LA SPERANZA DI DIALOGARE (ON LINE) CON I MORTI
DAVIDE SISTO
Immaginiamo una scena del genere. È un uggioso martedì sera di novembre. Mario, appena uscito dall’ufficio, torna velocemente a casa, complice la pioggia torrenziale. Una volta chiusa dietro di sé la porta d’ingresso e indossati gli abiti casalinghi, entra nel salotto con passo svelto, saluta la moglie Francesca e le racconta di aver parlato con i suoi colleghi – nel corso della giornata – a proposito della vacanza estiva che avevano fatto nel 1998 a New York. “Ti ricordi?”, le chiede. Francesca, con voce cadenzata e paziente, risponde al marito assertivamente e comincia a ricordare alcuni aneddoti relativi a quel viaggio: la coda di due ore per salire sulla Statua della Libertà, le visite a Brooklyn e a Harlem, le cene a Times Square, ecc. Sembra una normalissima scena casalinga tra due coniugi. Francesca, tuttavia, è morta due anni prima e a rispondere alle richieste di Mario non è altro che Alexa, l’assistente vocale di Amazon, la quale riproduce perfettamente la voce della moglie e i suoi racconti in precedenza registrati. A primo acchito fantascientifica o distopica, quest’immagine in realtà potrebbe rappresentare perfettamente il futuro prossimo delle relazioni tra un dolente e il proprio caro defunto. Almeno così crede Rohit Prasad, il vice presidente senior del team che si occupa di Alexa, quando ha presentato – durante l’evento Amazon Re: Mars conference a Las Vegas nel giugno 2022 – gli aggiornamenti del noto assistente vocale, sottolineando la sua acquisita capacità di imitare e replicare la tonalità vocale di una persona a partire da un solo minuto di ascolto di un file audio. Prasad, in particolare, ha mostrato un video in cui Alexa legge a un bambino una favola con la voce, perfettamente riprodotta, della nonna morta poco tempo prima.
Mettendo un attimo da parte ogni tipo di immediata considerazione di natura etica, occorre sottolineare come questa inedita capacità di Alexa si aggiunga a una serie di altre innovazioni tecnologiche che si muovono nella stessa direzione: app con cui possiamo creare il Life Story Avatar interattivo della nostra esistenza (HereAfter AI), programmi di intelligenza artificiale in grado di riprodurre – sottoforma di avatar o di ologrammi – i morti (Seance AI, Project December, StoryFile, per citarne alcuni), oppure semplicemente le versioni funebri di ChatGPT, a cui gli utenti chiedono continuamente di ricreare lo stile narrativo e comunicativo del proprio caro defunto. All’interno del settore interdisciplinare della Digital Death si sprecano i neologismi con cui indicare questo tipo di progetti: griefbots e thanabots sono i più gettonati. In particolare, si tende a interpretare questi esperimenti tecnologici con i concetti generici di immortalità digitale, di aldilà digitale, ecc. Ci sono studiosi, come Anu A. Harju, i quali hanno manifestato i propri dubbi nel non distinguere nettamente il piano dell’immortalità da quello dell’aldilà digitale, preferendo pertanto associare ai thanabots il concetto di “assemblaggio tecno-affettivo”. Questo concetto permette, infatti, di analizzare il rapporto tra le tecnologie odierne e il lutto a partire dall’applicazione nei mondi online di tre caratteristiche tipiche del legame simbolico tra i vivi e i morti: vale a dire, la relazionalità, la materialità e l’affettività. Va da sé che, alla base di tutte queste novità tecnologiche e delle loro attuali interpretazioni, vi è una serie di narrazioni fantascientifiche e distopiche, ciascuna delle quali influenza non poco i creatori del post mortem tecnologico: da Be Right Back e San Junipero, due episodi dell’ormai classico Black Mirror, all’intera serie tv Upload, dal film Marjorie Prime al recente e suggestivo Wonderland. Quest’ultima pellicola cinematografica sudcoreana, in particolare, delinea con encomiabile attenzione l’interporsi delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti.
Ora, a mio avviso, la presenza futura nella nostra quotidianità di thanabots e griefbots richiede la necessaria attenzione per due specifici aspetti: 1) non c’è epoca storica che non sia stata testimone della speranza umana di mantenere un contatto attivo e prolungato nel tempo con i propri cari defunti; 2) thanabots e griefbots, lungi dall’aver a che fare con l’immortalità o l’aldilà, stanno semplicemente alludendo a nuove possibili forme di memoria. In primo luogo, come d’altronde testimonia l’intera storia della filosofia, l’essere umano non accetta facilmente il proprio destino mortale, ancor meno quello delle persone che ama. Durante gli anni del mio dottorato, mi sono ampiamente soffermato, in particolare, sull’elaborazione teorica di stampo romantico-idealistico della Geisterwelt, il Mondo degli Spiriti, il cui tratto fondamentale risulta essere la sua attiva presenza all’interno della Naturwelt, il Mondo della Natura. L’apice descrittivo di questa peculiare compresenza tra esseri viventi e Spiriti è lo struggente dialogo Clara di Schelling, tramite cui il pensatore tedesco cerca di trovare la propria personale consolazione per la perdita traumatica della moglie Caroline. Egli, pertanto, teorizza una tale connessione tra la dimensione naturale e quella spirituale da garantire agli esseri umani la speranza di una sorta di sopravvivenza post mortem mediante l’“essentificazione spirituale” della loro corporeità mortale. Al di là dell’astrattismo teorico, possiamo parallelamente menzionare la moda ottocentesca, mai terminata, delle sedute spiritiche o, in termini più specifici, dell’attribuzione all’immagine fotografica di una vivida presenza spettrale dei morti. L’entusiasmo manifestato da Arthur Conan Doyle nei confronti della fotografia spiritica ci fa ricordare gli astuti trucchetti utilizzati da William Mumler, abile a “immortalare” in ogni immagine fotografica le persone vive con quelle morte, sovrapponendo più immagini tramite la tecnica della “doppia esposizione”. Questi trucchetti hanno comportato non pochi problemi di natura giudiziaria per Mumler, denunciato dal politico e uomo d’affari Phineas Taylor Barnum. In altre parole, l’intera esistenza umana è contraddistinta dalla speranza di superare il baratro che separa l’aldiquà dall’aldilà riuscendo a interagire con i morti non solo in modo simbolico.
In secondo luogo, questa speranza – oggi nutrita dall’intelligenza artificiale e dalle tecnologie digitali – mentre cerca di raggiungere l’ambita immortalità, ottiene invece più semplicemente modi sempre più ricchi e articolati di ricordare. Alexa, così come gli altri esperimenti menzionati, nutre una forma di memoria che non è ricostruttiva. La memoria ricostruttiva, infatti, presuppone una necessaria distanza tra il presente e il passato, di modo che il dolente abbia il tempo di immagazzinare i vari ricordi del defunto, ricomponendoli all’interno di una biografia ricostruita la quale unisce insieme l’oggettività del fatto con l’invenzione circostanziale. La memoria, intesa come ricostruzione, non è mai una presa diretta sul sapere, come ci ricorda Aleida Assmann. L’atto del ricordare assomiglia al lavoro del paleontologo “che è impegnato nella ricostruzione dello scheletro di un dinosauro, di cui possiede un insieme incompleto di ossa, avendo a disposizione tuttavia una grande quantità di informazioni su questo animale” (J.K. Foster, Memoria, Codice, Torino 2012, p. 18). Ricostruire vuol dire, pertanto, anche interpretare, mettendo in relazione la distanza del passato dal presente con la dialettica tra la memoria e l’oblio. Ecco, pertanto, che quando ricordiamo le azioni di una persona che abbiamo amato e che ora non c’è più uniamo insieme, nei racconti, frammenti di storie realmente accadute, le sovrapposizioni costanti tra fatti e invenzioni generate dalla memoria, quindi anche le nostre défaillance e fantasie. Il tipo di memoria che coincide con i thanabots è invece riproduttiva e ripetitiva, basata sulle simulazioni “intelligenti” di comportamenti, discorsi e racconti condivisi nel corso della vita e sottoforma di dati nella dimensione online. Il loro rimescolamento, per mezzo dell’intelligenza artificiale, produce una situazione del genere: il thanabot di Francesca ricorda la vacanza a New York a partire dalla quantità di informazioni precedentemente condivise online su questo evento, nonché dal modo in cui la donna lo ha raccontato sia sui social che nelle applicazioni di messaggistica privata. Quindi, l’intelligenza artificiale mette in relazione questi dati con quelli relativi alle caratteristiche dei discorsi online di Francesca sul suo legame coniugale, nonché al modo in cui la donna esprime pubblicamente la propria personalità. Il risultato ottenuto dovrebbe essere una risposta il più possibile aderente a quella che avrebbe dato da viva. Ovviamente, al thanabot di Francesca manca l’imprevedibilità e l’incoerenza che avrebbero potuto caratterizzare il suo modo di rispondere. Magari, se il marito le avesse posto la stessa domanda in un momento in cui lei era particolarmente stanca o nervosa, avrebbe interagito esprimendo concetti non necessariamente corrispondenti al suo autentico pensiero. La speranza di mantenere vivo in eterno un dialogo con i propri cari defunti, tramite l’uso dell’intelligenza artificiale, purtroppo deve fare i conti con la mancanza di una precisa corrispondenza armonica tra la complessità identitaria di un essere umano e le asettiche connessioni di causa-effetto proposte dal suo thanabots. Da un certo punto di vista, questo deficit è però una fortuna. Infatti, la speranza indicata, nel caso della perfetta aderenza tra l’essere umano defunto e il suo thanabot, potrebbe mutarsi in una vera e propria forma di alienazione. Già così non mancano le criticità di natura etica: il trauma del lutto patito può infatti determinare una patologica dipendenza tecnologica nel dolente, non in grado di separare lucidamente il proprio caro defunto dalla sua riproduzione artificiale. Inoltre, la creazione e gestione dei thanabots da parte di società private, intente a trarci un sostanzioso guadagno, possono già di per sé comportare una mancanza di rispetto della privacy del morto e una sorta di ricatto psicologico per il dolente.
I problemi relativi a queste particolari forme di sopravvivenza artificiale dei defunti sono molteplici e richiedono analisi ben più approfondite di questa. Resta, tuttavia, evidente il filo rosso che unisce la menzionata Geisterwelt ai thanabots: non c’è innovazione tecnologica né narrazione o teoria letterario-filosofica che, in un certo qual modo, si arrendano alla certezza radicale della fine di un legame, così come è imposta dalla morte. La speranza di non smettere mai a mantenere un dialogo con chi abbiamo amato e ora non c’è più si traduce, di volta in volta, nella creazione di inediti escamotage in grado di accorciare la distanza tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Nella maggior parte dei casi, al fallimento dell’obiettivo primo – l’immortalità – corrisponde tuttavia un significativo ampliamento del ricordo e della memoria dei trapassati. E, forse, proprio in questa corrispondenza riusciamo a ottenere un’importante consolazione che, se non riesce a limitare del tutto lo struggimento per la perdita, la riempie tuttavia di storie, racconti e narrazioni vivide e sostanziose.
