IL SOGGETTO DELLA SPERANZA
LUIGI ALICI
Al termine della sua Critica della ragion pura, com’è noto, Kant accosta alle due domande fondamentali che riflettono l’impianto più noto del suo pensiero, connotate rispettivamente in senso speculativo (“Che cosa posso sapere?”) e pratico (“Che cosa devo fare?”), una terza domanda (“Che cosa posso sperare?”), riconoscendole un valore pratico e teoretico insieme. A partire da qui, proprio con Kant si apre un nuovo scenario speculativo, che riconosce alla speranza, solitamente derubricata nel novero delle figure religiose in qualche misura ai margini della razionalità, una soggettività nuova, un nuovo diritto di cittadinanza, in cui “il pratico – così Kant completa il suo pensiero nel passo della Critica appena ricordato – serve soltanto da filo conduttore per rispondere alla domanda teoretica, e se, questa s’innalza, speculativa”. Il pratico, dunque, come “filo conduttore” verso un orizzonte capace di “innalzarsi” dal teoretico allo speculativo.
Kant aggiungerà più tardi, nelle sue Lezioni di logica, un’indicazione preziosa per questo “innalzamento”, con una quarta domanda: “Che cosa è l’uomo?”. La pertinenza antropologica della speranza: ecco l’orizzonte che può dischiudere una inedita possibilità di dialogo fra l’altezza teologale della virtù cristiana della speranza e il suo radicamento nel profondo della condizione umana, che spiazza le tentazioni riduzioniste di ieri e di oggi. In quanto homo sperans, la persona resiste a ogni cattura naturalista, così come a ogni distopia tecnocratica. In questo nuovo approccio, in cui il pensiero filosofico torna a dialogare “laicamente” con la tradizione religiosa, soprattutto ebraico-cristiana, il pensiero del Novecento non è stato avaro di sorprese: basterebbe ricordare, fra tutti, il tentativo coraggioso compiuto da Jaspers, in quale – non immemore di Kant – ricostituisce un’apertura alla trascendenza nel punto d’incontro tra fede filosofica ed esistenza, insieme a quello, altrettanto coraggioso, perseguito da Bloch, che accredita una speranza capace di nutrirsi della Bibbia, sprigionando nella storia la forza sovversiva di una “utopia concreta”.
A partire da questi spunti, vorrei suggerire una linea di riflessione che ne raccolga e rilanci il valore euristico, ponendolo a confronto con due sfide emergenti nel panorama culturale contemporaneo. Riconoscere un radicamento antropologico della speranza di per sé dovrebbe sottrarla agli alti e bassi delle mode culturali; ciò non toglie, tuttavia, che una medesima radice possa essere ostacolata da rifiuti pregiudiziali, interpretazioni distorte, abusi ideologici. Si rende perciò indispensabile un esercizio di discernimento critico, per liberare tale prospettiva sia da sovrastrutture improprie che da riduzionismi equivoci. La necessità di sottrarsi agli opposti estremismi del tecnocentrismo e del biocentrismo vale anche per ritrovare una corretta ermeneutica della speranza: da un lato, infatti, dietro la promessa transumanista di una ottimizzazione a oltranza del futuro si nasconde una semplicistica minimizzazione del male e una dilatazione unidimensionale e ipertrofica dell’attesa, chiamata ad ereditare l’apertura interale della speranza; da un altro lato, si tratta invece di rinunciare a ogni prevaricazione antropocentrica, riassorbendo qualsiasi sporgenza del desiderio nell’equilibrio omeostatico dell’ecosistema. Tra il delirio di onnipotenza di un cyborg e la fragilità di una specie in pericolo, non c’è posto per la speranza: nel primo caso, essa può essere ripresa e gonfiata con un carburante “artificiale”, fatto di “tecnologie convergenti” e di algoritmi; nel secondo, dev’essere invece sgonfiata e dismessa, lasciando che una natura liberata da indebite ingerenze umane riprenda il suo corso, secondo cui è del tutto normale che il pesce grande mangi il pesce piccolo.
Non è certo la prima volta che lo scenario storico-culturale è dominato da polarizzazioni così estreme. L’intera epoca moderna, ad esempio, è attraversata da innumerevoli conflitti fra “grandi narrazioni” (razionalismo ed empirismo, illuminismo e romanticismo, individualismo e collettivismo, per limitarci a qualche esemplificazione). Tuttavia tali conflitti, mantenuti dentro un “sano” dibattito culturale, animato da idee elaborate e complesse, sono stati per lo più pacifici e addirittura produttivi, diventando invece distruttivi quando sono stati “messi a terra” dalla politica in forme ideologicamente semplificate e aggressive. È proprio l’esercizio di una razionalità dialogica e cooperativa che “fa la differenza” fra apertura e chiusura: quella chiusura che l’ideologia invoca come una compattezza da trasformare in onda d’urto nella storia, per una razionalità correttamente intesa è piuttosto un pericolo e una regressione.
Due tratti dominanti sembrano invece caratterizzare la nostra epoca, conferendo a tale conflitto un carattere di novità. Anzitutto assistiamo alla progressiva riduzione del diaframma che in passato aveva garantito una certa distanza tra ideologia e filosofia, ormai ridotto a un velo sottilissimo e poroso; questo rende sempre più difficile riconoscere e proteggere lo statuto epistemologico di tradizionali discipline scientifiche, quando tendono a configurarsi come vere e proprie visioni del mondo, cercando di identificare tale slittamento come vere e proprie ideologie militanti più che nella prospettiva di orizzonti di pensiero critici e aperti. Una deriva evidente in entrambe le direzioni sopra ricordate: la deep ecology prende le distanze da ogni forma di shallow ecology, che rischierebbe di accreditare un minimalismo impotente, capace solo di “fare il gioco del sistema”, alimentando piuttosto forma di radicalismo “alternativo” e intollerante; il dibattito sullo human enhancement, dal canto suo, antepone all’apparato categoriale dell’antropologia filosofica un pacchetto di promesse che hanno tutta l’aria di ignorare tranquillamente il confine tra scienza e fantascienza.
Un secondo tratto che caratterizza questo conflitto di paradigmi riguarda la sua ibridazione sincretistica sul piano del costume. Rispetto alla conflittualità irriducibile del passato, che trasformava le differenze in contrapposizioni invalicabili, rispetto alle quali si escludevano per principio mediazioni accomodanti, oggi, soprattutto nelle “vite di corsa” delle giovani generazioni, si può passare in modo disinvolto, al limite dello schizofrenico, dal riconoscere – in ambito ecologico – l’intrinseca e originaria normatività del naturale, che pone un vincolo insormontabile alla nostra libertà, fino ad assumere – in ambito bioetico – le opportunità delle biotecnologie come un cambiale in bianco firmata all’onnipotenza del desiderio. Si può combattere una battaglia in difesa della foresta amazzonica o contro l’uso di organismi geneticamente modificati (OGM), invocando un’etica della responsabilità che stigmatizza gli arbitri delle preferenze soggettive e asseconda l’universalismo del diritto internazionale, ma nello stesso tempo si può far sventolare la bandiera dell’autonomia dentro lo spazio invalicabile del privato, rivendicando al suo interno diritti insindacabili – di manipolare, di adottare, di potenziare… – spesso dimenticando che tali diritti possono comportare una mercificazione strumentale non solo della “natura” personale, ma persino delle pratiche e delle finalità condivise dalle quali dipende l’idea stessa di sfera pubblica.
Siamo in questo modo posti di fronte a una doppia novità (per quanto sempre relativa, non assoluta): per un verso, la scienza finisce per prediligere l’abbraccio mortale con l’ideologia piuttosto che il confronto critico con la razionalità filosofica; per altro verso, si assiste impotenti a una sorta di nomadismo ideologico, per cui non si esita a lasciar dominare spezzoni del vissuto, avvertiti come segmenti biografici autoreferenziali e incommensurabili, da scelte di vita e comportamenti basati su presupposti teorici del tutto antitetici e irriducibili l’uno all’altro.
Questo scenario, per quanto sommariamente (ma spero non arbitrariamente) evocato, comporta una sfida inedita per la speranza: mentre nel pensiero moderno, spesso connotato come un pensiero chiuso in un mix irriformabile di immanentismo e di storicismo, la speranza ottiene un riconoscimento qualificante e non marginale (addirittura nell’”illuminista” Kant, nel “marxista” Bloch, nell’ esistenzialista” Jaspers…), rimettendo in discussione non pochi stereotipi storiografici, nel pensiero e nella cultura contemporanea, che secondo una vulgata postmoderna sarebbe fatto di “piccole narrazioni” accoglienti e post ideologiche, la speranza non trova forse opposizioni frontali e dichiarate, ma finisce tuttavia per essere misconosciuta e sostanzialmente scavalcata nella sua identità più profonda.
Una ragione che riconosca i propri limiti (perché, come ci ha ricordato anche Pascal, il riconoscimento dei limiti della ragione è pur sempre un atto di ragione) e che sappia impegnarsi in processi aperti di elaborazione e di confronto critico, può guardare alla speranza non come una tana in cui rifugiarsi ed entrare in letargo per dimenticare i propri fallimenti, ma come un’alleata preziosa, e persino un’amica, nella misura in cui invita ad alzare lo sguardo su orizzonti di ulteriorità, anteponendo il primato del bene allo scandalo del male. Non si tratta di ridurre tutto a una banale guerra di trincea, volta a recintare e proteggere da interferenze esterne ambiti di sapere accreditabili iuxta propria principia: si tratta piuttosto di scavare dentro una dimensione antropologico-esistenziale, alla ricerca di uno statuto intenzionale capace di intercettare una eccedenza di senso non traducibile in un compiuto dominio concettuale.
Occorre, in altri termini, superare la questione, mal posta, dell’“oggetto” della speranza, che rischia di spostare il discorso sulla reificazione di un oggetto accanto ad altri oggetti, finendo di conseguenza nel vicolo cieco della ricerca, insuperabilmente aporetica, di uno statuto epistemologico conseguente. D’altro canto Kant ci ha insegnato che non è possibile una “deduzione trascendentale” della speranza. Ricordo di aver posto personalmente, in un convegno di anni fa, questa domanda a Paul Ricoeur: anche lui, come Kant, esclude che questa via possa essere speculativamente produttiva. Per disporsi a riconoscere la natura “metaproblematica” della speranza, per usare una terminologia cara a Gabriel Marcel, occorre allora capovolgere la questione, passando dalla ricerca dell’oggetto a quella del soggetto. La domanda sul soggetto della speranza chiama in causa in prima istanza la “capienza trascendentale” della persona umana, che è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per aprirsi a una radicale domanda di senso e di salvezza, non saturabile da risposte empiriche, fatalmente destinate a ingannevoli consacrazioni idolatriche.
Non a caso, se c’è un tratto che sembra accomunare trasversalmente l’odierno conflitto di paradigmi, sopra evocato, è esattamente la deriva impersonale: in un’ottica biocentrica la persona umana appare come un atto di arrogante antropocentrismo, mentre in un’ottica tecnocentrica come una forma di anacronistico essenzialismo. In entrambi in casi, la persona è considerata un attributo fenomenico accidentale e transitorio, destinato ad essere superato, rispettivamente facendo un passo indietro o un passo avanti. Al contrario, riscoprire la persona umana nella prospettiva di un essere umano fragile, capace e bisognoso di cura, apre a quella dimensione di fraternità planetaria, che ci porta al cuore del magistero di papa Francesco, liberando il soggetto della speranza da una chiusura individualista o singolarista, e aprendola a un’autentica dimensione comunitaria. Perché è la comunità, e non l’individuo, l’autentico soggetto della speranza.
Resta ovviamente aperta la questione – che qui non è stata affrontata – della “differenza teologale” della speranza cristiana, che s’annuncia come risposta a Qualcuno più che come domanda di qualcosa. Una differenza che in linea di principio resiste a qualsiasi cattura etico-antropologica, ma che tuttavia, proprio in quanto attesta una forza di resistenza attiva nei confronti del male, accredita una serie di virtù etiche, in qualche modo ausiliarie, come la fiducia e la pazienza, nei confronti delle quali una ripresa in chiave etico-esistenziale è non soltanto possibile, ma doverosa e generativa. Una ripresa che, di fronte alle sfide attuali, si può provocatoriamente riassumere con le parole che leggiamo nel Caligola di Albert Camus: “Come si può continuare a vivere con le mani vuote quando prima stringevano l’intera speranza del mondo?”.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Endoxa marzo 2023 Luigi Alici Speranza
