LA FATICA DI SPERARE: ERNST BLOCH E LE IMMAGINI DELLA MORTE

MICAELA LATINI

1. Durante gli anni bui dell’esilio, Ernst Bloch, costretto a fuggire dalla Germania nazista, ripara prima in Svizzera, poi in Austria, e infine, al precipitare degli eventi, negli Stati Uniti. È oltreoceano, tra New York e Cambridge Massachusetts che, verso la fine degli anni Trenta, mette mano al suo capolavoro, Das Prinzip Hoffnung, (Il principio speranza, trad. di E. De Angelis e T. Cavallo, con introduzione di Remo Bodei), un’opera enciclopedica, terminata solo alla fine degli anni Cinquanta, ovvero dopo il rientro nel paese d’origine. Lo studio portato avanti in queste pagine si lascia assimilare, sin dal titolo, a un vero e proprio viaggio controcorrente rispetto agli solchi tragici che stavano segnando il terreno della storia europea: un’esplorazione nel continente della “speranza” di oltre millecinquecento pagine, e scandita su tre tappe fondamentali. Le stazioni di questo peculiare percorso portano affidati ai titoli dei tre volumi “Sogni ad occhi aperti”; “Per un mondo migliore”; “Immagini di desiderio”. A queste tappe con nomi da Eldorado corrispondono altrettanti nodi concettuali: il primo tassello è dedicato al plesso società-politica; il secondo tratto si focalizza sulla questione della grande arte in senso ampio (e quindi sulla pittura, sulla musica, ma anche sulla filosofia); e infine il terzo punto che concerne la sfida ingaggiata dalla speranza contro la morte. In questa ultima sezione Bloch si muove con un passo incrociato: da un lato il suo pensiero cerca un appiglio nella forza redentrice delle “immagini di desiderio” rispetto alla vita quotidiana, al tempo e alla morte; dall’altro però presenta questi “Wunschbilder” come dei “negativi”, ovvero mostra in controluce l’ineffabile alterità che li attraversa in filigrana.

Un’espressione blochiana molto significativa per restituire il senso delle tesi esposte nel Principio speranza è quella dell’«opacità dell’attimo vissuto». Con questa formula si riferisce al fatto che la nostra esistenza è costellata di intermittenze oscure che aspirano a una maggiore chiarezza, o anche che i nostri progetti sono innervati di negatività. Bloch non si stanca di ripetere – secondo un adagio che ricalca la distinzione benjaminiana tra “esperienza (Erfahrung)” e “vissuto (Erlebnis)” –, che il sentiero della speranza non è mai rettilineo e illuminato. A rendere il percorso particolarmente accidentato è il fatto che nessuna costellazione in cielo rende visibile la rotta. Per Bloch infatti il presente non si lascia afferrare nella sua totalità, ma lascia dietro di sé un’eredità scomoda e di difficile riscattabilità, come dimostra il concetto di Ungleichzeitigkeit (non-contemporaneità), vero e proprio caposaldo della sua concezione del tempo (si rimanda al bel volume di Bodei).

L’opacità è precisamente quel “qualcosa” d’ineffabile che si annida nella nostra esperienza vissuta e che, in un certo senso, rende estraneo ciò che ci è familiare, connota di alterità il proprio. Sono questi temi che Bloch affronta nell’altra importante opera della sua maturità, ovvero nelle pagine dolorose di Erbschaft dieser Zeit (Eredità di questo tempo), quando si confronta in modo più esplicito con la barbarie del nazismo (1935). Ma i termini sono qui simili. Di fronte a ogni tentativo di comprendere appieno la nostra esperienza, ci si accorge che – (per dirla con una formula presa in prestito dall’opera di Bertolt Brecht Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny) – «manca qualcosa» (etwas fehlt). E questa mancanza, anziché manifestarsi come una semplice assenza, fermenta sotto l’impronta del vissuto, facendo emergere la sua alterità impenetrabile. L’opacità di cui Bloch ci parla in queste pagine è un’ombra di alterità nell’identico: da un lato si manifesta come «opacità della vita presente» (enges Dunkel des gegenwärtigen Lebens), dall’altro come apertura verso il futuro, come anticipazione (Vor-schein) utopica. In questo senso Bloch parla di una «modalità auratica dell’oscuro» (auratische Art des Dunkels): la presenza persistente dell’opacità in ogni pensiero e l’impulso che innesca il processo della nostra comprensione, stimolando al contempo l’emergere di ciò che era stato dimenticato.

2. Non c’è dubbio: la speranza per Bloch non va interpretata come una dimensione di passività, o di accettazione degli eventi, ma piuttosto nella forma di una postura eretta, che non perde di vista, nella fatica di attraversare la notte dei tempi, l’alba a-venire. Il “noch-nicht” è l’asse portante di questo procedere apparentemente insensato e inopportuno. Il fatto è che per Bloch il limite della speranza non sta in un altrove, ma si nasconde nella trama interna, e coincide con quell’ombra che il principio “Hoffnung” inevitabilmente si porta dietro.

In ogni presenza persiste questo nucleo di opacità che impedisce all’essere umano sia di portare a compimento i progetti della propria esistenza, sia di vivere la propria vita in modo totalizzante e immediato. Tuttavia, questa “dimensione oscura” non paralizza il movimento dell’esperienza umana. Ernst Bloch rovescia i termini della questione, e vede nella negatività non un limite, ma una risorsa, una sorta di pungolo che trasforma ogni ricerca di senso in un compito infinito, da riprendere sempre daccapo. Il soggetto blochiano, che tende verso una totalità ineffabile e irraggiungibile, è costretto ad abitare l’incompiutezza dell’esistenza, a fare i conti con l’andamento spesso fluttuante dell’esperienza.

In modo analogo questa oscurità che non si può dissipare, questo male senza redenzione, non rappresenta tanto un punto d’arresto inevitabile, quanto piuttosto la condizione interna di ogni esperienza possibile. L’opacità si rivela allora come un “surplus” che fermenta, come un eccesso del desiderio, come una promessa. È una tensione, una potenza il cui fine è il superamento di questa mancanza. C’è una immagine particolarmente efficace che Bloch “mette in opera”. Si tratta della raffigurazione della “docta spes” scolpita da Andrea Pisano su un portale del Battistero di Firenze. La figura femminile che personifica il “Prinzip Hoffnung” in questa formella trecentesca tende le braccia verso l’alto, come per afferrare qualcosa. La speranza non è un’attesa, ma piuttosto un tendere verso il futuro, verso il vero. Se l’esistenza umana è una vana aspirazione a una verità inaccessibile, Bloch riconosce in questa tensione verso il meglio il “legato” che tiene insieme il tessuto lacerato dell’esistenza stessa. Nelle tracce latenti che costellano la nostra vita si nasconde un impulso propulsore, pronto a svilupparsi: è la brama del meglio, la tensione verso il novum.

In altre parole, secondo Bloch, è proprio grazie alla sua opacità costitutiva che l’istante vissuto stimola l’umanità verso un chiarimento al contempo impossibile e ineluttabile. Si tratta di un’oscurità indeterminata ed elusiva, che ci costringe a ritornare continuamente sul dato e a lasciarci sorprendere di volta in volta dal suo contenuto sedimentato, dalla sua forza latente. Per questo il compito è quello di ricondurre la contingenza alla sua condizione interiore che, pur appartenendo al condizionato, non si esaurisce in esso, ma presenta sempre uno scarto, un eccedente. Questo «residuo» rappresenta per Bloch anche una miniera di possibilità nuove: è in questo spazio vuoto che bisogna attingere le scintille, i materiali necessari per costruire il futuro, nello sforzo di dare una forma e una figura a noi stessi e al nostro mondo, pur essendo consapevoli, allo stesso tempo, di «non poter mai concludere».

3. È all’interno di queste coordinate teoriche che Bloch riflette sulla concretezza della utopia. Al centro della praxis umana è l’analisi della “materia di cui sono fatti i sogni” (per citare il titolo di un bel volume su Bloch curato da Nicola Alessandrini). La meta di questa ricerca è la produzione di un senso: qualcosa che sfugge a ogni definizione totalizzante e che, tuttavia, spinge l’uomo a trasformare attivamente la propria vita e a tentare di accedere alla propria dimensione più profonda. Come un interprete della statura di Emmanuel Lévinas osserva (nel testo del 1993 dal titolo Dieu, la Mort et le Temps) con grande acutezza, secondo Bloch «c’è un fallimento in ogni vita, e la malinconia di questo fallimento è il suo modo di stare nell’essere incompiuto», nell’oscurità feconda che impregna ogni fatticità. Alla base della dimensione di “opacità dell’istante vissuto” è la morte, che costituisce una zona interdetta per la speranza, Di fronte all’«anti-utopia» per eccellenza, di fronte al fallimento ultimo e inevitabile che l’umanità registra nella sua impari lotta contro l’oblio, contro l’oscurità eterna, non si può non provare paura. Ma in fondo, a ben vedere, questa tonalità luttuosa marca ogni atto della prassi umana. Questo significa che si fa esperienza dell’opacità, e dunque della morte, nella quotidianità, in ogni nostro agire. E la malinconia, l’angoscia derivano dalla paura di morire senza aver compiuto, senza aver portato a termine la propria opera e il proprio essere. In un passo particolarmente suggestivo del Principio speranza si legge: «Per l’artista, l’angoscia più forte è quella di non poter portare a termine la propria opera. La morte non solo annienta l’uomo interamente, ma colpisce un bersaglio più preciso, privandolo della sua capacità creativa».

Il fallimento inevitabile per ciascuno consiste in questo: non riuscire a dare una forma definitiva alla vita reale e cadere nell’oblio originario. Da un lato, l’opera d’arte dovrebbe trionfare sulla morte, facendo emergere l’eternità; dall’altro, la morte, che dovrebbe essere contrastata dall’eternità, si presenta come segno distintivo dell’agire umano, come sigla di una prassi inevitabilmente imperfetta.

È all’opera, in altre parole, l’enigma che sigla la nostra essenza, l’“humanum absconditum”, il volto celato. Di fatto, la vita corrisponde per Bloch a un percorso in direzione dell’incontro con sé stessi, a un progetto di ritrovamento del proprio sé in una dimensione comunitaria (e qui la lezione di Hegel è tangibile anche se contaminata dalla presenza di Novalis), in quel «noi» che è anche il precipitato più autentico dell’opera d’arte. E tuttavia, come osservano già alcune righe suggestive dello studio giovanile di Bloch, Geist der Utopie (Spirito dell’utopia) «[…] ci ritroviamo sempre all’esterno di ciò che creiamo, il pittore non entra nel quadro, né il poeta nel libro, né nel paese dell’utopia dietro le lettere; e la fanciulla stessa, il fiore azzurro, per quanto nettamente si stagli su tutti i tesori, alla fine cade soltanto all’esterno nelle braccia del discepolo, e rimane fuori» (corsivo mio). Lo stesso tema, con significative varianti, si ritrova nel brano “La cornice che scompare due volte” di Tracce del 1959 (su questo si rimanda alla introduzione di Laura Boella all’edizione italiana).

In quella creazione continua che è la costruzione del proprio destino, l’umanità corre continuamente il rischio di precipitare fuori rotta, tra i dirupi di un sentiero accidentato e costellato di insidie. Ma la alla caduta si accompagna la capacità di rimettersi in piedi e proseguire il cammino. Si tratta di un’impresa faticosa; e pur tuttavia è lungo questa traiettoria periferica, sul solco di questo terreno scabro, che si trovano le tracce del cammino della speranza. Basta saperle cercare!

È nella necessità di questa ricerca che è racchiusa mirabilmente la lezione più (in)attuale del Principio speranza, e forse dell’intero pensiero blochiano.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA LETTERATURA

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