SPERANZA E UTOPIA SONO L’ONORE DEGLI EROI
ROBERTO MORDACCI
Lungo l’orizzonte della storia vi sono vette e abissi. Friedrich Nietzsche, nella seconda delle Considerazioni inattuali (1874), lo disegna come un panorama di picchi e avvallamenti, in cui «Un gigante grida all’altro attraverso i desolati intervalli dei tempi, e l’alto colloquio degli spiriti prosegue, indisturbato dai nani petulanti e chiassosi che strisciano sotto di loro». Contrariamente a quanto comunemente si pensa, la filosofia della storia di Nietzsche non è tutta e solo décadence: non è un progressismo storicista rovesciato, in cui si andrebbe dal vitalismo dionisiaco delle origini greche al nichilismo moralistico europeo. Per Nietzsche, la storia – così come l’essere nel suo insieme – è il luogo del volere, ossia di quella forma originaria della vita che è spinta all’affermazione, al sì, all’assertività. Questo movimento non è affatto lineare né continuo, bensì caotico e diseguale: in esso convivono momenti di grande potenza vitale e sprofondamenti di passività autodistruttiva. «Il compito della storia – prosegue Nietzsche – è di essere la mediazione fra loro e di dare sempre nuove occasioni e di conferire nuove forze alla produzione di ciò che è grande». È in quest’ottica, conclude, che «No, lo scopo dell’umanità non può trovarsi alla fine, ma solo nei suoi più alti esemplari».
Sarebbe comico e superficiale – come lo è stato – interpretare queste tesi come una celebrazione della supremazia, del potere (Macht) inteso esclusivamente come forza (Gewalt). Anzi, proprio la distinzione fra di essi, richiamata da Elias Canetti in Massa e potere, deve metterci sull’avviso circa il tragico errore di Nietzsche e di molti suoi interpreti. La forza è soltanto vis o violentia, è mera erogazione di energia, dispersione di grado immediato, senza direzione né progetto, senza persistenza né valore. La forza è divenire senza essere: consumato il suo fuoco, essa si perde nel nulla. Il potere, al contrario, è energia riflessiva, capacità che si dispiega solo quando può realmente creare, quando il suo potenziale diviene necessità. Il potere è l’essenza della possibilità, dell’aver da essere, è anzitutto «potere di» e solo secondariamente «potere su»: come scriveva Spinoza, è potentia prima di essere potestas e imperium, i quali, per altro, sono legittimati solo dall’auctoritas che si forma al convergere delle potenze riunite dei cittadini.
È per questo che speranza e utopia sono il regno dei giganti. Esse nutrono e sostengono l’azione, collegano anche da grandi distanze coloro che vogliono vivere liberi e generano valore, valentia piuttosto che violentia. Se l’illuminismo è, come ha chiarito Foucault, la volontà di «non essere governati così», di darsi cioè una legge che ha la forma della «cura di sé» e del «governo di sé e degli altri», allora – con buona pace di Trasimaco – le vette della storia non sono dove vige l’utile del più forte, bensì dove dilaga la vita degli spiriti liberi, dove s’impone il coraggio di osare, sperare e progettare.
Come ha scritto un temerario ragazzo sul suo cartello, portato nelle piazze di Istanbul in questi giorni, «Tutti i dittatori sono codardi» («Diktatorlerin hepsi korkaktir»). Vale al di là di queste piazze e di questi tempi. Appartiene all’oppressore – nella storia – la cifra del terrore, la cancellazione di ogni aspirazione, il tentativo di annientare il volere dei sudditi, di assorbirlo interamente nel proprio. Ma proprio questo è il segno della viltà, della mancanza di coraggio: il leader autoritario si nasconde dietro le divise dei suoi militari (salvo tentare la fuga in extremis indossando la divisa di un altro esercito), dietro la strategia di impossessarsi di ogni mezzo di comunicazione e istruzione, dietro il tentativo di controllare il potere della legge e dei giudici, di rendere illegali gli oppositori, di mandarli al confino o avvelenarli: in altre parole, si fa fare scudo dalla forza della repressione, non avendo con sé la potenza delle volontà riunite e libere (potestas in populo), il potere che si forma agendo «di concerto», come sosteneva Hannah Arendt. Dittatori e autocrati sono piccoli umani (uomini e donne) petulanti e chiassosi, che sanno solo di sé e di sé solo parlano. Costoro firmano patti che violano sistematicamente, dichiarano decisioni irrevocabili che smentiscono il giorno stesso, lanciano sfide da cui si ritirano, invadono e trucidano ogni volta che hanno la certezza di avere a disposizione un’enorme superiorità fisica e materiale, il che non li tutela dal finire molte volte sconfitti o in ritirata, quando i popoli si organizzano e resistono. Sono individui senza onore. Lo sono perché non coltivano alcuna speranza né utopia ma sono disperati e distopici: ritengono che la storia nasca e finisca con il loro piccolo transito ed è per questo che essa non può per loro avere un senso che li trascenda, che sia più grande del loro progetto di dominio. Chi crede che la storia – con tutti i suoi orrori – non sia comunque attraversata da una irriducibile speranza e volontà, che non vi sia in essa la potenza dell’impegno di milioni di individui non disposti a essere schiavi, non può avere onore, lealtà, coraggio. Vivrà solo della paura che può suscitare e di quella che egli stesso prova, a ogni passo.
Chi ha fiducia nel tempo storico rifiuta passaggi aerei per fuggire e piuttosto chiede mezzi per difendersi, sacrifica l’orgoglio per non danneggiare il suo popolo, richiama i fatti e chiede giustizia, chiede terra, autogoverno e legittimità. In tutti i tempi, ciò che ha portato a vere trasformazioni si è fondato su un’apertura di senso possibile, sulla capacità di dare forma e figura a ciò che nasce con il desiderio di una vita buona.
La speranza, dunque. E come suo complemento, l’utopia. Non è un caso che, nell’opera di Ernst Bloch, Il principio speranza (1954-1959) sia stato preceduto da Spirito dell’utopia (1918). Ed è semplicemente naturale che l’opera maggiore dedichi più di cento pagine alla storia del concetto di utopia, da Thomas More a Marx. Per Bloch, speranza è appunto energia positiva e impulso ad agire verso un «meglio» che può essere vago e indistinto ma è scritto nel senso di giustizia, nell’esigenza di cambiamento da parte degli oppressi, nelle idee semplici e persino confuse di emancipazione e di eguaglianza. È un potere costruttivo e proprio degli umani, è di fatto la presenza del futuro nel presente, l’unico modo in cui tale presenza conferisce valore alla prassi. La speranza è dell’invisibile, ma – come avverte Marx – non si nutre del nulla né della mera fantasia: perché si radica precisamente nelle tensioni irrisolte e nelle contraddizioni del reale. Oltre Bloch, sarà soprattutto Marcuse ad assegnare all’immaginazione il ruolo politico di organo del futuro, proprio perché il materiale dell’immaginazione è precisamente la realtà, la condizione umana, l’oppressione e lo sfruttamento che – dialetticamente – suggeriscono il loro contrario, la loro negazione, il riscatto e la liberazione.
Né Bloch né Marcuse separano mai la speranza dall’utopia. Quest’ultima non ha il carattere dell’energia e del potenziale, bensì ha la forma mediata del progetto o, più precisamente, di una visione che sfida sé stessa a provare a proiettarsi in una realtà alternativa, a viverci almeno cinque anni come fece Raffaele Itlodeo (il viaggiatore misterioso dell’utopia di More), a immaginare appunto con cura dei dettagli non solo i tratti desiderabili di un mondo diverso ma anche le sue bizzarrie, i suoi difetti, persino i pericoli che esso comporta. Nessuna utopia seriamente sviluppata è un mero libro dei sogni. Utopia, fin dalla sua prima figura, è un esperimento mentale non privo di realismo, che opera con esseri umani finiti e non particolarmente virtuosi né potenti. A differenza del progetto teocratico di Campanella e di quello tecnocratico di Bacone, l’utopia umanistica di More non prevede il superamento di tutti i limiti o l’armonia definitiva. È piuttosto una repubblica autogovernata, fiera della propria libertà, pronta a difendersi da possibili conquistatori e organizzata intorno a una piena collaborazione e solidarietà interna – cosa senza la quale in realtà nessuno Stato può durare a lungo. E in Bloch proprio l’utopia costituisce l’elemento concreto della speranza, il tracciato urbanistico, istituzionale, politico e culturale di una possibile alternativa. È un’immagine visibile, che per questo spesso diviene narrativa e grafica, rischiando di essere interpretata come il disegno di una «città ideale». Cosa che non è, perché l’utopia ha due caratteri essenziali. Essa è da un lato un esperimento che mette alla prova le idee di cambiamento e di organizzazione sociale – ciò che nel suo svolgimento immaginario mostra lati inaccettabili va scartato, è oggetto di ironia e di cautela. Dall’altro lato, essa è niente altro che lo specchio rovesciato delle contraddizioni del presente, che va per questo analizzato nel profondo, fino a individuare le vere radici della sua ingiustizia e le cause prossime e remote dell’oppressione. Solo da questa analisi realistica, in un certo senso addirittura «scientifica», si può formare il disegno utopico, che per questa ragione è sempre contingente, locale, ossia derivato proprio dal tempo e luogo in cui è scritto, come sua negazione. Alle contraddizioni di un certo assetto storico corrisponde l’utopia costituita dal rovesciamento di quelle contraddizioni, non di tutte le contraddizioni della storia.
Marcuse ha sottolineato, proprio nel Saggio sulla liberazione del 1969, che quando le forze storiche convergono verso la formazione di un autentico potere di cambiamento, solo allora l’utopia cessa di essere «antistorica» e diviene una reale possibilità. Il non-luogo che è anche il buon-luogo è bensì oggetto di speranza, ma finché questa rimane priva del potere dei popoli, non sostenuta dalla capacità degli individui di agire insieme, nessuna trasformazione può avvenire. E dove le forze storiche si addensano intorno a piccoli uomini, individui senza coraggio, senza onore e senza speranza, lì vi è un abisso della storia. Dove le masse sono solo masse e trattate come tali, ossia come corpi indistinti inclini soltanto alla «ribellione» – come lamentava Ortega y Gasset – non vi è potenziale di emancipazione.
Speranza e utopia insieme, dunque, guidano il cambiamento. E sono la fonte dell’onore degli eroi, perché questi ultimi guardano al potenziale umano per la giustizia e non a sé stessi, alla lealtà e al coraggio richiesti per essere fattori di unità e costruzione, piuttosto che di divisione e discriminazione. Gli eroi esercitano anzitutto il rispetto di sé e dell’umano, si guadagnano la dignità negata, in mille modi: sedendo nei posti vietati degli autobus, attraversando un ponte in uno Stato ostile per ottenere il diritto di voto, sfilando nelle piazze contro governi eterodiretti, denunciando la corruzione e l’arbitrio. Movimenti di tal fatta sono speranzosi e utopici, non perché abbiano un’idea chiara e distinta di ciò che si dovrebbe fare, di ciò che è perfettamente giusto e conchiuso, ma proprio perché intercettano l’energia profonda della speranza, l’immaginazione narrativa dell’utopia, il coraggio di preferire la libertà alla sicurezza. Quest’ultima è il grande inganno di ogni regime totalitario.
L’autoritarismo, che del totalitarismo è la naturale premessa, vive precisamente della mancanza di speranza o, più precisamente, della sostituzione della speranza con l’illusione, dell’abbandono di ogni utopia solidale a favore di progetti tecnocratici che sono sempre solo per pochi «fortunati». Il grande inganno, qui, è la falsa promessa di includere interi popoli in quei pochi, è il gioco manipolatorio di far credere che, se vinceranno i pochi, i molti ne trarranno vantaggio, ovviamente a danno di chi si è deciso di escludere. Va da sé che i pochi non hanno alcun interesse a «elevare» i molti. E che il gioco illusionistico che fa leva sulla disperazione è, in realtà, nient’altro che una feroce distopia.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Endoxa marzo 2025 Roberto Mordacci Speranza
