PLEASE WAIT… NON SPEGNERE, DISCONNESSIONE IN CORSO
DOMENICO SCARAMUZZI
1. Parlare o scrivere sulla speranza è già di per sé un atto di speranza che resta inevitabilmente sospeso nelle nebbie dell’approssimazione. Tant’è che converrebbe limitarsi a parlare intorno ad essa tenendoci a debita distanza di sicurezza dal suo nucleo essenziale, come suggerisce la raffinata (e scaltra) costruzione (de + ablativo) del vecchio complemento di argomento.
Il fatto è che non c’è parola detta o scritta che possa sostenere il peso di ciò che la speranza pone ed avanza come pretesa: vale a dire, l’assoluta assenza dell’oggetto o, ancora meglio, l’assoluta assenza di oggetto.
Non disponiamo, infatti, di alcun logos in grado di dire quel che non c’è, fatta – forse – eccezione per la promessa. Ma, a ben guardare, la parola della presenza è tutt’altra cosa rispetto alla parola della promessa o, meglio, della parola promessa: quella ‘indica’ il suo oggetto da lontano, questa vi è coinvolta; quella è dirimpettaia, questa è coinquilina se non, addirittura, convivente.
Da qui la ragione per cui, al di là delle chiacchiere, degli slogan e delle frasi ad effetto, già il semplice proposito di discorrere della speranza ci pone in una situazione di evidente impotenza, nell’impossibilità di poter affermare e afferrare alcunché. D’altra parte, non è una novità: le trattazioni antiche, medievali e moderne assieme a tutta la manualistica teologica insistono nel considerare la fede quale virtù del non-visibile e nel ritenere la speranza la virtù del non-possesso.
In tal senso, si può parlare della speranza – e lo si deve fare perché non si può non farlo – solo e sempre in sua assenza. Anzi, a dirla tutta, è un vero e proprio azzardo già il fatto di chiamarla virtù o continuare a definirla tale, soprattutto se, stando all’etimo, si intende per ‘virtù’ qualcosa di attivo e di dinamico o che presenti i caratteri dell’operosità e dell’impegno. Questo ‘darsi da fare’ o ‘attivarsi’ per o della speranza si scontra, infatti, con la disarmata e disarmante passività che, invece, la contraddistingue. Anche qui, nulla di nuovo: nella tradizione del pensiero occidentale e persino in Tommaso d’Aquino si registra un’interessante oscillazione nel determinare se la speranza sia propriamente una virtù o non piuttosto una passione.
2. Questa cautela ne reclama subito un’altra a partire da quella «speranza contro ogni speranza» che si legge nella Lettera ai Romani (Rom 4,18). Ora, lo si declami in greco (παρ’ ἐλπίδα ἐπ’ ἐλπίδι), lo si citi in latino (contra spem in spe) oppure lo si trasponga in una delle lingue moderne (espérant contre toute espérance; Against all hope, [Abramo] in hope believed; credette, saldo nella speranza contro ogni speranza) questo mezzo versetto insinua una spinosa complicazione.
Se non si vuol cadere nell’ovvio, il senso di una speranza contro ogni speranza non può essere limitato ad uno sperare in situazioni di dichiarata e irreversibile disperazione, né significa nutrire delle chances in assenza di ragioni, motivi, argomenti o indizi. Ancor meno fa segno ad eroici o disperati atto di coraggio, né si tratta di un mero modo di dire – un’iperbole – per esprimere l’incrollabile tenuta di un soggetto cocciuto.
Sperare contro ogni speranza dice, già in virtù dell’evidente costruzione oppositiva, l’essere esposti al limite, sul bordo indistinto del possibile e dell’impossibile, là dove la speranza confligge con se stessa in una tenzone con potenziale pari a zero in quanto, come suggerisce il terzo principio della dinamica, l’uno annulla l’altro. Ebbene, questa situazione di radicale impossibilità o, meglio, di assoluto non poter potere ci dice qualcosa di drammaticamente serio: per darsi come possibile e mantenersi nella propria autenticità, la speranza deve necessariamente contare sul nulla! E ciò a tal punto che persino la diffusa espressione di ‘segni di speranza’ non può che rivelarsi inadeguata, avventata e fuorviante, a meno che non si voglia parlare di altro, vale a dire di aspettative, previsioni, attese, prognosi o, al massimo, di ragioni d’ottimismo.
3. La speranza non è la sposa già maritata (fede) né la madre già esperta (carità), ma «la bambina che va ancora a scuola». Così Ch. Péguy ne Il portico del mistero della seconda virtù. Detto altrimenti, la speranza ha nella ultimità – ovvero nell’esposizione all’a-venire – il suo luogo più proprio. In fondo, è stato sempre stato così, anche quando anziché una donna o una bambina la si riteneva una divinità: Spes ultima dea.
La Speranza è, dunque, «quella che sempre comincia». Ancora Péguy. Ma, non avendo nulla su cui contare, il cominciare della speranza è sempre altro e ogni volta nuovo. Sperare è dare il via ad un altro inizio che non è mai un cominciare da capo, ma dalla fine, un sobrio altrimenti che si astiene dal praticare qualche tipo di magia e che si guarda scrupolosamente dal «nominare il nome di Dio invano».
È un altrimenti che impone e reclama il dovere di abitare diversamente questa realtà che ci è (ancora e in parte) familiare, senza ritornare ai facili entusiasmi di possibili ripristini, restauri o aggiusti del mondo scorso. La speranza è competente nel fare i conti con un non-ancora che non è richiesto dal già, che non è un suo prevedibile sviluppo, che non si tiene lungo la linea di continuità dell’essere stato o del già dato, ma che balena dal non poter tornare del non-più già consumato e compiuto. Solo a questa condizione la possibilità dell’altrimenti rivela l’altrimenti dell’impossibile. E – mi pare evidente – non siamo lontani da quel «Letzte Gott», da quell’ultimo Dio che ha da essere più sperato che creduto e/o amato; o, meglio, creduto e amato, ma anzitutto sperato come il Dio altrimenti da quelli che sono già stati o da quello fin troppo conosciuto. Non un Dio assente perché è Dio, ma Dio in quanto e proprio perché assente; inafferrabile non perché Dio, ma, appunto perché assente, ritratto e in permanente ritrazione, incessantemente a venire. Mancante piuttosto che ‘mancato’ come deplora l’esagerata e lamentosa retorica di pensatori e predicatori di ieri e di oggi.
4. In tal senso, l’altro inizio della speranza e l’ultimo Dio appartengono ad un medesimo gesto, al «raro cenno» che li accomuna in una sorta di spazio residuale, un resto sul fondo (penso all’intrigante profondità del vaso di Pandora), ma che – ecco il punto – bisogna guardarsi bene dall’assumere, a cuor leggero e frettolosamente, come fondamento. Evento abissale, dunque, che resta sempre in forse quale ‘presenza’ in permanente sospensione, che si tiene sul filo fragile dell’accadere e di eventuali emersioni.
Conviene alla speranza la ragione per cui l’ultimo Dio non somiglia né mai assomiglierà ad uno di quelli già morti, fuggiti o al tramonto. Infatti, della sua ‘identità’ si sa con certezza che ‘non è’, ma viene. È un Dio che non si dà – lo conferma l’Apocalisse – se non come Ad-veniente dal momento che non la divinità, ma il futuro è la sua essenza. Il Dio ‘della’ speranza (genitivo epesegetico) non può (sop)portare il nome dell’essere, ma solo e sempre del venire, nel senso che deve il suo nome al verbo e non alla sostanza, alle figure dell’assenza e non della presenza. Per tale ragione, per quanto «possano», essendo ormai donne fatte, la fede e la carità non bastano. È ad esse necessaria la sorellina speranza che, proprio per il suo non poter potere, continua ad andare a scuola.
Ma – attenzione ! – anche qui nessun passo falso, dal momento che colui-che-viene-dopo non è detto che sia l’ultimo nel senso di conclusivo. In quanto eccedente e proprio perché tale, Costui eccede persino la sua stessa ultimità così come soverchia ogni sua presenzialità definitiva. In ogni suo passaggio, non indica la propria assestata e compiuta presenza, ma accenna ancora ad altri e imprevedibili suoi avventi.
5. La celebre domanda kantiana – cosa posso sperare? – non può ricevere alcuna risposta neppure dalla religione, almeno sino a quando la sua formulazione conserverà il verbo potere. D’altra parte, l0idea di un soggetto dotato del potere di far accedere la speranza rasenta il ridicolo! Al contrario, chiunque speri rimane un soggetto a cui qualcosa già accade o, ancora meglio, un soggetto che sta rispondendo a quel che accade. E ciò perché, detto alla buona, la speranza non può darsi se non entro la passività della risposta che il soggetto inventa sul momento. Ragione per cui rispondere e sperare sono verbi assai affini, quasi biologicamente imparentati come già significativamente intuito da un notorio pessimista: «Io vivo, dunque io spero, è un sillogismo giustissimo» (G. Leopardi, Zibaldone).
A questo punto, i corni dell’alternativa si stagliano chiari: o si continua a pensare un Dio che pre-esiste in quanto ‘Primo’ oppure si opta per il Dio che avviene in quanto ‘Ultimo’, tenuto conto che, nel primo caso basta la fede, nel secondo, invece, non si può fare a meno della speranza. Nel primo caso, è sufficiente un pizzico di immaginazione per portarci, a mo’ di dirimpettai del nulla, dalla parte di Dio o dell’origine; nel secondo, invece, è necessario stare da quest’altra parte, creature tra le creature, esposte all’impossibile e responsivamente coinvolte, ad un tempo, nell’assenza di ciò che non è ancora e nell’attesa di ciò che non è già stato. La cosiddetta «vita del mondo che verrà».
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Domenico Scaramuzzi Endoxa marzo 2025 Speranza
