FORZA E SPERANZA: SULL’ATTUALITÀ DELLA SPERANZA COME PRINCIPIO DEL NOSTRO AGIRE

PAOLO BETTINESCHI

Qualcosa è attuale soltanto se è presente, cioè soltanto se si impone al pensiero come qualcosa che il pensiero non riesce a negare relativamente al suo esserci, al suo essere un contenuto del pensiero stesso. Ma i contenuti che si affacciano e si rendono via via presenti all’interno dell’orizzonte del pensare sono per lo più contenuti fugaci, ossia contenuti variabili, la cui presenza ha una durata limitata e pertanto instabile. Poche o pochissime sono le cose stabilmente presenti.

Ora, ai fini di questa breve trattazione, sarebbe da chiedersi quale tipo di presenza – e dunque quale tipo di attualità – può vantare la speranza. Ma sperare poi cosa significa?

Ebbene, sperare è nutrire un’aspettativa fiduciosa circa la possibilità che qualcosa di buono arrivi a presentarsi nel futuro più o meno prossimo. Quando speriamo, dunque, ci riferiamo ad un bene che non è già attualmente presente così come vorremmo che fosse, giudicando, però, che quel bene al quale ci riferiamo abbia la possibilità di rendersi presente e di migliorare, con la sua presenza futura, la condizione attuale all’interno della quale si trova chi spera. Sperando, quindi, anticipiamo mediante la nostra aspettativa fiduciosa la presenza concreta di qualcosa di buono che attualmente è solo astrattamente presente. (Concretezza ed astrattezza, qui, indicano rispettivamente la presenza pienamente realizzata e la presenza difettosa o non pienamente realizzata di quel contenuto buono al quale sono attribuite).

Chi spera anticipa la presenza concreta di un bene attualmente presente in maniera solo astratta o difettosa. E la sua anticipazione prende appunto la forma dell’attesa e della fiducia: attesa per l’arrivo del bene che si attende, e fiducia che questa attesa possa, prima o poi, concludersi positivamente, quando il bene atteso si sarà reso pienamente presente. Questa, per l’essenziale, è la dinamica intenzionale della speranza, cioè quel che sempre fa chi spera qualcosa.

Ma – a veder bene – quando noi agiamo, ci ritroviamo sempre a sperare qualcosa. Perché agendo, noi siamo guidati dall’intenzione di realizzare lo scopo o il fine del nostro agire. E se non nutrissimo una certa fiducia relativamente alla nostra capacità di realizzare il nostro scopo o il nostro fine (ciò che attualmente non è ancora realizzato), noi nemmeno cominceremmo ad agire o a darci da fare per realizzarlo, cioè per farlo passare dalla sua assenza attuale (dalla sua presenza astratta, formale, difettosa) alla sua (più piena, più concreta, materiale) presenza futura.

Lo scopo (dal greco skopós, “bersaglio”, “punto cui si mira”) dell’agire, infatti, è ciò che teniamo in vista non avendolo già in mano nostra: è l’obiettivo verso il quale si concentrano i nostri sforzi pratici, cioè i tentavi messi in atto per cercare di modificare lo stato attuale dei fatti. Se tali sforzi saranno eseguiti in un certo modo (buono e non cattivo) e se non verremo ostacolati da potenze avverse eccessivamente grandi, l’obiettivo sarà raggiunto, cioè lo scopo sarà realizzato: quella cosa che prima era tenuta in vista pur non essendo già conseguita o già ottenuta, finalmente si renderà presente così come al principio del nostro agire volevamo che fosse presente. Non importa quanto importante o impegnativo sia lo sforzo pratico che ci riguarda. Quando noi agiamo, che sia per accendere la luce di casa mediante un interruttore, oppure per andare su Marte in astronave, noi anticipiamo la presenza di qualcosa che desideriamo conseguire e ci attiviamo per conseguirlo, ossia ci diamo da fare affinché quella cosa che desideriamo infine accada. Se non desiderassimo qualcosa o se ritenessimo che quel che desideriamo non abbia alcuna possibilità di accadere (di rendersi concretamente presente), nessuna azione finalizzata all’ottenimento di quel qualcosa verrebbe intrapresa. E se, per fare un’ipotesi estrema, ci trovassimo a non desiderare più nulla o a ritenere di non poter realizzare più nulla di quanto desideriamo, ogni nostro agire intenzionale troverebbe drammaticamente termine.

Possiamo dire, in questo senso, che la disperazione circa la realizzabilità o la conseguibilità delle cose buone che desideriamo decreta l’arresto di ogni nostro impegno pratico. Affinché ci sia impegno pratico, per converso, è necessario non disperare – e dunque è necessario sperare – che le cose buone che possono valere come scopo del nostro agire siano cose realizzabili o conseguibili. La speranza, pertanto, determina l’accensione della nostra prassi, così come la disperazione determina il suo prematuro spegnimento.

Serve allora notare che: se ciò che dà avvio e sostentamento alla nostra prassi è la speranza, non è esagerato affermare che la speranza si costituisce come quella forza che anima la prassi umana. Chi spera agisce e non patisce passivamente l’attualità. Chi invece è privo di speranza – chi invece è disperato – subisce la situazione presente all’interno della quale si trova collocato, senza sapere opporre alcuna resistenza all’attualità che vede il suo desiderio frustrato e insoddisfatto. Chi spera dunque è forte; e chi dispera è debole, perché privo di quella forza che sola consentirebbe il cambiamento attivo di ciò che non appaga. La disperazione, in questo senso, si accompagna alla rassegnazione e all’inattività, mentre la speranza si associa a una certa insoddisfazione attiva nei confronti del presente.

D’altra parte, però, se è vero che la speranza è la forza che innesca il nostro impegno pratico per la trasformazione di quella parte (grande o piccola) di mondo che appare difettiva rispetto alla presenza di una qualche bontà, è vero pure che la speranza non è una forza che si alimenta di se stessa. Per continuare ad esistere e a motivare il nostro agire, la speranza ha bisogno di contare su qualcosa che è altro da lei. In quanto aspettativa fiduciosa relativa all’accadere futuro di un certo bene, essa ha bisogno di far crescere la sua fiducia sulla presenza reale, e non soltanto immaginata o congetturata, di un accadimento buono già verificato che prima era stato a sua volta qualcosa in cui qualcuno aveva sperato. Riusciamo ad avere fiducia nell’accadere di un bene futuro, infatti, solo se l’esperienza passata ci ha già testimoniato che qualcosa di buono è accaduto, venendo incontro all’aspettativa fiduciosa di qualcun altro o alla nostra stessa aspettativa fiduciosa in riferimento ad un altro contesto o ad un altro desiderio di bene. Se invece nessuna aspettativa fiduciosa, e quindi nessuna speranza passata, fosse mai stata precedentemente appagata, sarebbe troppo difficile – se non addirittura impossibile – riporre la propria speranza attuale nel futuro e nella positività che col futuro dovrebbe arrivare.

Quella forza in cui consiste la speranza si fa forte dell’appagamento passato che abbiamo direttamente vissuto o che altri ci ha testimoniato (la testimonianza, qui, vale per noi come un’esperienza indiretta dell’appagamento e quindi del bene). L’esperienza buona già realizzata, nostra o altrui, si trova pertanto ad essere prima tesaurizzata, e poi reinvestita in prospettiva futura, funzionalmente al nutrimento della nostra attuale speranza – la quale, altrimenti, dovrebbe alimentarsi solo di vuote illusioni e di miraggi privi di qualsiasi fondamento o di riscontro storico.

Il tentativo, che pure è stato fatto, di indirizzare massicciamente la speranza verso la costruzione dell’utopia, soffre anch’esso di questo difetto di fondamento o di riscontro storico. Se dicendo utopia intendiamo dire una configurazione di mondo migliore di quella attuale, ma irrealizzata ed irrealizzabile, sperare di poter realizzare l’utopia è sperare di poter realizzare l’irrealizzabile. Il che, poi, significa niente meno che sperare di poter realizzare l’impossibile. Ma sperare di realizzare l’irrealizzabile o l’impossibile è appunto ciò che non consente alla speranza di sopravvivere. La speranza utopica, pertanto, condanna la speranza in quanto speranza al suo stesso spegnimento: la speranza si spegne per l’esaurimento – quando non addirittura per la totale assenza – della forza da cui dovrebbe invece essere alimentata. Spentasi poi la speranza dietro la fatica maniacale della (irrealizzabile) costruzione utopica, tutto l’agire umano si trova ad essere tremendamente indebolito. Quest’ultimo, come già osservato, vive e non può non vivere di speranza. La quale, però, non riesce più ad attivarsi proprio per la fatica estrema e per il digiuno totale di risultati a cui è stata costretta dalla pervasività del desiderio utopico. I momenti di infiacchimento del volere e di depressione collettiva a cui storicamente abbiamo assistito all’indomani del crollo delle maggiori ideologie a carattere utopistico (il comunismo su tutte) offrono in questo senso una testimonianza certa ed un monito su cui riflettere.

La costruzione del “paradiso in terra” non è rimessa alla capacità umana – qualsiasi sia il volto o il “colore” del mondo perfetto o sommamente buono che la volontà umana possa proporsi di edificare. Il che non significa che il miglioramento della situazione attuale sia impossibile per l’essere umano. Ma una cosa è la possibilità del miglioramento relativo della situazione attuale, il cui accadere è rimesso certamente all’operare dell’uomo; altra cosa è la possibilità del perfezionamento assoluto dell’attualità attraverso la nostra sola prassi. Se sperare nel miglioramento relativo delle cose attualmente presenti è non solo possibile, ma finanche doveroso, sperare nella nostra capacità di realizzare il bene assoluto è qualcosa di insensato quando non addirittura qualcosa di folle.

I limiti da cui siamo individuati determinano anche i limiti della qualità delle nostre opere. Sicché, ritenerci capaci di attuare qualcosa che corrisponda al bene illimitato o assoluto è ritenerci capaci di abbattere ogni nostro limite. E sperare in un simile abbattimento e in una simile (conseguente) attuazione del bene assoluto, sperare questo significa inevitabilmente sperare che la nostra natura possa coincidere con la natura divina, cioè con quella natura che non patisce alcun limite e alcuna imperfezione. Delirio di onnipotenza, più che semplice volontà di potenza. Negazione dell’esistenza dei limiti umani e pretesa identificazione dell’umano e del divino.

La consapevolezza dei limiti da cui siamo individuati, per contro, ci restituisce la misura corretta della nostra speranza e delle sue possibilità di ottenere effettivamente, un giorno, quello che attualmente non risulta presente così come vorremmo che fosse.

Si potrebbe ancora osservare, a questo punto, che giustamente, nel pensare religioso (che è un pensare diverso dal pensare utopico), l’ottenimento dell’altissimamente improbabile, del miracoloso, dell’inaudito, viene rimesso ad un intervento provvidenziale extra-umano, e cioè all’aiuto o alla grazia divina. Quest’ultima, per chi in essa crede, si costituisce appunto come una forza che trascende ed oltrepassa la potenza limitata dell’essere umano e che, quando liberamente conviene col desiderio umano, consente di ottenere ciò che, contando sulle sue sole forze, l’essere umano non sarebbe mai in grado di ottenere. Si può dunque sperare pure nella grazia o nell’aiuto divino. Ma anche la speranza religiosa può essere legittimamente coltivata non dimenticando che nemmeno all’onnipotenza divina e alla grazia che da essa può discendere è dato di far essere o di far accadere l’impossibile, cioè il contenuto contraddittorio della contraddizione. L’altissimamente improbabile, l’inaudito, il miracoloso o il soprannaturale che dir si voglia, infatti, non sono ciò che con la contraddizione si vorrebbe porre. Essi sono ciò che eccede l’ordine consueto della probabilità, dell’esperienza storica, della natura; non sono ciò che viola il principio di non-contraddizione a cui anche l’onnipotenza divina sempre si attiene. Per cui anche la speranza nella grazia divina non si trova mai (o non si dovrebbe trovare mai) a sperare ciò che è logicamente impossibile.

Secondo quello che abbiamo fin qui ragionato, la speranza si costituisce come una forza attiva per il nostro agire, il quale, in assenza di essa, deperirebbe fino allo spegnimento catatonico. Ma la speranza, a propria volta, trova nella sua passata soddisfazione quella forza di cui pure essa necessita per mantenersi in vita come aspettativa fiduciosa relativa all’accadere di un bene futuro. In questo modo, allora, la speranza è una forza che per esistere ha bisogno di una forza altra da lei, la cui esistenza è sperimentata nei fatti passati, oppure viene tenuta ferma dalla fede religiosa. Sulla scorta di queste ultime indicazioni siamo portati a concludere, allora, non solo che la speranza attuale è forza (per il nostro agire), ma anche che quella forza in cui consiste la speranza appagata è ciò che genera e tiene viva la speranza attuale come pure la speranza futura.

La speranza può appartenere a chi attualmente è disagiato, sfortunato, oppresso, vessato, ma non a chi è ed è sempre stato debole sotto ogni punto di vista. La mancanza totale di forza – la mancanza totale di un desiderio di bene che ha saputo trovare la sua soddisfazione o il suo appagamento – non può generare alcuna speranza. E solo chi è stato, chi è, o chi si saprà rendere forte può realmente sperare che la situazione attuale possa volgere verso il meglio. Al di là delle celebrazioni ipocrite e stucchevoli della debolezza disarmata fine a se stessa, occorre dire che è la forza del desiderio ciò che consente alla speranza la sua attuale sopravvivenza. Ma si tratta, a questo punto, di intendere esattamente anche cosa sia la forza autentica, e di capire come questa si distingua dalla violenza e dalla pretesa di offrire soddisfazione solo ad un desiderio unilaterale di sopraffazione che non tiene conto della natura sociale o relazionale dell’essere umano.

Sapranno i discorsi sulla speranza tenere in vista il nesso strettissimo che la lega alla forza? E sapranno i discorsi sulla forza – più che mai attuali – riconoscere che forza non significa necessariamente violenza ma anzi capacità di opporsi alla violenza e alla sopraffazione? Permanere in uno stato di debolezza, per definizione, significa permanere in una condizione all’interno della quale nulla – nemmeno la speranza – può opporsi efficacemente ai violenti che agiscono per mettere a tacere il nostro desiderio di bene.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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