SPES CONTRA SPEM

CARMELO VIGNA

0. Il titolo vorrebbe indicare la difficoltà di sperare nei tempi bui in cui oggi ci tocca di vivere. Ragionerò, comunque, solo dell’umana speranza. En philosophe. Nulla qui intendo dire della speranza cristiana, che è virtù teologale (per il credente), cioè virtù infusa (al pari della fede e della carità). Come si sa, la speranza cristiana non è una virtù che noi si possa “costruire” con qualche forma di addestramento ad un habitus relativo; è piuttosto una virtù di cui si può solo invocare il dono dall’Alto…

1. La nota espressione “Spes contra spem” (speranza contro ogni possibile speranza), ricavata dalla Lettera ai Romani di S. Paolo (14,18) e riferita alla straordinaria fede di Abramo, da Dio chiamato a esser padre del popolo dei credenti, dice da subito che la speranza implica, appunto, una qualche forma di fede. Chi spera in qualcosa, in effetti, ha fede nell’accadere futuro di ciò in cui spera. Spera, in generale, in un futuro migliore, quale che esso sia. Se, invece, del futuro uno ha paura, del futuro uno piuttosto dispera. Ebbene, del futuro tutti o quasi tutti di questi tempi abbiamo paura. Sembra proprio lontano l’entusiasmo con cui leggevamo Il principio speranza (1954) di Ernst Bloch. Certo, Bloch voleva assorbire allora la speranza cristiana in quella di tipo marxiano (cfr. il suo Ateismo nel cristianesimo, 1968), ma tanti, e da ogni parte e in tanti modi, facevamo professione di speranza. Ci si sfidava, ma, appunto, a colpi di speranza. Ebbene, questo tempo sembra proprio tramontato. Noi non abbiamo quasi più speranza. Abbiamo piuttosto molta paura, paura per il futuro della Terra. E se qualche speranza ancora affiora presso qualcuno, sembra affiorare, in versione “laica”, come una speranza che un po’ somiglia a quella paradossale di Abramo: spes contra spem.

2. Prenderei simbolicamente il crollo del muro di Berlino, cioè il 1989, come indicatore della “svolta”. Con il crollo di quel muro, infatti, sembrano crollate definitivamente anche le speranze poste nelle “grandi narrazioni”. L’ultima di queste “grandi narrazioni”, cioè il marxismo, si rivelava, attraverso quell’evento, una opaca e sanguinosa vicenda, storicamente da archiviare. Per via di una sconfitta netta e inappellabile. L’Occidente capitalistico, rimasto vincitore, non sembrò tuttavia molto contento. Era finita, sì, la grande paura generata dalla guerra fredda, ma ora cominciava un’altra paura: quella di dover far fronte non solo all’Africa affamata e all’America latina boccheggiante, ma anche a tutti i Paesi dell’Est europeo, stremati da una economia largamente fallimentare. Per non dire di alcuni popoli del lontano Oriente, immersi da secoli nella miseria più nera.

3. Questa paura si è ora in certo modo anche materializzata nelle migrazioni. Milioni di diseredati bussano alla porta di casa nostra e ci chiedono di condividere in qualche modo il benessere di cui ancora noi in Occidente godiamo. È vero che noi finiamo per dar loro solo le briciole, ma anche le briciole per ora a loro andrebbero bene. Solo che loro sono tanti e, appunto, ci fanno paura. E, invece di coltivare la speranza delle “magnifiche sorti e progressive”, ci troviamo a constatare che anche noi stiamo diventando più poveri. I nostri giovani spesso non hanno più davanti agli occhi una storia possibile di promozione sociale. Anzi, fanno molta fatica a stare in pari con lo standard di vita dei genitori. Il futuro è diventato piuttosto buio. La Terra è in pericolo. Crescono persino le minacce di una possibile apocalisse atomica.

4. E non c’è solo il buio della vita “materiale”. Si legge spesso che il crollo delle “grandi narrazioni” ha lasciato in giro solo frammenti di senso, che nessuno osa più decifrare. Il buio della vita materiale pare così trasferito anche nella vita dello spirito ed è diventato proclamazione dell’insensatezza delle cose che in qualche modo pur viviamo e dell’impossibilità di una strategia, non soltanto quanto al bene comune, ma anche quanto alla singola esistenza. La pervasività di questo tipo di sentire pare diffondersi presso la nuova generazione. Siamo tutti un po’ come sopraffatti della complessità della sfida. Accusiamo una certa radicale impotenza rispetto al peso del mondo. Siamo per lo più disperati.

5. A me pare che oggi vi siano due tipi di disperazione: la disperazione di quelli che temono di perdere quanto hanno già accumulato, cioè la disperazione del mondo occidentale industrialmente avanzato, e la disperazione di quelli che hanno avuto molto poco o non hanno mai avuto niente da madre natura e che vorrebbero partecipare alla fruizione dei beni della terra. Come non pensare che proprio queste due forme di disperazione stanno forse all’origine di una diffidenza reciproca oggi molto diffusa? Ci riflettiamo di solito troppo poco. Dovremmo, invece, un po’ di più tentare di capire che succede, quando viene meno l’orizzonte della speranza. Quando viene meno la speranza, forse non accade solo che si abbia paura del futuro; forse accade qualcosa di ancor più grave: accade pure che si cominci ad aver paura essenziale dell’altro uomo. Anche perché potrebbe impadronirsi delle cose nostre.

6. Ma conviene ora alzare un po’ il tiro, se si vuole scrutare il fondo del senso della nostra attuale e prevalente disperazione. Conviene alzare il tiro, chiedendo aiuto alla “filosofia prima” – così una volta si chiamava (Aristotele: andrebbe bene anche il nome di “ontologia” o anche di “metafisica”, come è noto) l’indagine capace di attingere il fondamento d’ogni nostra comprensione delle cose. Solo la “filosofia prima”, infatti, è in grado di ragionare con rigore sul senso dell’Intero o sull’Intero del senso. E questo è pur sempre utile interrogare, anche se la “filosofia prima” sembra oggi ai più un sapere passato di moda.

7. Lyotard quasi una cinquantina d’anni fa (cfr. La condizione postmoderna, 1979) constatava il tramonto della “filosofia prima”, quando scriveva della perdita del senso dell’Intero o dell’Intero del senso. Egli sosteneva, infatti, che erano tramontati i “grandi racconti”. E intendeva indicare, con questa espressione, tutte le forme di sapere secondo totalità. Dietro la scelta linguistica di Lyotard c’era, in realtà, una precisa convinzione epistemologica. Egli riteneva che il sapere umano fosse solo una narrazione storica, e comunque un sapere sempre congetturale o convenzionale. E poiché il sapere congetturale era per lui quello delle scienze esatte, che si occupano di una parte determinata del mondo, le altre forme di sapere, che si volgono al senso dell’Intero, erano da lui necessariamente ricondotte alla narrazione o al racconto. Mancava in Lyotard qualsiasi convinzione intorno alla possibilità di un altro tipo di sapere: del sapere stabile (quello che i greci chiamavano episteme e i latini scientia), sapere cui ha mirato, da sempre e in ultima istanza, ogni “filosofia prima” degna di questo nome.

8. Oggi tutto questo viene, comunque, ancora riproposto; viene riproposto, ad es., quando si dice e si scrive che questo nostro tempo è il tempo della “post-verità”. Meglio allora, verrebbe da ribattere, almeno stare alla narrazione o al racconto di Lyotard… Quando si indica il senso delle cose, la narrazione (o il racconto) pare ancora preferibile al parlare di “post-verità”, perché almeno viene allo scoperto l’importanza della temporalità, come orizzonte originario degli umani. Ma della temporalità, è crollata, nella seconda metà del ‘900, la capacità o la possibilità di raccogliere il senso del tempo in totalità. Quando, infatti, noi raccontiamo una storia, tentiamo, attraverso il racconto, di dare un senso compiuto ai momenti che si sono avvicendati in quel periodo. Ebbene, la perdita del senso del racconto è simbolicamente proprio la perdita del senso del tempo. Uno si trova nel tempo, si guarda attorno e non capisce dov’è, perché non coglie l’unità del contesto narrativo. Eppure, ogni nostro gesto e ogni nostra parola è dettata dalla pulsione a unificare il senso. La coscienza è, di suo, questo centro unificatore trascendentale. La nostra “pulsione” a unificare è qualcosa che compare non soltanto nel racconto; compare in qualche modo anche nella scienza, compare nell’arte, compare in tutte le forme della cultura e compare certo nelle forme della pratica. Ma il luogo simbolico in cui la pulsione ad unificare abita da regina è, in realtà, la “filosofia prima”, secondo che si è appena anticipato.

9. Ebbene, se questo desiderio di sapere secondo l’Intero del senso è frustrato, ed è frustrato se non si intravede il senso dell’Intero come fondamento (e come fine), se la “filosofia prima” viene congedata, non si può avere in vista neppure qualcosa come un compito comune. Perché solo il senso dell’Intero contiene ciò che tutti ci accomuna. Ora, il compito comune è da sempre custodito dalla politica. Per questo, forse, oggi la politica si contrae nella discussione – ad esempio – di una semplice finanziaria; cioè, diventa semplice ingegneria economica. Oppure: per questo il diritto si contrae nel formalismo, convinto di poter trovare regole condivisibili rispetto alle molteplici convinzioni di una comunità multietnica. Oppure: per questo, forse, il potere, ovunque, tenta di travestirsi in una sorta di vigile urbano, che avverte solo di permessi e divieti convenzionali. Rispettati i quali, ognuno, per il resto, può fare quello che vuole.

10. Questa contrazione di strategia della coscienza contemporanea, cioè la contrazione di visione del senso dell’Intero è lo stesso che la contrazione della speranza. Che porta subito con sé la mancanza di coraggio. Questa implicazione di coraggio e speranza è importante.  Perciò mi ci soffermo un poco. Ebbene, per capire questa implicazione, la “filosofia prima”, ancora una volta meglio d’altre forme di sapere, può fungere da cartina di tornasole. È proprio una certa (autocontraddittoria) “filosofia prima” (la “filosofia della finitezza”, nelle sue varie forme), infatti, che in Occidente ha teorizzato l’impossibilità di fuoriuscire dalla frammentarietà e di accedere in un modo qualsiasi al sapere del senso dell’Intero. La conseguenza inevitabile di questa convinzione si è fatta sentire in modo sempre più radicale. Ma stare nel solo frammento significa paralizzare la coscienza, perché la coscienza è essenzialmente facoltà di giudicare – in senso trascendentale. Ora, non poter così giudicare intorno alle cose, mentre le si vive, è lo stesso che essere “invasi” da quello che accade. In effetti, le coscienze tendono a diventare oggi, sempre più, coscienze “invase”, coscienze “passive”, coscienze “senza coraggio”. Può essere un piccolo esempio, ma eloquente per noi, quello che si vede in TV con sempre maggiore frequenza. A differenza degli anni del secolo scorso, quando si proponevano ancora messaggi valoriali comuni, sceneggiando, poniamo, I Promessi Sposi, oggi si rinuncia ad offrire qualsiasi indicazione di tal fatta. Semplicemente, la TV prende lo spettatore, lo fa salire sul palcoscenico, e lo fa diventare protagonista d’una pièce improvvisata, destrutturata, e direi quasi insensata. L’insensatezza dell’esterno invade così l’interno, e il risultato è anche una TV ‘invasa’ (v. la cosiddetta “TV spazzatura”).

11. Perché non riusciamo più a unificare, smarrendo così per via la speranza? Forse e di nuovo, perché abbiamo paura dello stesso unificare. E con qualche ragione. Siamo, a mio avviso, eredi di un modo sbagliato di intendere l’impulso a (trascendentalmente) unificare, che pure è tipico della coscienza, come ho appena detto. Siamo, in questo, eredi in certo modo dei moderni, e per… troppo di vigore! È stata la modernità, infatti, a metterci su questa falsa strada con i suoi grandi sistemi filosofici. Certo, anche il Medioevo aveva costruito grandi sistemi; ma è stata la modernità, con il suo razionalismo assoluto, a perdere il senso del limite d’ogni progetto sintetico e ad unificare secondo schemi astratti, che hanno mortificato le differenze. Il filosofo più potente dell’unificazione astratta della modernità è stato forse Hegel, quando voleva dare di fondo deduttivamente all’intero del sapere, quasi che si potesse veramente capire lo scenario del mondo, collocandone ogni elemento in un insieme totalmente manifesto, come in un puzzle riuscito (dove si può conoscere tanto l’intera configurazione del contesto quanto il senso determinato di ogni tessera). Fuor di metafora: dove si può possedere una filosofia della storia come sapere categoriale assoluto della totalità.

12. Una volta (cioè prima della modernità) non si unificava così. Si unificava prendendo a compito non l’esaustione del sapere, bensì la radicazione nei principi del sapere. Quando si aveva a che fare con un problema, tentativo continuo era quello di capire che cosa, dal punto di vista dei grandi principi, se ne potesse pensare. Non c’era bisogno di attendere una (impossibile) ricostruzione completa del campo della verità. Si badava, piuttosto, a recensire gli aspetti molteplici della fattualità storica e li si interpretava, più o meno felicemente, traendo ispirazione da una direzione di senso che valeva come una sorta di stella polare. Perciò, una volta si poteva sperare, con ogni probabilità, in modo più umano. La modernità aveva, invece, fortemente dilatato il senso dell’attività della coscienza fino ad attribuirle cifre che erano proprie del divino (la coscienza era stata proclamata creatrice di senso…).  E la speranza era fondamentalmente quella di poter mettere in pari la propria esperienza storica con le esigenze regolative dei principi (Marx).

13. Io credo che si possa e si debba riprendere da capo la questione, abbandonando la pretesa della parità di storia e logos. Il finito non può diventare infinito per semplice incremento. E io credo che si debba guardare, innanzi tutto, dalla parte della progettazione di una buona qualità della relazione tra gli umani (come al principio di tutti i principi). Un buon rapporto con la natura e con il mondo ambiente dipende, infatti, da un buon rapporto tra noi.

14. Perché, allora, non prendere atto di questo limite, e perché non cominciare a pensare ad un rimedio, proprio rovesciando la paura dell’altro uomo in speranza nell’altro uomo? Dovrebbe essere questo il nuovo nome della speranza. E cioè, la nuova speranza dovrebbe farsi paladina di una fratellanza universale corredata da una gestione globale secondo giustizia delle risorse disponibili.[1] Siamo diventati globali nella vita materiale (comunicazioni, intelligenza artificiale, economia, turismo, sport ecc.), ma non siamo per nulla globali nella distribuzione e nella fruizione delle risorse. E soprattutto nella qualità e nella distribuzione delle relazioni tra noi. In particolare, ricordando, a partire dalla rivoluzione francese, che libertà ed eguaglianza senza la fraternità sono cifre simboliche quasi inutili.

15. Più determinatamente. Per eseguire questo compito epocale, tre grandi e antiche regole dovremmo, da subito, rimettere in grande onore, perché nulla hanno perduto d’importanza nel tempo. Anzitutto, bisognerebbe rispettare il neminem laedere. Una massima facilmente comprensibile, del resto, anche perché può essere ricondotta alla cosiddetta “regola aurea” (“non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”; oppure, in versione positiva: “fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”: di questa indicazione, universalmente conosciuta sin dai tempi più antichi, come si sa, è sostanziato l’appello del pontificato di Papa Francesco nella sua lettera enciclica Fratres omnes (2020). Difficile non convenire – da parte di tutte le persone che hanno a cuore il futuro della nostra umanità (Mi permetto di rimandare in proposito al libro La regola d’oro come etica universale, a cura del sottoscritto e di Susy Zanardo, edito da Vita e Pensiero, 2005), universalmente conosciuta sin dai tempi più antichi. Poi dovrebbe seguire l’honeste vivere, cioè il condurre una vita personale improntata alla saggezza, e dunque degna di onore. Infine, si dovrebbe unicuique suum tribuere, realizzando così il senso della giustizia commutativa e della giustizia distributiva, di veneranda tradizione.

16. Queste tre regole basterebbero a istituire, in generale, l’area della “giustizia”. Ma non basta la giustizia, a mio avviso, perché si possano avere, davvero, “buone” relazioni tra gli uomini. Bisogna giungere, per averle, sino all’“amicizia politica”. Che è altra cosa dell’idea di “giustizia”. Ne sporge, infatti. Dove c’è amicizia, c’è già giustizia, mentre dove c’è giustizia, non è necessario che vi sia anche amicizia. La giustizia, in effetti, garantisce il rispetto dell’altro uomo, ma solo l’amicizia procede in avanti, e giunge sino far vivere la vita umana come un “essere per altri”. Cioè sino a far vivere la vita umana secondo una nuova speranza.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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