IL POTERE LOGORA CHI NON LO LEGITTIMA: DA DIO AI BENI PUBBLICI

MARCO BASSANI

Il tema della legittimazione del potere è determinante all’interno della serie Il trono di Spade ed è il vero canovaccio intorno al quale le 73 puntate, andate in onda dal 2011 al 2019, sono costruite. Se l’ambientazione ricorda direttamente quel Medioevo fantastico reso leggendario da “Conan il Barbaro”, l’elaborazione (a tratti del tutto fantasiosa) intorno alle dinamiche del potere costituisce un motivo di sicuro interesse per chi di questi argomenti si occupa a tempo pieno.

Gli autori sciolgono le briglie della loro immaginazione nel presentare una ricostruzione di ogni possibile modo nel quale il potere fra gli uomini è stato legittimato nel corso della storia occidentale. L’ossessione dinastica, onnipresente, richiama ovviamente la prima età moderna, quei due secoli nei quali lo Stato moderno muoveva i suoi primi, e niente affatto incerti, passi alla ricerca di un principio ordinatore. Ma nella serie il potere lo si ottiene anche attraverso la semplice conquista militare, oppure utilizzando trucchi di ogni genere per garantirsi associazioni con altri governanti. Ma la conquista e il mantenimento del potere per mezzo della manipolazione a volte utilizza anche il richiamo a motivi magico-religiosi, secondo la lezione machiavelliana della vulgata. In ogni caso, talmente importante è in molte puntate il problema della giustificazione del potere, che si potrebbe anche leggere la saga come un dispiegarsi di realismo politico in un mondo dominato dal fantastico.

Prendendo spunto da questo, vorrei sviluppare una brevissima riflessione su di un argomento che dovrebbe far tremar le vene e i polsi di qualunque studioso meno temerario di me, ossia su come il potere si è legittimato nel corso del tempo.

Inizio con un piccolo ricordo personale. Quando avevo quattordici anni si svolsero le prime elezioni nella Spagna post-franchista e l’unico partito che si richiamava al passato regime ottenne lo 0,25 % dei voti. Ricordo come fosse oggi che dissi a mio padre: “Ma allora Franco governava con un consenso irrisorio …” e lui mi rispose “le cose sono molto più complicate”. Ho trascorso oltre quarant’anni nei meandri di questa complicazione e ritengo che nonostante le analisi di Max Weber e le biblioteche intere di considerazioni su come il potere fra gli uomini si è presentato nella storia, il tema della legittimità sia ancora parzialmente celato.

Per garantire ciò che serve davvero al potere, ossia l’automatizzazione dell’obbedienza, la forza da sola non basta. Sul finire dell’Ottocento, Heinrich von Treitschke definiva l’essenza dello Stato con un Macht, Macht und wieder Macht che sarebbe diventato assai famoso durante il trionfo del nazionalismo e della volontà di potenza in Europa. Eppure manca davvero qualcosa, nel senso che la violenza o la minaccia dell’uso della forza non possono stabilizzare un ordine politico.

E neanche il timore diffuso può essere sufficiente. Se Hobbes pone la paura come la principale molla per la nascita del politico (ossia del Leviatano), non è vero che il Leviatano possa alimentarsi solo con la paura. Si narra che durante il ventesimo congresso del partito comunista sovietico, quello della destalinizzazione, Krusciov, nel corso della sua denuncia del “culto della personalità” si fosse girato per bere un po’ di acqua. A quel punto dal pubblico si levò un grido di accusa: “Compagno e tu che eri sempre accanto a Stalin, perché non hai mai detto nulla mentre era in vita?” Nikita si girò di scatto e con voce solenne gridò: “Chi ha parlato?”. Silenzio di tomba. “Ecco perché!” chiosò il segretario generale del PCUS. Ma se questo era vero per quella classe politica – che sotto Stalin subiva decimazioni ogni anno – non vuol dire che valga sempre e in ogni luogo.

In breve, forza, paura e consenso si trovano in una relazione davvero complessa nella spiegazione delle convivenze umane.  Il principe di Talleyrand (uno fra i più furbi animali politici di tutti i tempi) sintetizzava la non esaustività della violenza nella fondazione dei regimi così: “Con le baionette si può fare tutto tranne che sedercisi sopra”. Il potere implica di per sé una relazione con chi lo subisce, una sorta di lato passivo che sarebbe sotto tensione continua se diretto solo dalla paura e dalla violenza.

Max Weber proprio nella sua geniale definizione di Stato, ossia del potere politico nella modernità – “impresa istituzionale di carattere politico nella quale […] l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti” – fa riferimento al fatto che la violenza deve essere percepita come legittima. Perché in fondo il potere è un fenomeno di carattere psicologico, ossia “il fondamento di ogni potere […] è una fede – la credenza nel “prestigio” di colui o di coloro che detengono il potere”.

Il problema della legittimazione del potere prende una torsione del tutto particolare, e diventa un tema a sé stante, nel momento in cui incomincia a vacillare il concetto “omnis potestas a deo” sul quale tutto l’edificio del comando era costruito. Finché l’arcano delle convivenze umane stava in cielo la complessità vera risiedeva nel soggetto legittimante: Dio. La politica non poteva discostarsi più di tanto dalla teologia. La nascita del moderno può essere riassuntivamente colta nella sostituzione del teologico con il politico, o meglio con una politica che si agghinda di vesti giuridiche.

Quando parlo dello Stato moderno ai miei studenti, dopo aver illustrato loro le dottrine di Machiavelli, Bodin e Hobbes, propongo poi un gioco. Se lo Stato potesse scegliere da chi farsi narrare, chi sceglierebbe fra i tre?  Subito scartiamo Machiavelli, vista la sua incomprensione di diritto e religione, e spesso Hobbes vince per la sua (apparente) logica ferrea. Ma poi svelo che il vero corifeo dello “Stato (moderno)” è Jean Bodin, il vero araldo della modernità, colui il quale nei suoi Sei libri dello Stato (1576) enuncerà le principali coordinate teoriche di quello che diventerà il dispositivo politico della modernità, ossia lo Stato sovrano. Proprio durante le guerre di religione in Francia, si ha una formalizzazione teorica dell’assolutismo moderno, che nell’accezione monarchica e poi parlamentare, regge i nostri destini politici da oltre quattro secoli e mezzo. Si tratta dei Sei libri dello Stato, pubblicati nel 1576 da Jean Bodin, il vero inventore dell’idea stessa di sovranità, ossia il puntello teorico della costruzione statuale moderna.

Secondo la teoria di Bodin non sono più le Scritture a legittimare il potere, ma il potere stesso si giustifica da sé, sulla base di un nuovo strumento: il diritto pubblico. Il tutto si fonda sul concetto di sovranità, ossia di “quel potere assoluto e perpetuo ch’è proprio dello Stato.  […]  Occorre formulare la definizione, perché tale definizione non c’è stato mai giurista né filosofo politico che l’abbia data, e tuttavia è questo il punto più importante e più necessario a comprendersi in qualsiasi trattazione sullo Stato”. Qui Bodin vuol far intendere di voler semplicemente definire in modo più preciso un dato universalmente noto della politica. In realtà egli propone qualcosa di inedito per la tradizione del pensiero politico e così facendo approfondisce quella frattura fra moderno e medievale della quale fu il grande teorico.

Il concetto stesso di sovranità è necessario allo Stato e indispensabile per tenere insieme tutte le sue articolazioni. È la sovranità il vero fondamento, il cardine su cui poggia tutta la struttura dello Stato, e da cui dipendono i magistrati, le leggi, le ordinanze; è essa il solo legame e la sola unione che fa di famiglie, corpi, collegi, privati un unico corpo perfetto che è appunto lo Stato. Una sintesi politica è tale grazie alla presenza di un’autorità umana alla quale, in virtù della dottrina della sovranità, è demandata la decisione di ultima istanza nell’ambito delle cose politiche.

Il nuovo terreno ideologico si costruisce intorno a una serie di argomentazioni apparentemente tecniche (di carattere politico, ma formulate in termini giuridici) che devono superare la disputa teologica. La sovranità non dipende da un’investitura divina, ma deriva dal sistema stesso: ne è il perno e assieme la logica spiegazione del suo funzionamento. Non basta l’automatismo degli uffici, l’idea delle norme e delle istituzioni: vi deve essere un centro di potere decisionale supremo che trae il suo ruolo dal fatto di essere decisivo nei casi eccezionali. Il sovrano deve produrre norme e decisioni nei casi non previsti, ma in maniera “legale” e quindi legittima. Questo potere centrale unico, inalienabile, indivisibile, perpetuo ed assoluto è lo Stato stesso. Il potere supremo (di un singolo monarca o di un’assemblea poco cambia, su questo Bodin e Hobbes avevano la vista lunga) mantiene nelle sue mani la pienezza della “sovranità”.

La fuoriuscita dal “cosmo medievale”, da quell’universo di relazioni forti che intrappolavano il soggetto in una dimensione religiosa e di appartenenza comunitaria, è avvenuta quindi sotto il segno di un potere irresistibile e auto-fondantesi, lo “Stato moderno”. E nessuno lo ha annunciato meglio di Bodin. In estrema sintesi, la modernità si annuncia con una grande sostituzione: il giuridico in luogo del teologico, e con l’invenzione della sovranità, che non è solo il termine-concetto fondamentale del potere di natura statuale, ma contiene anche le coordinate di una legittimità sempre presupposta.

Lo Stato è, fra i vari modi che l’Occidente ha sperimentato per organizzare le convivenze umane (polis, civitas, res publica, imperium), quello che maggiormente rende automatico l’obbligo politico, ossia legittima la coercizione e la fa diventare totalmente accettabile. E ciò, naturalmente, è il sotto prodotto principale del suo reinventarsi in termini di diritto pubblico.

Proprio al sorgere dell’età moderna un geniale adolescente, offre una delle definizioni maggiormente convincenti del problema politico. Étienne de La Boétie, nel suo Discorso sulla servitù volontaria (metà del Cinquecento) definiva la politica come il “mistero dell’obbedienza civile”, ossia di come mai alcuni uomini comandano e altri obbediscono. Com’è noto, la sua risposta è che il tiranno non avrebbe altro potere se non quello che il popolo stesso gli concede, e il Re ha tutti gli strumenti patrimoniali e politici per acquisire il consenso popolare, dallo scambio di favori, all’offerta di protezione. Secondo La Boétie, la prima causa della servitù volontaria è l’abitudine, qualcosa che trasmigra da una generazione all’altra e rende automatico l’esercizio del potere. Questo è il vero punto focale di ogni legittimazione: il potere deve nutrirsi di se stesso ed essere talmente forte da non avere bisogno di una vera ed articolata giustificazione. Il potere è tanto più legittimato quanto meno si deve giustificare agli occhi dei sudditi. Il consenso nasce dalla percezione della legittimità, non dalla bontà delle argomentazioni che legittimano il potere.

David Hume, circa due secoli dopo, seguiva le orme di de La Boétie quando, analizzando la fisiologia del potere, sosteneva che la maggior parte degli uomini non indaga mai sulla sua origine più di quanto non faccia per il principio di gravità, quello di attrito o per le altre leggi universali della natura. I governi si reggono su consenso e abitudine e questa massima si applica tanto ai governi più dispotici e bellicosi come ai più liberi e popolari. In breve, il potere ha sempre avuto il consenso dei dominati e in epoca statuale moderna ha costruito un’impalcatura di giustificazioni prima giuridiche e poi di natura economica come una corazza nei confronti della classe politica.

Oggi, quando parlo ai miei studenti della monarchia di diritto divino, delle varie forme di legittimazione del potere fra gli uomini che hanno segnato la storia dell’Occidente e colgo sguardi persi nel vuoto, li richiamo subito all’ordine dicendo loro che un’epoca futura sorriderà forse delle “ideologie” che hanno accompagnato l’apogeo del nostro sistema democratico-rappresentativo. Il fatto è che verremmo meno al nostro dovere di studiosi wertfrei, ammesso che qualcuno voglia ancora esserlo, se giudicassimo in modo men che distaccato le finzioni attraverso le quali il potere si autogiustifica, ossia la classe politica si riproduce e riproduce il proprio dominio

“L’idea astratta e ‘personalizzata’ dello ‘Stato’ – come ricordava sempre il mio maestro Gianfranco Miglio – è il capolavoro del pensiero politico occidentale”, ma anche “la più sofisticata delle ‘finzioni’ dietro cui, da sempre, gli uomini che compongono la classe politica sono costretti a celarsi”. Le giustificazioni dell’obbligo politico sembrano avere una validità universale, ma solo per il periodo in cui sono andate di moda.

Lo Stato costruisce nel corso del tempo un individuo tendenzialmente isolato, emancipato da qualunque appartenenza forte, che riconosce a mala pena l’esistenza di un corpo mistico di carattere nazionale, una scoperta, in ogni caso, assai tardiva nello sviluppo del modello statuale. L’individuo libero deve essere vincolato da un rapporto di fedeltà, fondato sulla richiesta di sangue e soldi, giustificata a priori dal concetto di sovranità.

Ma è proprio su sangue, soldi e consenso che si gioca la partita del potere nelle ultime generazioni. Se in un primo e lunghissimo periodo della storia della statualità appariva assai più facile ottenere il sangue dei cittadini che le loro proprietà, oggi, almeno in Europa, accade piuttosto il contrario. Il Novecento ha visto crescere enormemente per poi esaurirsi improvvisamente le pretese di sangue dei cittadini. Dopo il picco rappresentato dalla Seconda Guerra Mondiale, la curva della dazione di sangue quale parte fondamentale dell’obbligo politico è crollata a zero. Parallelamente è invece aumentata esponenzialmente la pretesa di danaro. E non sembra certo un caso se le due curve tocchino i propri zenit in periodi diversi: la prima metà del secolo vede il massimo attacco alle vite, mentre dalla seconda in poi inizia progressivamente un movimento per la spoliazione delle ricchezze prodotte

Il dispiegarsi dello Stato quale grandiosa macchina per la creazione di cittadini a partire da un materiale grezzo quale quello umano è una marcia trionfale. I fallimenti sono semmai sul versante dei tentativi di porre limiti allo Stato e alla sua pretesa di considerare le vite e le proprietà dei cittadini alla mercé della classe al potere. Le vesti giuridiche di cui si agghinda lo Stato mostrano certamente le corde dal punto di vista scientifico, ma sono ancora in grado di produrre ciò che nessuna altra organizzazione politica nella storia ha mai neanche lontanamente sognato: un controllo capillare di sangue e soldi dei propri sudditi. Ma, come segnalavamo, prima del sangue e poi dei soldi. La promessa del risparmio della vita è stata cruciale per fare accettare un potere che si nutre delle ricchezze di sudditi produttori e non più soldati.

E allora se nella prima età moderna sono stati i giuristi (o meglio, i confezionatori di idee politiche travestite da diritto pubblico) a forgiare i criteri di legittimità dello Stato, da molti decenni le maggiori giustificazioni del potere vengono prodotte dagli economisti, i veri e propri consiglieri del moderno Principe.

La grande opera del costituzionalismo liberale, nato per imbrigliare l’autorità politica e per smantellare l’enorme concentrazione di potere in capo alle monarchie assolute, si conclude con un bilancio davvero negativo: lo Stato onnipotente, cresciuto dalle ceneri del costituzionalismo, sarà cento volte più spaventoso e oppressivo di qualunque monarchia assoluta.

Oggi viviamo in una società dominata da un ceto politico-burocratico che ha un unico problema: recuperare in ogni modo una quota ben superiore alla metà della ricchezza prodotta in un anno in quasi ogni paese occidentale. Le tasse potrebbero essere davvero il motore primo della storia, come affermava Charles Adams, in un libro di parecchi anni fa, For Good and Evil. L’influsso della tassazione nella storia dell’umanità (2001), ma per comprendere davvero l’imposizione fiscale occorre togliersi ogni illusione collegata alle fole della “scienza delle finanze”. Per questa tradizione, infatti, le tasse altro non sarebbero altro che il costo totale dei servizi offerti dallo Stato.

Le tasse, al contrario, fanno parte della nostra religione civile, non hanno nulla di razionale, né niente a che vedere con i servizi offerti. Misurano sia quanta parte del nostro tempo di lavoro viene sottratta per mezzo della legge, sia il nostro grado di libertà. Si paga perché l’autorità competente ha deciso così e non esiste alcun diritto a una controprestazione: provatevi a portare in giudizio il fisco perché non fornisce i servizi promessi e farete ridere i tribunali. La volontà di chi tassa e la sua possibilità materiale di farlo sono le uniche ragioni e spiegazioni della tassazione.

Lo Stato che fin dai suoi albori nasce per soppiantare il giuridico col teologico (per portare il mistero dell’obbedienza dal cielo alla terra nel tentativo di gestire i conflitti), alla fine distrugge anche il politico stesso o come minimo lo stempera in un mare di tasse. L’obbligo politico diventa un’unica grande, irresistibile richiesta di danaro, una pura tax compliance: gli adempimenti fiscali sono i riti della nostra religione civile dopo Stalingrado.

Gli economisti si trovano allora in prima linea nello sviluppare le argomentazioni che giustificano il dominio della classe politica. Proprio negli anni Trenta, alla vigilia della più grande richiesta di vite che lo Stato abbia mai fatto nei confronti dei suoi sudditi, John Keynes diventava il più importante economista del mondo suggerendo ai governanti di comportarsi proprio come essi avevano sempre sognato di fare.

Le ragioni addotte dagli economisti per giustificare l’azione dello Stato sono innumerevoli e vanno dalla teoria dei monopoli, a quella dell’esistenza dei beni pubblici, dalle esternalità, al problema del free rider, alle “asimmetrie informative”. In ogni caso, si tratterebbe sempre di casi di “rattrappimenti” della mano invisibile del mercato nei quali lo Stato sarebbe quasi costretto ad assumersi una serie di compiti economici. Gli economisti, attraverso l’ideologia dei “fallimenti del mercato”, che lo Stato è naturalmente chiamato a correggere, sono diventati una sorta di Jean Bodin collettivo contemporaneo. L’economia è il nuovo diritto pubblico in un mondo nel quale la classe al potere non riuscirebbe mai a chiedere sacrifici di vite, ma solo di ricchezze ai propri sudditi.

La scuola della Virginia (Public Choice) nella sua visione realista discute dell’esistenza di un autentico “mercato politico” nel quale i governanti offrono beni pubblici in cambio di voti e gli elettori, dal canto loro, si comportano come consumatori razionali di tasse. Ma il tutto avviene sotto l’egida di un Leviatano che si è reinventato come soggetto economico, se non quale condizione di pensabilità stessa degli scambi fra gli uomini. Concluso il lungo periodo del sangue e del suolo, rimane solo un enorme conto da pagare e infiniti rivoli di danaro che devono passare dalle tasche di qualcuno, alle tasche di qualcun altro.

I sacerdoti hanno fatto il loro compito nel giustificare il potere, ora se ne possono anche andare, proclamava Bodin quale sintesi della politica moderna. Giuristi e filosofi nazionali hanno fatto il loro compito, sentenziano oggi gli economisti.

Eppure vi è una consolazione, lo Stato che nasceva per neutralizzare i il conflitto ed era marxisticamente votato alla pura amministrazione delle cose, usa oggi la coercizione per distruggere la ricchezza e non la vita. Il Leviatano placa tutta la sua sete in un solo modo: col danaro. E forse dovremmo come minimo riorientare la nostra riflessione politica a partire da questo dato di realtà.

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