra le diverse tonalità del giallo e del verde.
La chiusa del film è una eloquente panoramica: segue Steve, con il borsone a tracolla, mentre apre il cancelletto bianco del recinto della casa di Alice, e cammina lungo il viottolo interno che conduce sulla porta, sotto il porticato in legno. Una scena simile l’abbiamo vista accennata in molti film americani, ma questa è diversa. Non è una scena di riempimento, è un tagliente aforisma finale. Questa è l’autentica vita, pare dirci Gus Van Sant. L’ inquadratura è in campo medio-lungo: perché la casa di legno di Alice vive dentro un ampio giardino, sul limitare di un boschetto, e tale composizione dell’immagine si deve imprimere nella memoria dello spettatore. Steve, kiergakaardianamente, affronta il tema della scelta sempre rimosso nella sua giovane vita. Sceglie Alice (dalla quale è stato scelto): sceglie la sua casa, sceglie il lavoro di agricoltore, sceglie una vita autentica. Sceglie la battaglia ecologica, contro il progresso selvaggio.
- Conclusioni
Non sappiamo se il costrutto cinema solarpunk attecchirà presso i critici e gli storici del cinema. Per completezza, va detto che all’interno di questo “megagenere” viene incluso anche il fantascientifico, in cui, sostanzialmente, il tema prefigura una vita altra possibile, felice, su altri pianeti (Avatar, 2009, James Cameron), o dopo (l’inevitabile) danneggiamento o distruzione totale della vita sulla Terra. O si sceglie, al fine di evitare la morte sul nostro pianeta (condannato, secondo alcune previsioni, all’autodistruzione), di congelare i propri corpi e spedirli tramite navicella spaziale in orbita, o su altri pianeti: corpi da risvegliare dopo migliaia o milioni di anni. Come accade nell’intrigante e acclamato Passangers (2016) di Morten Tyldum
Invece, la fiducia nel nostro mondo, hic et nunc, seppure da emendare, è ribadita nell’ultima animazione di Miayzaki, Il ragazzo e l’airone (2023), in cui il dodicenne Mahito deve scegliere tra il bene imperfetto sulla terra e quello affascinante in un altro mondo. Infatti egli non accetterà il regno che il prozio vuole lasciargli in eredità: «un mondo assolutamente perfetto, non come quello da cui provieni, pieno di imperfezioni» sottolinea l’uomo e Signore del sotterraneo mondo parallelo. Mahito lo rifiuta poiché lo ritiene ingiusto e antidemocratico, nonché privo di poesia, scegliendo di tornare in superficie, con la sua bella matrigna, ossia nel suo mondo «certamente imperfetto e, per tale ragione, da migliorare».
CINEMA ENDOXA - BIMESTRALE ENDOXA NOVEMBRE 2024 Eusebio Ciccotti SOLARPUNK
