LA SPERANZA: UN SENTIMENTO MORALE

GIOVANNI GRANDI

La questione di cosa sia la speranza ha sollecitato significativamente il pensiero filosofico e teologico e, su tutti, due nomi del dibattito novecentesco sono noti al grande pubblico: quello di Ernst Bloch, che ha lavorato a Il principio speranza a partite dal 1938, per pubblicarlo per la prima volta nel 1959, e quello di Jürgen Moltmann, con il suo studio del 1964, Teologia della speranza. Il tema ha rappresentato e, per molti versi, rappresenta tuttora un filone di pensiero attivo, si potrebbe dire anzi perenne, dal momento che mette al centro dell’attenzione il futuro, le aspettative umane per il domani storico e – in campo teologico – quelle di tipo escatologico.

Tra i molti percorsi possibili di esplorazione del tema vorrei recuperarne uno in particolare, quello che porta all’inserimento della speranza tra i sentimenti morali, collocandola dentro una teoria dell’azione.

Conoscere il futuro

La possibilità di conoscere il futuro ha appassionato molto già il pensiero medievale: la maturazione di una concezione lineare del tempo, nella successione di passato, presente e futuro ha rappresentato un punto centrale per il pensiero cristiano che concepisce il tempo come una “historia salutis”, una storia della salvezza che si snoda tra il “già” e il “non ancora”. Il tempo storico è teso tra l’evento salvifico della risurrezione del Cristo – il già – e il suo ritorno ultimo – il non ancora – e sappiamo fin dalla prima letteratura evangelica che questa tensione è difficile da pensare oltre che, prima ancora, da vivere. Già Paolo di Tarso – rivolgendosi in particolare alla comunità di Tessalonica, nella prima come nella seconda lettera – ha dovuto richiamare ad un atteggiamento più presente, più coinvolto, le comunità che tendevano ad assumere una postura di disimpegno dalla storia, come se il futuro fosse “corto”, come se il ritorno del Signore risorto fosse imminente. Via via che la storia umana proseguiva, con un inequivocabile riprodursi delle dinamiche di contrasto tra il bene e il male, si è sviluppato all’interno della tradizione cristiana un pensiero escatologico sempre più raffinato, che si è sviluppato in più direzioni. Da un lato è parso necessario approfondire la questione del rapporto tra il tempo e l’eternità, dall’altro si è iniziato a studiare più attentamente il tipo di sapere possibile a proposito del futuro storico: il concetto medievale di “futuribile” esplora in particolare questo tema.

A monte di tutto questo troviamo però la questione di fondo che qui interessa: il futuro è inequivocabilmente un oggetto a cui si rivolge l’intelligenza, perché rappresenta lo scenario ipotetico di arrivo a valle di decisioni da prendere nel tempo presente. Esiste cioè un nesso tra quel che accade oggi e quel che accadrà domani, e questo nesso risponde in senso generale alla nozione aristotelica di “causa finale”, che funziona come architrave della riflessione morale fin dagli esordi dell’Etica Nicomachea, dove si osserva che «ogni arte e ogni ricerca, e similmente ogni azione e ogni proposito sembrano mirare a qualche bene; perciò a ragione definirono il bene: ciò a cui ogni cosa tende». (Aristotele, Etica Nicomachea, I (A), 1, 1094 a 1-3).

La causalità finale, la tensione al bene di tutte le cose, è un chiaro antropomorfismo, perché suppone appunto la capacità di percepire il fluire del tempo e le connessioni tra eventi, e infatti Tommaso d’Aquino, recependo la lezione di Aristotele, sottolinea che si tratta della «prima fra tutte le cause […] E lo dimostra il fatto che la materia non raggiunge la forma senza la mozione della causa agente […] ma la causa agente non muove senza mirare al fine. Se infatti l’agente non fosse determinato a un dato effetto non verrebbe mai a compiere una cosa piuttosto che un’altra: quindi, perché produca un dato effetto, è necessario che venga determinato a qualcosa di definito, che acquista così la ragione di fine». (Tommaso d’Aquino, La Somma di teologia, I-II, q. 1, a. 2, Co.). Il “fine” è tale per solo per un “agente” consapevole del tempo, il “fine” risiede inequivocabilmente nel futuro, e la causa finale assume allora questo carattere intrigante: qualcosa che ancora non esiste – pur essendo tra gli orizzonti possibili – genera dal domani delle conseguenze nell’oggi per tramite della libertà e della visione progettuale di cui sono in grado gli esseri umani.

Da questa prima milestone concettuale derivano anche gli sviluppi teorici che interessano la speranza.

Dal conoscere all’agire

Il discernimento sul da farsi nel presente in vista del domani e, nel senso ricapitolato, a partire dal domani, investe il campo morale anzitutto considerando i gesti che hanno a che fare con il male. Anche in questo caso l’input riflessivo viene da Aristotele, che non è incuriosito né dalle azioni palesemente buone, né da quelle palesemente malvagie, ma da quelle miste. Esistono delle azioni con un carattere sorprendente – o inquietante – e sono quelle di cui ciascuno si riconosce autore pur non avendole volute, o più precisamente, avendole scelte ma obtorto collo, in una condizione di costrizione che, al limite, porta a chiedersi fino a che punto se ne possa essere responsabili. Ecco sorgere qui un tema filosofico di ampia trattazione, quello della distinzione tra il “volontario” e l’“involontario”, in cui è ancora l’Etica Nicomachea a disegnare i termini della discussione: «Sembra – scrive Aristotele – che siano involontarie le azioni che si compiono per forza o per ignoranza. Forzato è ogni atto il cui principio sia fuori di noi e tale che chi lo compie o chi lo subisce non vi cooperi per nulla». (Aristotele, Etica Nicomachea, III (Γ), 1, 1109 b 35 – 1110 a 15).

La questione dell’involontario ritorna nei secoli, la troviamo ripresa ad esempio negli stessi termini nel VII-VIII Secolo da Giovanni di Damasco (De Fide orthodoxa, II, 24 b) e poi ripresa ancora da Tommaso d’Aquino: «Come insegnano concordemente il Filosofo e Gregorio Nisseno, le azioni compiute per timore (per metum) “sono un misto di volontarietà e di involontarietà”. Infatti l’azione compiuta per timore, considerata per se stessa, non è volontaria, ma diventa volontaria nella contingenza particolare, cioè per evitare il male che si teme (vitandum malum quod timetur)». (Tommaso d’Aquino, La Somma di teologia, I-II, q. 6, a. 6).

Le azioni compiute per paura (per metum) non appartengono al campo del volontario, a meno che – ed è tuttavia la situazione più ricorrente – non siano state una delle opzioni comunque disponibili, frutto insomma di una scelta, per quanto sofferta. Queste azioni vengono ora associate a una passione più generale, non necessariamente negativa, che è individuata nel “timore”, un sentimento complesso, che appunto spinge ed evitare una certa strada facendo leva sulla rappresentazione dissuasiva del male futuro, che potrebbe riversarsi in primis su chi la imboccasse. Ci si può dunque volgere a un bene particolarmente faticoso o solo contingente – come è il caso di scuola proposto da Aristotele, quello in cui ci si risolva per gettare a mare un carico per non rischiare il naufragio durante una tempesta – perché spinti dal timore per uno scenario alternativo.

Questo quadro teorico-antropologico è chiaramente ancora incompleto: manca quantomeno un nome, che indichi – specularmente al timore – la leva affettiva che invece spinge a inoltrarsi in una certa direzione, quand’anche faticosa, percependola come preferibile non solo indirettamente, ma direttamente. Il nome di questa passione correlativa, che pure spinge nel discernimento morale e nell’agire, ma mostrando il bene difficile a cui tendere è, precisamente, “speranza”.

Timore e speranza: una figura di coppia per l’agire

Tommaso è, al solito, essenziale e conviene seguire la sua lezione sulle passioni implicate nell’agire: esistono a suo parere «quattro passioni sono le principali. Perciò il numero di queste quattro passioni risulta dalla distinzione tra presente e futuro: infatti il moto dice ordine al futuro, mentre la quiete consiste in qualcosa di presente. Del bene presente, dunque, sentiamo gioia e del male presente tristezza; per il bene futuro invece nutriamo speranza e per il male futuro timore». Tommaso d’Aquino, La Somma di teologia, I-II, q. 25, a. 4, Co.

Speranza e timore disegnano, come tanti altri concetti classici, una “figura di coppia” per leggere le situazioni di indecisione: in effetti nelle situazioni miste e dubbie siamo in grado di percepire entrambi questi sentimenti, a seconda di quel che contempliamo. Un buon obiettivo, per cui pure nutriamo qualche speranza, potrebbe portare con sé conseguenze non altrettanto buone, segnalate dal timore, e prevalendo quest’ultimo potremmo scegliere di desistere. Viceversa, una azione che non avremmo mai contemplato astrattamente come qualcosa di buono, e da cui il timore pure ci metterebbe in guardia, in una precisa circostanza, la sentiamo percorribile in nome di una speranza che in noi prevale, come quando – per abbandonare gli esempi classici – ci affidiamo a una cura sperimentale sperando nella guarigione, mentre ordinariamente e in salute non ci presteremmo a test clinici dagli effetti collaterali in via di accertamento.

In breve: se il timore è del male e la speranza è del bene, questo non significa che seguire la spinta della speranza sia bene e quella del timore sia male. Occorre discernimento, ed è forse anche per questo che Tommaso precisa qualcosa di ulteriore, che vale la pena di esaminare.

La speranza: verso un bene futuro, arduo, raggiungibile

Il discorso potrebbe proseguire sempre tenendo conto della figura di coppia: ci sono timori che evolvono in paure, in fobie, togliendo plasticità al discernimento – alla decisione “prudente” per rimanere nei termini della tradizione classica medievale – e immobilizzando la persona in una staticità avversa ad ogni cambiamento. Ma, viceversa, possono anche esserci speranze altrettanto problematiche, lì dove il sentimento spinge verso l’azzardo o dove il bene intenzionato – sempre nella dinamica della causalità finale ci troviamo – abbaglia al punto da diventare ciechi rispetto al male che il medesimo slancio verosimilmente introdurrebbe nella realtà.

Tommaso immagina una sorta di “screening” per mettere alla prova la speranza, a partire proprio da ciò che questo sentimento propone come obiettivo:

«Circa l’oggetto della speranza occorre vi siano quattro condizioni. Primo, che ci sia un bene: propriamente non esiste speranza se non del bene. E per questo la speranza differisce dal timore, che è timore del male. Secondo, che riguardi il futuro: non c’è speranza delle cose presenti già raggiunte. Terzo: è richiesto che sia qualcosa di arduo, raggiungibile con difficoltà: non si dice infatti di sperare cose da poco, che subito possono essere ottenute. Quarto, che quelle cose ardue siano tuttavia raggiungibili: infatti nessuno spera ciò che in ogni caso non potrà raggiungere. E per questi motivi la speranza differisce dalla disperazione» (Tommaso d’Aquino, La Somma di teologia, I-II, q. 40, a. 1, Co.).

La condizione prima ed essenziale per scrutare la speranza è che ci si rivolga a un bene in modo diretto: che cosa si intende raggiungere (e non, viceversa, evitare) attraverso una tal decisione? Questo obiettivo si rivela nella sua bontà – secondo tratto – quanto più si distanzia nel futuro, e questo perché in fin dei conti spinge a riflettere, a distendere l’agire entro un progetto, uscendo dall’immediatezza e dall’estemporaneità. Un terzo aspetto da prendere in considerazione è la fatica, meglio si potrebbe dire l’impegno, che è richiesto: una speranza consistente dovrebbe essere in grado di rinnovare la motivazione dinanzi alle avversità. Infine, quarto e particolarmente interessante nodo, l’obiettivo sperato dovrebbe pur sempre essere realizzabile: impegnativo da raggiungere sì, ma comunque alla portata. Altrimenti, nota suggestiva, l’eccessiva ambizione e la mancanza di realismo rischiano di attivare una dinamica depressiva, contraria alla speranza stessa: inseguire mete velleitarie (utopistiche?) rischia di portare in uno stato continuo di insoddisfazione, che alla lunga tende a corrodere la motivazione fino alla rinuncia e alla conclusione che ogni impegno sia vano e illusorio.

Saper riconoscere in se stessi la speranza, senza confonderla con illusioni o velleità, così come il saper interpretare gli allarmi del timore, distinguendoli dalle voci paralizzanti della paura, rientra tra le capacità morali. La dinamica tra questi sentimenti, pur non esaurendo una teoria dell’azione – non almeno nella lezione tommasiana – concorre al discernimento morale, potendo estensivamente essere ritrovata anche nella sfera politica e applicata nella analisi dei modi attraverso cui una società viene sollecitata verso obiettivi di interesse collettivo. Lungo questa via il discorso sulla speranza potrebbe, ancora una volta, ricondurre alle riflessioni sul futuro sociale a cui gli stessi Bloch e Moltmann hanno invitato a sostare, ciascuno dalla propria originale prospettiva.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA TEOLOGIA

Lascia un commento