IL CAOS, UNA SCALA
TOMMASO GAZZOLO
Chaos is a ladder: la frase che – ripetuta due volte – circola nella serie, non ha però un proprio posto: assente nel ciclo di romanzi, scritta già in vista della prima stagione, la scena che la prevede viene tagliata due volte sino a comparire, poi, nel sesto episodio della terza stagione, nel dialogo tra Littlefinger (Ditocorto) Baelish e Varys, il “ragno”, davanti al trono di spade, vuoto. È come, pertanto, se ciò che Baelish cerca di dire non possa, propriamente, far parte della storia raccontata, senza per questo, però, provenire da altrove, da un altro luogo rispetto ad essa.
Seguiamo, anzitutto, lo scambio di battute, che ha inizio con Varys che afferma “Ho fatto quello che ho fatto per il regno” (I did what i did for the good of the realm). È a quel punto che Baelish replica: “ma tu lo sai cos’è il regno?”, il regno non è altro che la storia che ci raccontiamo circa le origini del potere, la sua giustificazione – è l’immagine del trono di spade, coniato, si dice, con le mille lame dei suoi nemici – “finché ci non dimenticheremo che è una menzogna” (until we forget that it’s lie). Fin qui, il tema è classico: il potere non è altro che la “nobile” menzogna che lo sostiene. Il che significa anche: esso non è altro che la propria giustificazione, che la credenza in esso. Il potere è la sua credenza, ossia: non esiste qualcosa come il potere e, poi, la decisione se credere o meno in esso; il potere non è nulla di per sé esistente, è ciò che esiste solo in quanto creduto, è cioè il fatto stesso di credere in esso. Varys avrà allora buon gioco a replicare: senza questa menzogna, il regno precipiterebbe nel caos, “un pozzo profondo che aspetta di inghiottirci tutti”.
È a questo punto che Baelish pronuncia le parole: il caos non è un pozzo, il caos è una scala – Chaos isn’t a pit. Chaos is a ladder. E spiega: “tanti che provano a salirla falliscono e non ci riprovano più. La caduta li spezza. Ad altri viene offerta la possibilità di salire, ma rifiutano; rimangono attaccati al regno o agli dei o all’amore. Illusioni. Solo la scala è reale (Only the ladder is real). E non resta che salire”.
È una replica al “realismo”, diremmo, di Varys – il realismo tipico del ragno politico, dell’eminenza grigia. Se c’è un nichilismo “volgare”, in Varys, ad esso Baelish è del tutto estraneo, perché non si tratta affatto, per lui, di sostenere che, dietro la menzogna che racconta, il potere è “niente”, è un caos-abisso, un pozzo senza fondo. Baelish dice qualcosa di diverso. Che il caos è una scala. Intendiamoci da subito: non il potere, il caos. Il potere non esiste, neppure per Baelish. C’è solo una scala, al posto del trono. E tutto dipende dal capirne il significato. Perché – questo è il senso del suo discorso – la scala non è affatto un “mezzo” per un fine, per uno scopo, ciò che possiamo salire per raggiungere qualcosa.
Certo la scala è proiettata verso l’alto, ma il punto è che non si tratta di salirla in quanto essa prometta, permetta di conseguire un qualche bene. La scala cessa di assolvere – in rottura con la tradizione medievale – tanto una funzione escatologico-cosmologica (l’ascesa reale dell’anima verso il cielo) quanto quella spirituale di rappresentazione del progresso nei gradi della virtù, del progresso in interiore homine. Non è una scala celeste. E non porta al Regno. Al contrario, come Baelish afferma, il regno non è che una delle menzogne, delle illusioni, come gli dei, la religione, o l’amore, che inducono gli uomini a non intraprendere la salita.
È ciò che fa Varys: egli non vede che il caos è una scala, perché in fondo continua a credere nel regno – nell’esistenza, cioè, di un fine ultimo, di un bene “sommo”. Bisogna pertanto evitare di equivocare le parole di Bealish: il caos non è la scala che conduce al potere, alla conquista del regno. La sua non è una lezione di realismo politico, in quanto egli non dice che l’amore, la credenza negli dei, o il “bene” del regno sarebbero le forze che permettono di salire la scala che porta al potere, che permette di conseguirlo.
Non c’è – lo ripetiamo – alcun “bene” che questa salita permetterebbe di conseguire. Se il caos è una scala, è perché la scala – per quanto distingua una salita da una discesa – non collega più nulla, non è il principio di una topografia reale o spirituale, non ordina, con i suoi gradini, uno spazio, costituendo così una meta, distinguendo tra un punto di partenza ed una sommità, un punto di arrivo: solo la scala è reale, dice Bealish, nient’altro che essa. Questa scala liberata, diremmo, da ogni funzionalità, da ogni finalità, non è pertanto in relazione con uno scopo, non è mezzo per nulla. Con ciò, non significa che il problema del potere sia rifiutato – al contrario, quello di Bealish è anch’esso un discorso sul potere, che veicola una determinata concezione del potere. Del potere, diremmo, in quanto verità del Regno, della sostanza del potere, ciò di cui esso è fatto ed in cui consiste, una volta crollata la menzogna che lo fonda (il potere come mezzo per preservare, realizzare il Regno, la pace, etc.). Consiste in un caos, ma questo caos è una scala: scala che non conduce a nulla, che non serve a niente, che non è mezzo per conseguire un qualche “bene” ad essa esterno, ulteriore rispetto al salire i suoi gradini. Il potere è salire quei gradini: solo questo è reale, solo questa è la realtà del potere.
È il rovesciamento del “nichilismo” di Varys, per il quale il potere si rivela essere un “pozzo” senza fondo, un abisso che tutti inghiotte una volta che i “valori”, i fini, gli scopi che esso dichiarava di essere chiamato a conseguire si rivelano menzogne, illusioni. Esso non ha più senso, ormai, ed è esattamente questo che va nascosto. Per Bealish, al contrario, proprio il non avere alcuno scopo è ciò che fa del potere una scala davanti alla quale non occorre farsi alcuna domanda, ma soltanto cominciare a salire. Il che, però, è più difficile di quanto sembri – E non potrebbe che essere così, se Bealish ha ragione: perché nella concezione occidentale del potere, esso non esiste, non è pensabile, se non come potere di…, come potere indirizzato ad uno scopo, e lo stesso potere politico è stato reso pensabile come potere che è tale solo in quanto giustificato in vista di un fine che dovrebbe assolvere.
Per Bealish, tutti questi “scopi” sono menzogne, illusioni. Si rilegga la sua frase: “Ad altri viene offerta la possibilità di salire, ma rifiutano; rimangono attaccati al regno o agli dei o all’amore”. Chiunque pensi che il potere abbia un certo scopo – che sia, appunto, la salvezza del regno o anche solo l’amore di una persona –, non avrà mai realmente accesso ad esso, non sarà degno di salire sul trono. Perché per lui il potere non sarà che un mezzo per uno scopo ad esso superiore: è a questo scopo che egli si vota, e non al potere, ed in nome di questo scopo sarà disposto, ove occorra, a rinunciare al potere stesso, a non salire oltre sulla scala. Nessuno è “attaccato” al potere in sé – è questo che Bealish oppone al discorso di Varys. Se si potessero togliere di mezzo tutte queste illusioni, questi “scopi” che pensiamo che il potere serva a conseguire, solo così si potrebbe vedere il potere per ciò che realmente è: un’attività priva di scopo.
Ma un’attività priva di scopo è l’esatto contrario di un potere che – cadute tutte le menzogne, gli ideali che lo giustificano – si autorizza a perseguire qualsiasi possibile scopo, egoistico e personale. Non sappiamo quanto Bealish si accorga di questa torsione del suo discorso. Il consigliere segreto non riesce affatto a fornire una giustificazione del suo cinismo estremo, della sua spregiudicatezza, di tutto ciò che andrebbe sotto la retorica del “machiavellismo”. Al “realismo” di Varys, infatti, Bealish finisce per opporre non una concezione del vuoto come nichilismo volgare e sfrenato (“tutto è permesso”) ma, al contrario, una specie di “moralità” impossibile: come si può esercitare il potere per nessun fine? Chi è in grado di esercitare il potere senza concepirlo come mezzo per qualcosa? Di esercitare, diremmo, il potere per il potere – e non per altro da esso?
La scala-caos di Bealish, in questo senso, è l’inversione della scala-mezzo che – a partire dall’immagine biblica della Scala di Giacobbe – ha segnato non solo, come si è detto, il cristianesimo monastico e l’immaginario religioso medievale, ma la stessa tradizione politica moderna. È la concezione del potere comune, infatti, e che Bealish contesta, che lo pensa come un “mezzo” per ottenere una serie possibile di fini, di valori (il bene, la ricchezza, la gloria, la pace, etc.), come una scala, cioè, che serve per raggiungere lo scopo previsto, e dove pertanto ad essere determinante è quest’ultimo, e non la scala in sé. Che poi tali scopi siano più o meno “nobili”, più o meno “personali” o “egoistici”, è ovviamente indifferente, da questo punto di vista.
Per questo il “potere per il potere” – che certo si presta a essere la formula del discorso di Bealish – non è però affatto una versione “estrema” del realismo o del cinismo politico, una giustificazione del potere esercitato per ogni possibile scopo privato; al contrario, esso non significa se non nella rottura epistemica che definisce rispetto ad ogni relazione tra il potere e gli “scopi” che si possono assegnare ad esso. È Varys, il ragno, a credere in fondo nella scala come mezzo, nel potere come strumento. All’inizio della saga, Ned Stark chiede a Varys di consegnare un messaggio alla sua famiglia, e questi gli risponde che lo farà solo se ciò sarà utile ai suoi fini. Quando Stark gli chiede quali siano questi fini, Varys risponde: “la pace”, ed aggiunge: “io servo il regno, e ciò di cui il regno ha bisogno è la pace”.
Se Gregg Littmann ascrive a Varys, a partire proprio da questo passaggio, una concezione hobbesiana della politica e del potere, è perché il suo cinismo, il suo “realismo” è del tutto interno alla ragione politica come calcolo, ragione strumentale: neppure il potere più “assoluto”, pertanto, è senza scopo; al contrario, è proprio lo scopo che esso deve assicurare a giustificarne l’assolutezza, l’assenza di limiti. Da questo punto di vista, Baelish si oppone a Varys proprio perché, in lui, il potere viene separato da ogni strumentalità: il che, anziché accrescerne l’arbitrarietà, lo rende un “oggetto” quasi impossibile da definire e da afferrare, all’interno della razionalità propria del “gioco dei troni”. Il suo è un radicale anti-realismo. Che, come tale, si contrappone tanto al machiavellismo di Varys che alla versione di Cersei, che proprio a Baelish oppone il suo “il potere è potere”, ossia pura forza.
Eppure, Baelish stesso sembra in realtà agire sempre come se il potere stesso fosse il suo scopo – il che contraddice però la sua tesi: il “potere per il potere” implica, infatti, che neppure il potere possa essere l’obiettivo, la finalità del suo esercizio. Il suo “doppiogiochismo”, il suo camaleontismo, sembrano suggerire che, dopotutto, non sia così diverso da Varys. E tuttavia, ciò che perde Baelish, in fondo, non è l’ambizione, non è un “calcolo” errato sul potere, la sua conquista, il suo accesso. Non è un errore di calcolo su Sansa, a perderlo. È, piuttosto, il suo fantasma amoroso, in cui Sansa, la figlia, diviene la sostituita della madre, Catelyn, unico amore, non corrisposto, che si dice che Baelish abbia mai provato. Non è un caso che Bealish sia anche colui che gestisce e assicura la circolazione, con il suo bordello, del godimento e della violenza; né che il dialogo che stiamo commentando sia pronunciato sullo sfondo delle immagini che mostrano come Bealish abbia soddisfatto il godimento perverso di re Joffrey, facendogli uccidere a colpi di balestra Ros, la sua prostituta che Varys aveva convinto ad agire come sua spia, e che ora vediamo, nuda, legata al letto per le mani, trafitta dalle frecce.
È come, cioè, se la massima “kantiana” che, dopotutto, Bealish enuncia, sia al contempo una massima sadica, perversa: come se questo “potere per il potere”, potere liberato da ogni scopo, da ogni finalità, non avesse che nel godimento mortifero, nella pulsione di morte, la sua autentica e unica realizzazione. Ancora una volta, Kant è con Sade. Dobbiamo sempre, però, evitare indebite confusioni. Non si tratta, qui, del potere di morte, di dare la morte, tipico attributo della sovranità, anche hobbesiana. Qui la morte, infatti, è interna alla “calcolabilità”, alla “strumentalità” del potere: è la morte che il potere esige, cioè, ogni volta che essa si renda necessaria o comunque utile ad una serie di “scopi”, a conseguire un certo bene o evitare un male o al limite a conservare il potere stesso. In ogni caso, però, è una morte sempre utile – una morte, cioè, giustificata da una logica dell’utilità e, in ultima istanza, dell’auto-conservazione. Morte-mezzo. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con Baelish, per il quale il potere è morte, proprio in quanto non risponde ad alcuna logica dell’auto-conservazione, ad alcun funzionamento “omeostatico”.
Qui il lato “sadico” di Baelish diviene inseparabile, pertanto, dalla sua “moralità” estrema: il potere, proprio in quanto non ha alcun “oggetto”, non ha uno scopo o una meta, non può che entrare nel corto-circuito di fare della sua stessa ripetizione, del suo non avere per meta che se stesso. Esso non cercherà, allora, che di soddisfarsi nel suo proprio continuare, nel non trovare alcun “oggetto” o “scopo” attraverso cui soddisfarsi. Bealish, in tal senso, non vuole il potere per conservare il potere stesso, ma vuole il potere per poter ripetere il suo volerlo. Da qui la versione “perversa” della sua stessa massima: il potere per il potere, ora, indica non più la moralità estrema che richiede di esercitarlo senza scopi, senza finalità, quanto il godimento della ripetizione, il godimento che consiste nell’avere sempre più potere solo per poterne volere ancora. È l’economia dell’eccitamento-scarica, e non dell’autoconservazione. Non si tratta allora di desiderare il potere per poter dare la morte a qualcuno, bensì di godere di un potere che conduce alla morte, che è mortifero, in quanto esige che ogni oggetto, ogni scopo sia sacrificato – compresa infine la vita stessa di Bealish – per poter continuare a salire la scala: non perché in cima ad essa vi sia qualcosa, ma perché il godimento consiste nel salirla.
Il camaleonte Bealish è più allora che un trasformista, un doppiogiochista, se non altro perché, nonostante le apparenze, la sua morale è radicalmente anti-utilitarista: non persegue affatto i propri “scopi” privati, semplicemente perché egli non ha alcuno scopo, bensì è preso dal godimento di non avere scopi, che libera l’infinita ripetizione dei suoi atti, dei suoi inganni. La declinazione sadica della sua massima, “il caos è una scala”, si rivela pertanto la verità della sua versione “fredda” e “cinica”: essa è una legge del godimento del potere, del potere come godimento.
Forse anche il finale della serie Tv – che ha provocato polemiche e petizioni per costringere i produttori a rigirare integralmente l’ultima stagione – andrebbe letto a partire da qui. Zizek, in un articolo per l’Indipendent dal titolo Game of Thrones tapped into fears of revolution and political women – and left us no better off than before, ha ricordato come la progressiva trasformazione di Daenerys in una specie di Mad Queen, spinta da una ingiustificabile passione sterminatrice e omicida, sarebbe il prodotto di un “fantasma maschile”, terrorizzato e ossessionato dall’idea di una donna politicamente forte, della donna al potere.
Meglio celebrare, allora, Sansa, il tipo di donna amata dal capitalismo contemporaneo, che unisce dolcezza e intrigo, e che sa adattarsi ai nuovi rapporti di potere nel frattempo maturati. Meglio che a governare sia Bran, che incarna la lezione insipida per cui i migliori governanti sarebbero quelli che non vogliono il potere. Ma, se stiamo dalla parte di Daenerys, e certamente vi stiamo, lo dovremo fare accettandone fino in fondo il vuoto che la anima e verso cui ella si spinge. Perché esso è il vuoto che è il potere stesso, una volta – come si è detto – che si assuma che, rispetto ad esso, non si tratta di “limitarlo”, moderarlo, con scopi o fini particolari che esso dovrebbe perseguire (qualche forma di “bene” o di valore rispetto alla cui realizzazione esso sarebbe strumentale), ma di riconoscere che l’unico modo per uscire dalle sue trappole e illusioni è che esso sia un’attività priva di ogni scopo.
Altrove lo stesso Zizek, contrapponendo Antigone a Medea, si era chiesto: non è forse venuto il momento di preferire ad Antigone, che oppone alla pretesa universalità del potere la particolarità delle radici familiari, la fedeltà ai vecchi usi, l’eccezione di ciò che al potere si sottrae, Medea, che invece sacrifica e rinuncia ad ogni “eccezione” possibile, sacrifica ogni propria particolarità (il fratello, i figli), in nome di “nulla”, di un vuoto che rappresenta un’iper-universalizzazione di ciò che è lo stesso potere?
La risposta “femminile” di Daenerys non sarebbe l’unica possibile alla concezione “maschile” (Bealish) del potere come caos, che lo pensa nei termini di una massima morale e al contempo sadica? Rispetto a tale domanda il Trono di Spade propone una “terza via”: quella della “saggezza” di Bran, la quale però, forse, più che una risposta, non è che la via per occultare la domanda stessa.
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