SPERANZA E ILLUSIONI

ROBERTO FESTA

Lo spirito di coloro che temono il Signore vivrà, perché la loro speranza è posta in colui che li salva.

Siracide, 34

La nostra speranza è così certa che è come se già fosse divenuta realtà. Non abbiamo infatti alcun timore, poiché a promettere è stata la Verità, e la Verità non può ingannarsi né ingannare.

Agostino, Commento ai Salmi, 118, 15, 1 e 123, 2

“E vissero per sempre felici e contenti”. Con questa espressione si chiudono spesso le favole, dove i protagonisti sfuggono a pericoli di ogni genere, realizzano le loro più fervide speranze e vivono per sempre felici e contenti. Talvolta, anche nel mondo reale siamo abbastanza fortunati da realizzare le nostre speranze e goderci una vita lunga e felice. Prima o poi, però, moriremo tutti. Il timore della morte e la consapevolezza della sua inevitabilità proiettano un’ombra sulle nostre piccole e grandi speranze.

La speranza, indissolubilmente connessa al timore, è un’emozione costitutiva della natura umana. Non possiamo fare a meno di sperare che i nostri desideri si realizzino e di temere che non lo facciano. Le nostre speranze riguardano, anzitutto, la dimensione privata dell’esistenza. Speriamo di trovare un lavoro interessante e ben rimunerato, di godere di buona salute, di amare ed essere amati, e così via. D’altra parte, coltiviamo anche speranze di carattere impersonale. Speriamo che la squadra del cuore vinca il campionato, che il nostro partito vada al governo e persino che si avverino le nostre utopie politiche. Tutte queste speranze possono realizzarsi, oppure no. In ogni caso, si tratta di speranze caduche, poiché il piacere che potremo trarre dalla loro realizzazione cesserà con la nostra morte. Non stupisce, quindi, che gli esseri umani abbiano sempre nutrito, in un modo o nell’altro, anche una speranza molto più audace delle nostre speranze quotidiane, cioè la speranza d’immortalità.

La speranza di sconfiggere la morte ha caratterizzato gran parte dell’esperienza religiosa dell’umanità, fino a culminare nel cristianesimo. D’altra parte, la speranza cristiana si è fortemente affievolita nel mondo moderno. Infatti, a partire almeno da Franceso Bacone, la speranza in una vita eterna, fondata sulla promessa di Dio, è stata progressivamente sostituita dalle speranze secolari, fondate sulla promessa della ragione umana di dominare la natura e la società. In contrasto con un’opinione largamente diffusa, difenderò qui la tesi che la speranza cristiana è ragionevole e che gran parte delle speranze secolari, riposte nelle conquiste scientifiche e politiche della ragione, sono illusioni.

Ragionevolezza della speranza cristiana

La ragionevolezza della speranza cristiana potrebbe essere sostenuta con questo semplice argomento:

1) La fede cristiana è ragionevole.

2) La speranza cristiana è una conseguenza della fede cristiana; quindi

3) La speranza cristiana è ragionevole.

Se le premesse di questo argomento sono plausibili, lo sarà necessariamente anche la sua conclusione. Mostrerò ora che le premesse 1) e 2) sono plausibili.

L’affermazione fatta nella premessa 1) sulla ragionevolezza della fede cristiana è stata sostenuta da svariati teologi. Per esempio, l’enciclica Fides et ratio (1998) – stesa dall’allora cardinale Joseph Ratzinger e pubblicata da Giovanni Paolo II –, si apre con l’affermazione che “la fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità». L’immagine delle due ali suggerisce che fede e ragione cooperano nella ricerca della verità. Fin dagli albori del cristianesimo, i teologi si sono occupati delle relazioni tra fede e ragione. A questo riguardo, mi pare convincente la proposta di Richard Swinburne, uno dei più importanti teologi contemporanei, il quale sostiene, sulla scorta di una sofisticata epistemologia probabilistica, che la fede cristiana è ragionevole nel senso che, alla luce delle nostre conoscenze, i capisaldi della fede sono molto probabili. In particolare, Swinburne mostra che le caratteristiche generali del mondo rendono probabile l’esistenza di Dio (The Existence of God, 1979). (Per un’esposizione divulgativa, si veda Esiste un Dio?, 1996.) Inoltre, mostra che anche la Resurrezione di Gesù è probabile e sostiene che la Resurrezione offre una solida base per credere a molte affermazioni della dottrina cristiana, incluse quelle sulla possibilità della vita eterna (The Resurrection of God Incarnate, 2003).

Nella premessa 2) del mio argomento si dice che la speranza cristiana è una conseguenza della fede. Per comprendere il senso di questa affermazione e valutarne la plausibilità possiamo rivolgerci, ancora una volta, a Joseph Ratzinger che, due anni dopo essere salito al soglio pontificio con il nome di Benedetto XVI, promulgò l’enciclica Spe salvi (2007). Nell’enciclica si afferma che la speranza cristiana poggia sul solido fondamento della fede. Infatti, avere fede significa essere profondamente convinti che Dio esiste, che si è fatto uomo, che è morto e risorto per amor nostro e che le sue promesse, inclusa quella sulla possibilità di sconfiggere la morte, sono affidabili. La fede, così intesa, offre una solida base cognitiva alla speranza cristiana.

Ratzinger mette in chiaro che la speranza non si rivolge solo alla vita ultraterrena, ma è anche un atteggiamento operoso nel presente. La potenza salvifica della speranza viene così illustrata nell’enciclica.

“La salvezza […] ci è offerta nel senso che ci è stata donata […] una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. […] Paolo dice ai Tessalonicesi: “Voi non dovete “affliggervi come gli altri che non hanno speranza”(1 Ts 4,13). Qui compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell’insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. […] Il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova.”

“La speranza cristiana non è solo attesa fiduciosa di un’eterna beatitudine, ma è anche attesa di giustizia.”

“Dio c’è, e Dio sa creare la giustizia in un modo che noi non siamo capaci di concepire e che, tuttavia, nella fede possiamo intuire. Sì, esiste la risurrezione della carne. Esiste una giustizia. Esiste la “revoca” della sofferenza passata, la riparazione che ristabilisce il diritto. […] L’immagine del Giudizio finale è in primo luogo […] un’immagine di speranza […] È un’immagine che chiama in causa la responsabilità. La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s’è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore. Contro un tale tipo di cielo e di grazia ha protestato a ragione, per esempio, Dostoevskij nel suo romanzo I fratelli Karamazov. I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato. […] Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura.”

Sulla base delle considerazioni fatte sopra, possiamo affermare che la fede cristiana è ragionevole e che la speranza cristiana è una conseguenza della fede cristiana. Quindi possiamo anche affermare che la speranza cristiana è ragionevole.

Come si è accennato all’inizio, l’epoca moderna ha visto il progressivo affievolirsi della speranza cristiana, soppiantata dalla speranza secolare nel potere salvifico della ragione. La speranza secolare si è manifestata, per esempio, nelle utopie politiche, ispirate dal desiderio di creare una società perfetta, e nelle utopie mediche, ispirate dal desiderio di guarire da ogni malattia, fino alla conquista dell’immortalità. Nel seguito sosterrò che le utopie politiche e mediche non sono altro che illusioni.

La speranza secolarizzata: le illusioni della politica

I progressi tecno-scientifici dell’età moderna incoraggiarono la formazione dello scientismo, cioè della speranza secolarizzata che tutti i problemi umani possano essere risolti dalla scienza. Il più roboante araldo dello scientismo fu il filosofo inglese Francesco Bacone (1561–1626) che, senza aver fatto alcuna scoperta scientifica, pretese di avere individuato il “giusto metodo” della scienza. Infatti, nel Novum Organum (1620), Bacone descrisse una complessa metodologia che avrebbe dovuto meccanizzare il processo di scoperta. La scienza baconiana non richiedeva la creatività individuale, bensì la pianificazione della ricerca, condotta da legioni di scienziati. Le scoperte della scienza avrebbero poi portato allo sviluppo di potenti tecnologie per il controllo della natura. Bacone pensava che la realizzazione della sua utopia scientifica richiedesse una radicale riorganizzazione della società e, senza perdersi d’animo, si incamminò sul sentiero dell’utopia politica, pubblicando La nuova Atlantide (1624), dove viene descritto uno stato ideale diretto dagli scienziati. Come si vede, il tragitto dall’utopia scientifica all’utopia politica è breve. Quindi, non sorprende che, dopo Bacone, quel tragitto sia stato percorso molte altre volte, a partire dai rivoluzionari francesi del Settecento fino a Karl Marx e alle rivoluzioni comuniste del Novecento.

Nell’enciclica Spe salvi, Ratzinger osserva che i filosofi e i movimenti utopici dell’epoca moderna sono accomunati dal desiderio di ristabilire il dominio sulla creazione, che l’uomo aveva ricevuto da Dio e aveva perso nel peccato originale.

“Fino a quel momento il ricupero di ciò che l’uomo nella cacciata dal paradiso terrestre aveva perso si attendeva dalla fede in Gesù Cristo, e in questo si vedeva la “redenzione». Ora questa “redenzione», la restaurazione del “paradiso”perduto, non si attende più dalla fede, ma dal collegamento appena scoperto tra scienza e prassi. […] Così anche la speranza, in Bacone, riceve una nuova forma. Ora si chiama: fede nel progresso. Per Bacone, infatti, è chiaro che […] grazie alla sinergia di scienza e prassi […] emergerà un mondo totalmente nuovo, il regno dell’uomo. […] Karl Marx cercò di avviare questo nuovo passo […] della storia verso la salvezza. […] Il progresso verso […] il mondo definitivamente buono non viene più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica – da una politica pensata scientificamente. […] Così la speranza biblica del regno di Dio è stata rimpiazzata dalla speranza del regno dell’uomo, dalla speranza di un mondo migliore che sarebbe il vero “regno di Dio». […] Ma nel corso del tempo apparve chiaro che questa speranza […] era forse una speranza per gli uomini di dopodomani, ma non una speranza per me. Ma una speranza che non riguardi me in persona non è neppure una vera speranza.”

Nel ventesimo secolo il comunismo marxista prese il potere in Russia, in Cina e in molti altri stati, fino a dominare un terzo dell’umanità. Sulla scia di questi successi, l’utopia marxista divenne la principale erede della speranza cristiana. Come osserva il filosofo marxista tedesco Ernst Bloch (Il principio speranza, 1953-1959), il marxismo opera una trasformazione in senso utopistico della speranza di redenzione del cristianesimo, cosicché l’oggetto supremo della speranza non è più Dio, bensì l’utopia comunista.

Il marxismo ha sostituito la speranza cristiana nell’immortalità personale con la fede nell’immortalità dell’umanità. D’altra parte, i marxisti hanno sempre mostrato notevole imbarazzo nei riguardi della morte. Questo atteggiamento si intravvede già in Karl Marx che, nelle più di diecimila pagine della sua opera, dedica alla morte solo tre righe. Il silenzio marxiano sulla morte ha dato origine a uno dei più inviolabili tabù del marxismo al potere. Le uniche morti di cui si può parlare liberamente in uno stato marxista sono le morti eroiche in difesa dello stato. Le altre morti, invece, vanno completamente ignorate. Persino l’immagine di un terremoto che semina qualche centinaio di morti va passata sotto silenzio, poiché evoca la possibilità che la gioiosa marcia verso la felicità universale possa essere rallentata dagli eventi naturali. Grazie alle ricerche dello storico russo Nikolai Krementsov (Revolutionary Experiments: the Quest for Immortality in Bolshevik Science and Fiction), sappiamo cosa si pensava della morte nell’Unione sovietica degli anni Venti, nel periodo compreso tra la vittoria della rivoluzione bolscevica diretta da Lenin e l’ascesa al potere di Stalin. A seguito dell’ictus che colpì Lenin nel maggio 1922, i dirigenti comunisti si resero conto che la sua morte poteva verificarsi in qualsiasi momento. Nei due anni che precedettero la scomparsa di Lenin, avvenuta il 21 gennaio 1924, discussero cosa si sarebbe dovuto fare della sua salma. Come è noto, il corpo di Lenin fu imbalsamato e trasformato in una reliquia rivoluzionaria da venerare in un enorme mausoleo posto accanto al Cremlino. Tuttavia, diversi dirigenti caldeggiarono l’ibernazione, poiché ritenevano che questa fosse la strada maestra per raggiungere l’immortalità intesa in senso materialistico, come una vita indefinitamente lunga del corpo. Krementsov racconta che il mondo scientifico sovietico degli anni Venti era percorso da un fervore di ricerche biomediche tese alla ricerca dell’immortalità o, almeno, dell’eterna giovinezza. L’immortalità corporea per tutti era la nuova promessa del comunismo al potere, l’alternativa secolarizzata alla speranza cristiana nell’immortalità dell’anima e nella resurrezione del corpo.

La speranza secolarizzata: le illusioni della medicina

L’utopismo medico è un ingrediente essenziale dell’ideologia comunista che, tuttavia, non ne detiene il monopolio. Infatti, a partire dagli inizi del Novecento, questa forma di speranza secolarizzata si è ampiamente diffusa anche nelle democrazie liberali dell’Occidente. Lo psichiatra libertario statunitense Thomas Szasz ha mostrato che l’utopismo medico occidentale affonda le radici nello stato terapeutico, cioè nella moderna forma di società caratterizzata dalla stretta unione tra stato e medicina. Lo stato terapeutico ha suscitato significativi cambiamenti nella mentalità della gente comune, sempre più pronta ad accettare la medicalizzazione della vita quotidiana, con la quale le più svariate condizioni umane vengono trattate come problemi medici. Secondo Szasz (Pharmacracy: Medicine and Politics in America, 2001), l’ideologia dello stato terapeutico è penetrata talmente in profondità nella mentalità popolare da suscitare l’illusoria speranza che la medicina sconfiggerà la malattia e la morte.

“Cento anni fa i medici erano nichilisti terapeutici. Avevano ragione: c’erano poche possibilità che un paziente potesse beneficiare di un incontro professionale con un medico. Oggi i medici sono utopisti terapeutici. Si sbagliano: sebbene i pazienti spesso traggano beneficio dai loro incontri professionali con un medico, prima o poi muoiono tutti. Lo sforzo per sradicare la malattia è una ricerca donchisciottesca. […] Medici, politici e pubblico sono nelle grinfie di una ricerca delirante e utopica – un’autentica moderna follia di massa –, che è allo stesso tempo la causa e la conseguenza di una visione ingenuamente medicalizzata della vita e della morte. Uno dei sintomi di questa follia di massa è la convinzione diffusa che ogni problema medico può essere risolto se spendiamo abbastanza soldi per la ‘ricerca’”.

Il contributo della medicina al benessere dell’umanità è di gran lunga inferiore a quanto comunemente si pensa. Le ricerche epidemiologiche hanno mostrato che l’aumento della vita media ha poco a che spartire con la medicina. Per esempio, la vita media in Italia era attorno ai 55 anni negli anni Trenta e ha superato gli 82 anni all’inizio di questo secolo. Tuttavia, come osserva l’epidemiologo Roberto Volpi (L’amara medicina, 2008), “gli studiosi di epidemiologia hanno mostrato, sulla scorta di una massa imponente di dati, che diversamente da quanto ci si aspetterebbe, all’azione del sistema medico-sanitario non si possa attribuire che un 10-15%  delle nostre condizioni di salute e del livello di speranza di vita al quale siamo giunti. Il resto dipende dagli stili di vita e dalle condizioni ambientali.”

Sarà bene fare ritorno alla realtà e comprendere che l’utopismo medico è, per l’appunto, un’utopia. Il filosofo della scienza Jacob Stegenga (Medical Nihilism, 2018) sostiene che l’atteggiamento più adeguato riguardo all’efficacia della pratica medica è, ancora oggi, il nichilismo dei medici della fine dell’Ottocento.

“Il nichilismo medico è […] la tesi che esistono meno interventi medici efficaci di quanto la maggior parte delle persone creda e che la nostra fiducia negli interventi medici dovrebbe essere bassa […]. Il nichilismo medico sostiene che dovremmo ridurre la nostra fiducia nell’efficacia degli interventi medici.”

In particolare, secondo Stegenga, dovremmo diffidare degli interventi terapeutici oggi più ampiamente utilizzati, vale a dire dei prodotti farmaceutici.

“Vi sono molti disturbi per i quali non abbiamo cure: dolori misteriosi come la fibromialgia e l’artrite, molte forme mortali di cancro, molte malattie neurologiche come il Parkinson e persino le malattie più semplici e onnipresenti come il comune raffreddore. […] E vi sono interventi medici ampiamente diffusi, ma scarsamente efficaci e con molti effetti dannosi, come gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, le statine e i farmaci per il diabete di tipo 2.”

Nel 2005 John Ioannidis, uno dei più importanti epidemiologhi del mondo, ha scritto un articolo in cui sostiene che “la maggior parte dei farmaci prescritti dai medici sono perfettamente inutili e spesso dannosi”. Tuttavia, a dispetto delle evidenze epidemiologiche, gran parte dei medici e dei pazienti nutre una smodata fiducia nell’efficacia della pratica medica.

“In un recente sondaggio – osserva Stegenga –, è stato chiesto agli intervistati se fossero d’accordo sul fatto che la medicina moderna “può curare quasi tutte le malattie per le persone che hanno accesso alle tecnologie e ai trattamenti più avanzati”. Un ottimismo sfrenato è stato espresso da oltre un terzo degli intervistati. Ciò è particolarmente sorprendente considerando le poche cure di cui dispone la medicina moderna.”

Il modesto successo della pratica medica non scoraggia i cultori dell’utopismo medico, che ripongono le loro speranze nell’applicazione medica delle scoperte genetiche. Il grande biologo evoluzionista Richard Lewontin (Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza, 2001) si è preso gioco di queste speranze.

“Ci sono molte condizioni umane che sono chiaramente patologiche e che possono essere ricondotte a una causa genetica unitaria. Per quanto ne sappiamo, la fibrosi cistica e la corea di Huntington si manifestano in persone che portano il rispettivo gene mutante indipendentemente dalla dieta, dall’ occupazione, dalla classe sociale o dalla educazione. […] Queste forme morbose forniscono il modello su cui il programma di genetica medica è costruito. […] Non c’è dubbio che la comprensione dell’anatomia e della fisiologia umana ha portato a una pratica medica molto più efficace di quanto non fosse nel diciottesimo secolo. Questi avanzamenti, tuttavia, sono determinati da metodi di gran lunga più progrediti per esaminare lo stato dell’interno del nostro corpo, da modalità stabilite su base pragmatica di correzione degli squilibri chimici e di uccisione degli invasori batterici. Nessuno di questi settori di avanzamento dipende da una profonda conoscenza dei processi cellulari o da scoperte nel campo della biologia molecolare. […] Il cancro viene ancora trattato con grossi attacchi fisici e chimici sul tessuto colpito. […] Gli antibiotici furono originariamente sviluppati senza la minima nozione di come svolgano la loro opera. […] La promessa di grandi avanzamenti nella medicina deve ancora essere realizzata dal sequenziamento del genoma umano. […] Fino al momento attuale la promessa che lo studio delle sequenze del DNA avrebbe trovato applicazione nella cura delle malattie non ha trovato attuazione per nessuna malattia umana.”

FILOSOFIA MEDICINA TEOLOGIA

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