AZIONI DISARMANTI

ALBERTO KOSTORIS

“La pace sia con tutti voi. Una pace disarmata, una pace disarmante. Umile e perseverante”

Queste sono state le prime parole pronunciate dal nuovo Papa Leone XIV quando si è affacciato per la prima volta dal balcone di San Pietro.

Da qui vorrei partire per parlare di vendetta e riconciliazione che è l’oggetto di questo mio breve scritto.

Fare la guerra è facile, è fare la pace che è difficile.

Per chi abita la splendida terra (una volta) di confine dove io vivo, Trieste, è un fatto tristemente noto.

Sono passati 80 anni dalla fine del seconda guerra mondiale con i lutti terribili che si è portata appresso.

Campi di concentramento di qua e di là e di là del confine, deportazioni di massa, gasazioni di civili, esecuzioni sommarie, foibe.

Qui ogni famiglia può annoverare tra i propri avi una o più vittime dell’odio, della sopraffazione, dei nazionalismi.

E non è questa le sede per ricordare che per quanto un certo revisionismo degli ultimi anni tenda ad equiparare i morti dell’una e dell’altra parte, la storia ci dice che una parte era quella giusta ed una quella sbagliata.

E la storia non si manipola.

Non c’è dubbio poi che non tutti i buoni erano buoni e non tutti i cattivi erano cattivi.

Anche per questo non si deve dimenticare che le responsabilità penali non sono mai collettive, ma individuali.

Ma appunto non era di questo che volevo parlare.

Volevo parlare del fatto che a distanza di 80 anni gli odi reciproci non sono affatto del tutto sopiti.

D’altro canto ne sono ancora in vita pochi ma ce ne sono di coloro che portano sulla pelle i segni di quegli odi che li hanno vissuti in prima persona e tanti che sono figli e nipoti dei primi.

Certi odi e certe sofferenze particolarmente intensi io credo che si tramandino, prima ancora che per i racconti di ciò che fu, quasi tramite DNA, quasi fosse una questione di pelle.

Mio padre, ebreo, dopo l’8 settembre, all’età di dieci anni scappò con la sua famiglia (suo padre, sua madre e suo fratello di sette anni) da Trieste per scendere verso Roma che stava per essere liberata dagli alleati.

Nel lungo viaggio che comportò anche l’attraversamento del fronte che stava risalendo da sud verso nord una notte la mia famiglia si nascose nei boschi di Montecatini per sfuggire ad una retata dei fascisti il cui buon fine aveva un nome: Auschwitz.

Per fortuna andò bene e i miei raggiunsero poi sani e salvi Roma liberata.

Ma quello che passò mio padre (pur essendo molto poco rispetto a ciò che passarono tanti altri sopravvissuti ai campi di concentramento) non riuscì a dimenticarlo per il resto della della sua esistenza pur non avendone mai parlato a nessuno in vita.

Io infatti venni a conoscenza di queste vicende da mio zio pochi anni fa, molti anni dopo la morte di mio padre.

E non averne parlato è un tratto alquanto comune e diffuso tra i sopravvissuti alla shoah.

O almeno lo è stato per svariati decenni.

Liliana Segre è diventata una famosa testimonial (oggi si usa questo termine che suona sgradevole se riferito a quei fatti) della shoah appena a partire dalla fine degli anni ’90.

Mi sono spesso domandato da cosa fosse dipesa questa ritrosia a ricordare quei tempi (ed oggi che la memoria sta progressivamente scomparendo ci rendiamo conto di quanto sarebbe stato utile.

I motivi sono molteplici e non tutti nobili.

Vi era un generale bisogno di dimenticare, di riprendersi la vita per chi l’aveva avuta salva.

Troppi orrori, troppe carneficine di innocenti.

Si trattava alla fine di ricominciare a convivere tra aguzzini e vittime e non era di certo facile.

Ma questo era indubbiamente il mood negli anni ’50 in Italia.

Liliana Segre sul punto disse: «Era molto difficile per i miei parenti convivere con un animale ferito come ero io: una ragazzina reduce dall’inferno, dalla quale si pretendeva docilità e rassegnazione. Imparai ben presto a tenere per me i miei ricordi tragici e la mia profonda tristezza. Nessuno mi capiva, ero io che dovevo adeguarmi ad un mondo che voleva dimenticare gli eventi dolorosi appena passati, che voleva ricominciare, avido di divertimenti e spensieratezza.»

E poi non dimentichiamo che tanti, tantissimi criminali fascisti non solo vissero liberi senza subire alcun processo (in buona parte grazie all’amnistia Togliatti) ma tanti mantennero i propri ruoli istituzionali passando come nulla fosse dalla RSI allo Repubblica Italiana antifascista.

E parlo di prefetti, questori, alte cariche dello Stato, politici, professori, avvocati, giudici, dotti medici e sapienti.

Un esempio illuminante è Gaetano Azzariti (Napoli, 26 marzo 1881 – Roma, 5 gennaio 1961) giurista e politico italiano, fu presidente della Commissione sulla razza (!) durante il regime fascista, ministro di Grazia e Giustizia nel primo governo Badoglio, collaboratore del Ministro Togliatti da giugno 1945 a luglio 1946 e poi presidente della Corte costituzionale (nominato dal Presidente Gronchi) dal 1957 e fino alla sua morte a 80 anni (!!!).

Ma accanto a questi motivi ignobili che indussero i sopravvissuti al silenzio ce ne furono anche di nobili e così torno al tema stretto di questo mio scritto.

Dolore, vergogna e desiderio di protezione.

I nostri avi non riuscirono per tanti anni e molti per sempre a parlare di quanto loro accaduto perché era troppo doloroso.

Taluni di quelli che lo fecero ripiombarono nell’orrore e si ritrovarono idealmente ad Auschwitz.

L’esempio più chiaro di questo sentiment ce lo diede l’immenso Primo Levi tra i primi a raccontare quanto gli accadde. Se questo è un uomo, La Tregua sono capolavori della letteratura. Il peso della testimonianza portò però Primo Levi a non essere più in grado di sopportare il peso della vita. Si suicidò a Torino l’11 aprile 1987 gettandosi dalle scale del palazzo dove viveva.

La vergogna.

Molti sopravvissuti (ne ha parlato più volte Sami Modiano che per anni ha accompagnato gli studenti a visitare i campi di sterminio) si sono portati addosso il senso pesante di vergogna per essere sopravvissuti a differenza dei propri genitori, fratelli, sorelle, parenti.

Primo Levi ne I sommersi e i salvati, un altro suo capolavoro, scrive: “Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegna i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli, e che nessuno di loro si sia mascherato o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?), non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte…), non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere”. E’ un sospetto che rode, e continua a rodere nel tempo. Così come sembra inevitabile convincersi che nel Lager “sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti: i migliori sono morti tutti”. Come non provare vergogna?

Ed infine il desiderio di protezione.

I nostri nonni i nostri genitori hanno pensato di non raccontarci ciò che accadde per preservarci dal dolore della conoscenza.

Fu un tentativo tanto commovente, quanto puerile, quanto destinato al fallimento.

La storia è lì come un enorme pietra e non è possibile non vederla, anche decidendo di guardare solo avanti.

Eppure tra tutti coloro che vissero quei tempi, ed entriamo nel fulcro del mio ragionamento, ben pochi hanno consentito all’odio di prevalere sulla semplice memoria.

E ne avrebbero avuti tanti di validi motivi.

Loro sono stati capaci quanto meno di marcare la differenza con gli aguzzini.

Sempre Liliana Segre in uno dei suoi libri ricorda un episodio avvenuto durante la lunga marcia.

Era il 1945 e le truppe russe avanzano solerti vero ovest.

I tedeschi nella loro lucida follia non abbandonarono sic et simpliciter i campi di sterminio che si trovavano principalmente in Polonia ma decisero di trasferire i deportati che non erano ancora riusciti a gasare e passare per il camino verso Berlino, per completare l’opera in un momento successivo.

Questo esodo è passato alla storia come “La marcia della morte”

Ebbene Liliana Segre la percorse questa marcia e in un suo libro ci racconta un episodio che trovo illuminate.

Liliana aveva 15 anni, era internata ad Auschwitz da due. Vi aveva perso il padre non appena arrivata.

Stava marciando da settimane in direzione ovest sotto stretto controllo delle SS.

Un giorno quando i russi stavano per piombare sulla sua colonna in marcia, le SS decisero di fuggire abbandonando divise e armi per meglio mischiarsi tra i civili.

Stava per tornare libera.

Si trovava in una stanza con un capitano delle SS che stava cambiandosi di abito ed aveva appena abbandonato la Luger, la pistola in dotazione all’epoca.

Liliana si trovò con la pistola ad un passo, poteva prenderla e comodamente far fuori il suo aguzzino.

Ebbe la forte tentazione di farlo pensò e si disse: “no, io non sono come loro” e rinunciò all’intento.

Ecco questa frase a mio avviso dice tutto.

La vendetta per un torto subito ci pone sullo stesso piano dell’offensore e ci condanna alla sua stessa pena.

Non giuridicamente magari (il vendicatore gode di una serie di attenuanti che non spettano all’offensore), ma certo con il ben più importante giudizio che ciascuno di noi deve a se stesso.

Essere consapevoli o meno di questo giudizio cambia poco o nulla.

Consciamente o inconsciamente ciascuno di noi giudica se stesso, e si infligge la pena per i propri sbagli.

E state attenti che noi non siamo affatto giudici compiacenti di noi stessi ma anzi, molto severi, molto più di quanto lo siamo nei confronti del nostro prossimo.

No, dunque, la vendetta non è mai una buona strada.

E se non lo è nei confronti di chi ha commesso i crimini più orrendi non potrà certo esserlo per chi ha generato dei torti meno gravi.

Certo per resistere all’istinto della vendetta “purificatrice” ci vuole una forza ben maggiore di quella di lasciarsi andare ad esso e non tutti ce l’hanno.

Pensate alla figura del signor Gino Cecchettin che si è ritrovato una figlia ammazzata con un numero impressionante di coltellate da chi diceva di amarla.

Se avete seguito questa vicenda sui media non potete non aver notato la pacatezza di quell’uomo così duramente colpito; mai è uscita dalla sua bocca una parola di odio verso l’assassino pur nelle ferma volontà che lo stesso subisse una giusta pena.

In un mondo, specie quello social, dove prevalgono i forcaioli assetati di sangue (più a parole invero che in realtà, il povero Cecchettin ha dovuto persino subire pesanti critiche (così definiamo la porcherie che sono state scritto contro quel pover’uomo e la sua famiglia) per questo suo approccio “umano” da chi non contempla la pietà tra le possibili reazioni dell’uomo.

Ma non tutti sono forti come Gino Cecchettin o come Liliana Segre, ne sono consapevole.

E non tutti quindi possono perdonare e tanto meno quindi è possibile la riconciliazione.

Ma non solo.

Perdono e riconciliazione non sono sinonimi.

Il perdono è un atto interiore, io perdono te perché fa bene a me.

Assomiglia molto al concetto di lasciare andare il male molto praticato nelle religioni orientali.

Il male subito è un peso che grava sulle nostre spalle e rallenta il nostro cammino come uno zaino pieno di pesanti pensieri.

Lasciarli andare significa avere la capacità di camminare oltre, e assomiglia dunque al perdono (ma forse più all’oblio), ma è di certo ben diverso dalla riconciliazione che è invece un atto esteriore, utile magari ma non necessario.

Vi sono situazioni che non permettono la riconciliazione; certe ferite inferte non sono sanabili, certi tradimenti della fiducia impediscono la ricostruzione di un sano rapporto. Perché la riconciliazione questo sta ad intendere secondo me: ripartiamo insieme.

No, talvolta preferisco ripartire da solo; ti ho perdonato, ti ho lasciato andare questo è il massimo che posso e voglio fare.

DIRITTO ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA GUERRA

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