FILOSOFIA E SPERANZA COME MODI DI STARE AL MONDO
ROBERTA SALA
Ho iniziato questa riflessione varie volte, ma ogni volta ho cancellato le poche parole che ero riuscita a scrivere. Nessun incipit corrispondeva al mio stato d’animo, nessun termine esprimeva ciò che sento, ancor prima di ciò che penso, circa la speranza. Ma il tempo stringe, e neppure alla speranza sembra restare molto spazio. Non è retorica: è la sensazione che invade in questo tempo di guerra, lungo i giorni che si succedono senza schiarite, mentre si teme, o forse ci si aspetta, che accada qualche cosa peggio di così. Ma allora che dire della speranza?
Mi rifugio nella filosofia. La speranza è, in fondo, uno dei suoi mestieri più difficili. La filosofia, come atteggiamento o come modo di stare al mondo, costringe a interrogarsi sull’oggi ma obbliga a guardare più in là, con lungimiranza; con la virtù, cioè, che fa guardare lontano nel tempo e calcolare la combinazione degli eventi in base a ciò che si sa, senza sofismi né facili utopie. La lungimiranza – ricorda Weber – è la capacità di far agire su di sé la realtà con calma e raccoglimento interiore: è la distanza tra le cose e gli individui. È in questa distanza che ha senso sperare. Mi fermo per definire questi termini che ho introdotto, per capirne il senso e le interrelazioni.
Ho chiamato la filosofia un modo di stare al mondo. “Stare al mondo” implica guardare alle cose senza pregiudizi ma con giudizio; significa scambiare con gli altri le opinioni sulle cose; e ancora, significa formulare, nello scambio, un giudizio politico. Il giudizio politico comporta che gli individui, come collettività, sappiano di esprimere il portato di una tradizione, siano cioè consapevoli di condividere con coloro che vivono nello stesso tempo e nello stesso luogo alcuni criteri di valutazione, cioè alcuni valori. Implica, ancora, che siano consci che quei criteri valgono per loro ma possono valere anche per altri, a condizione di dare loro una giustificazione che possano comprendere se non condividere. Ciascun individuo ha il diritto di ricevere giustificazioni.
La filosofia, e la funzione di giudizio che le appartiene, non tollera, del resto, imposizioni, a meno che queste siano eventualmente giustificate o, se si preferisce, legittimate da parte di chi le subisce.
L’idea è allora che gli individui che condividono valori riconoscano la provenienza di questi da una tradizione o da una cultura e, in questo riconoscimento, si impegnino a difenderli oltre i confini stessi della loro tradizione, ovvero della loro cultura. In breve: l’idea è che essi riconoscano che non esistono valori universali e, tuttavia, si attivino a difendere i propri come se lo fossero. Una tale difesa richiede risorse intellettuali di non trascurabile peso, in specie la risorsa dell’immaginazione, necessaria per assumere il punto di vista dei propri interlocutori, per pensarsi al posto loro. In una parola: per comprenderli. La comprensione è l’impresa intellettuale – forse anche l’invenzione – che il giudizio politico rende possibile, senza che comprendere significhi anche condividere valori o giustificare azioni che non si reputino né condivisibili né giustificabili.
Ho aggiunto che la filosofia obbliga a interrogarci sull’oggi, sul presente. Potrebbe sembrare contraddittorio introdurre qui il termine “obbligo” dopo aver asserito che la filosofia non tollera imposizioni. Per sciogliere l’apparente contraddizione occorre precisare che l’obbligo, qui, è un dovere in qualche senso morale, non un’ingiunzione che provenga dall’esterno, da altri ambiti del discorso o campi di indagine. In ragione di questo dovere parliamo di normatività della filosofia: in essa si distingue ciò che è e ciò che dovrebbe essere, ovvero fatti e principi o ideali. Nello specifico, la filosofia politica è normativa quando si concentra non su come la politica (la realtà politica) è ma su come dovrebbero essere le istituzioni e le pratiche politiche. La filosofia politica normativa intende proporre principi o ideali che indichino le azioni da intraprendere per realizzare certi stati di cose considerati desiderabili, alla luce di quegli stessi principi o ideali. Nel definire un certo stato di cose come desiderabile, la filosofia politica non intende affermare che uno stato di cose è desiderato quanto, invece, che deve essere desiderato. È a livello del dover essere che si svolge tutto questo ragionamento: riconosciamo il dovere di perseguire stati di cose, dando agli stati delle cose esistenti una direzione. Perseguire stati di cose sottintendendo un dovere implica, di nuovo, uno sforzo di immaginazione. Richiede altresì la speranza che si possano realizzare.
La filosofia politica è allora normativa anche per la speranza di riuscire a fornire prescrizioni per agire nel mondo politico, proiettando con l’immaginazione stati che non sono o non sono ancora realtà. In questo quadro della normatività politica torna ad avere un ruolo centrale la lungimiranza: essere lungimiranti significa, allora, adottare uno sguardo che trascende il presente, che permette di studiare le azioni possibili calcolandone le conseguenze, così da impegnarsi in alcune per evitarne altre. Il calcolo delle conseguenze implica andare oltre al momento presente e proiettarsi più in là.
Va riconosciuto che in un ragionamento incentrato sul dover essere, sulla lungimiranza, sul calcolo delle conseguenze, sembra inusuale parlare anche di speranza.
Non è così: al contrario, la speranza è indice di razionalità e di ragionevolezza. Siamo razionali quando facciamo un calcolo di ciò che risponde ai nostri interessi, per cui cerchiamo i mezzi più adeguati onde poterli soddisfare. Siamo ragionevoli quando consideriamo, oltre ai nostri interessi, anche quelli altrui: riteniamo che altri, oltre a noi, abbiano il diritto di essere portatori dei loro interessi e che, come noi, abbiano il diritto di perseguirli. Considerare il proprio e l’altrui diritto di nutrire i rispettivi interessi è indice di razionalità e di ragionevolezza.
In questa prospettiva ‘sperare’ significa ‘confidare’ nella razionalità e nella ragionevolezza. La speranza non si aspetta soluzioni magiche: la speranza è impegno perché qualcosa che riteniamo desiderabile si realizzi oltre ogni pregiudiziale diffidenza, una diffidenza che non di rado nasconde l’inerzia dei rassegnati, o, peggio, degli ignavi. Diciamo a volte: ‘abbi fede!’, ‘abbiate fede!’. Così dicendo invitiamo ad aver fede quando sollecitiamo a confidare che qualche cosa di desiderabile prima o poi succederà. Il punto è stabilire se siamo disposti ad accettare realizzazioni intermedie di ciò che è in sé desiderabile. Un esempio è la pace: diciamo di desiderare la pace. Ma quanto confidiamo nella sua realizzabilità? Quanto siamo disposti ad accontentarci di qualche stato di cose che le somiglia, posto di avere della pace una definizione che ci metta tutti d’accordo? La questione è complicata. Riprendiamo le parole di Kant nel Trattato sulla pace perpetua (1795):
“Se è dovere, se c’è nello stesso tempo una fondata speranza di rendere effettuale la situazione di un diritto pubblico, anche se solo in una approssimazione che procede all’infinito, la pace perpetua che viene dopo quelli che finora sono stati erroneamente detti trattati di pace (propriamente, armistizi) non è un’idea vuota, ma un problema che, risolto a poco a poco, si avvicina costantemente alla sua meta (perché i tempi in cui avvengono progressi uguali diventano sperabilmente sempre più brevi)”
Il punto è: quanto è realistica questa idea? Quanto è realizzabile la pace? È in questione il rapporto tra l’ideale e la realtà, tra la dimensione normativa della ragione che comanda di realizzare la pace e le condizioni empiriche che ne consentono la realizzazione. In questione sono il significato stesso di speranza e la sua funzione ‘operativa’: speranza non è mera utopia se c’è margine per la realizzazione, sia pur parziale, di quello in cui si spera.
Si tratta di confidare nella possibilità di un adeguamento progressivo della realtà all’ideale, pur sapendo che l’ideale non potrà mai essere raggiunto definitivamente. È un avvicinamento all’ideale che ci impegna per sempre, all’infinito. Del resto, se non fosse così, l’ideale sarebbe meno che ideale e la speranza sarebbe un modo per accontentarci di quello che possiamo effettivamente raggiungere, dunque un modo per considerare come desiderabile solo ciò che abbiamo la probabilità di raggiungere. Così facendo, si finirebbe per adattare i nostri scopi a ciò che verosimilmente finirà per succedere: la realistica valutazione delle chance di successo di una determinata posizione diventa ragione sufficiente per la determinazione dello scopo che dovremmo perseguire. La speranza cederebbe il posto a una forma di adattamento al mondo.
Se dunque contestiamo questa accezione dimidiata di speranza, e la vogliamo nutrire come la confidenza razionale e ragionevole nella realizzabilità del desiderabile, sia pur per gradi, dobbiamo allora guardare oltre, a quella utopia realistica con cui ci si impegna per un cambiamento, pur senza perdere di vista né le caratteristiche della psiche umana, né i fatti della società e della storia. Si tratta di guardare con l’immaginazione all’utopia che prende sul serio il mondo come è, e noi nel mondo come siamo, ed esplora modelli di istituzioni e pratiche sociali come, entro certi vincoli, possono essere. Accettare vincoli vuol dire accettare che, se non tutto è possibile, è possibile qualche cosa, e così accettare di ragionare nell’incompletezza, di conoscere nell’incertezza, di vivere nella contingenza.
La questione può essere messa anche in questi termini: l’utopia realistica rappresenta da un lato lo sforzo di evitare il peso della contingenza come implicito in un certo realismo che ci vorrebbe assoggettati alla realtà; dall’altro lato, essa rappresenta il tentativo di evitare l’adozione del solo punto di vista ‘esterno’ con il rischio di trascurare gli individui a favore del sostegno a un’idea astratta di pace o di giustizia. L’idea di utopia realistica lavora per esplorare possibili alternative entro lo spazio che il mondo ci concede. Implica, così, lo sforzo di vedere il nostro posto nel mondo sub specie aeternitatis: la prospettiva dell’eternità non è la prospettiva di un posto fuori dal mondo né è il punto di vista di un essere trascendente; è invece un modo di pensarci da umani nel mondo, come soggetti capaci di immaginare come vivere nel mondo, secondo un ideale che tenga conto degli interessi di tutti e di ciascuno. In breve, secondo un ideale perseguibile di giustizia.
Se torniamo, allora, alla speranza, direi, in conclusione, che la parte della speranza legata alla razionalità e alla ragionevolezza implica l’impegno di fare qualcosa nonché la conoscenza dei mezzi per poterlo ottenere. C’è una parte anche emotiva della speranza, che è quel senso di fiducia se non di cura per il mondo. La speranza, così concepita, si manifesta come un modo di pensare e al contempo come un’emozione che ci spingono a immaginare un futuro diverso dal presente e a perseguirlo. La speranza permette di vedere – inventare – le tendenze reali operanti nel presente per formulare progetti futuri. Rappresenta un invito a superare i limiti del presente e a immaginare alternative realizzabili. In questo senso, la speranza è un principio sempre attuale perché spinge a non arrenderci di fronte alle sfide presenti ma a ricercare novità eque e sostenibili.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Endoxa marzo 2025 Roberta Sala Speranza
