IL DIRITTO DI STERMINARE: VENDETTA, GIUSTIZIA E RICONCILIAZIONE IN “L’ATTACCO DEI GIGANTI”

NICOLÁS SALVI

  1. Ci sono storie che non sono fatte per concludersi. Non perché manchi loro un finale, ma perché il loro finale non può redimere ciò che le ha rese possibili. Storie che non ammettono riconciliazione, perché abitate da una logica più corrosiva, più arcaica e, al tempo stesso, profondamente moderna: quella dello sterminio come forma di giustizia.

L’attacco dei giganti (Shingeki no Kyojin, Hajime Isayama, 2009) è una di queste storie. Presentata come serie manga e anime —una delle più viste e discusse degli ultimi anni—, la sua trama può sembrare, all’inizio, una semplice allegoria: un popolo rinchiuso dietro mura gigantesche, un nemico esterno incarnato in creature mostruose chiamate “giganti”, e un giovane protagonista diventato soldato che giura di vendicare sua madre, divorata da una di quelle bestie. Ma questa è solo la superficie.

Man mano che la narrazione avanza, scopriamo che i giganti non sono del tutto estranei, che le mura non proteggono tanto quanto nascondono, e che la vendetta personale di Eren Jaeger —il bambino divenuto soldato— è solo l’eco di una vendetta storica molto più antica, collettiva e tenace. Ciò che sembrava un conflitto tra umanità e mostri si rivela una guerra tra popoli umani e i loro racconti. Ogni fazione rivendica il proprio diritto alla violenza, la propria giustificazione mitica per distruggere l’altro.

Ma ciò che inquieta davvero è che, in quell’universo, il diritto non si presenta come mediazione, bensì come tecnologia narrativa dello sterminio. Non ci sono corti costituzionali, ma dichiarazioni di legittimità. Nessuna riconciliazione è possibile, perché non esiste un racconto condiviso del passato. C’è solo un meccanismo discorsivo che, in nome della storia, della sicurezza o della giustizia, autorizza ancora e ancora l’annientamento del nemico colpevole.

C’è una scena che condensa tutto questo senza pronunciare una sola parola. Un istante sospeso nel tempo, in cui Eren —già divenuto profeta della fine— osserva un bambino in una città straniera. È solo, in alto su una torre, il corpo immobile, il volto già indurito dalla decisione. Giù, il bambino cammina, gioca, respira. Ancora non lo sa, ma quello sarà il suo ultimo pomeriggio. Eren lo sa, ma non fa nulla. Guarda. Si ferma. Per qualche secondo, sembra che qualcosa dentro di lui esiti, o ricordi, o si spezzi. Ma non c’è ritorno.

È un gesto quasi biblico: un dio adolescente che contempla le sue vittime prima di scatenare la fine del mondo. La scena non urla. Non c’è musica epica, né frasi solenni. Solo una calma devastante. Eppure, dice tutto: che il ciclo è ormai chiuso, che la violenza non è più reazione ma progetto, e che la giustizia è stata trasfigurata —in silenzio— in diritto di sterminare.

Quella scena non inaugura nulla. È la culminazione di una lunga catena di traumi, tradimenti, saghe incrociate. Fin dall’inizio la narrazione si articola attorno a una promessa: la vendetta. Una promessa infantile, viscerale, eppure razionalizzata da un intero apparato simbolico. Ciò che in un altro contesto sarebbe un crimine, qui diventa un dovere. Ciò che sarebbe lutto, si trasforma in programma.

A questo punto entra in scena il diritto. Il grande sistema di legittimazione. Come quella forma superiore di vendetta che si traveste da imparzialità, ma agisce come cornice. Il diritto non ferma lo sterminio: lo rende possibile. Gli dà forma, lo ordina, gli attribuisce causa. Non c’è processo o riconciliazione, ma c’è giustificazione.

L’attacco dei giganti non è una metafora del mondo moderno. È il suo sintomo. Nel nostro tempo, dove la riconciliazione sembra solo marketing e la punizione una classica strategia di politica estera, questa storia ci ricorda qualcosa di scomodo: che sotto le nostre impalcature formali pulsa ancora la vecchia tentazione di fare giustizia con il fuoco. Che quando il dolore è storico e collettivo, quando il nemico ha nome di popolo e volto di bambino, il diritto non sceglie sempre di interrompere la catena. Piuttosto, la amministra.

  1. La modernità giuridica si è edificata su una promessa utopica: lo Stato, attraverso il diritto, avrebbe interrotto i cicli della vendetta, sostituendo il lutto perpetuo con il giudizio imparziale, e offrendo — là dove regnava l’odio accumulato — una forma di riparazione istituzionalizzata. Questa promessa si ripete ogni volta che un tribunale proclama che “nessuno è al di sopra della legge”, ogni volta che un sovrano assicura che farà giustizia “senza vendetta”, ogni volta che a una vittima viene chiesto di confidare nel sistema invece di farsi giustizia da sola.

L’attacco dei giganti fa esplodere quel giuramento dall’interno. Non perché neghi la possibilità del diritto, ma perché mostra — con una brutalità chirurgica — come quella forma istituzionale della giustizia possa diventare indistinguibile dalla vendetta, quando è caricata di colpa collettiva storica. Vediamo interi popoli segnati da generazioni di umiliazione, terrore e manipolazione simbolica. Il diritto diventa, così, un dispositivo che amministra lo sterminio sotto le spoglie della giustizia.

Tutto comincia con un racconto ufficiale. Secondo la storia insegnata nelle scuole dell’impero di Marley, il popolo eldiano — capace di trasformarsi in giganti — ha dominato il mondo per secoli, seminando distruzione e soggiogando gli altri. Sconfitti infine dai marleyani, gli eldiani sono stati perseguitati, confinati e additati come portatori di un peccato impossibile da redimere.

La maggior parte di loro vive sotto il rigido controllo statale, rinchiusa in ghetti, costretta a portare braccialetti che ne segnalano l’origine. Perfino i bambini vengono educati a odiarsi, e i più obbedienti sono premiati con la possibilità di trasformarsi in giganti al servizio dell’esercito che li disprezza.

Ma c’è un’eccezione. Generazioni prima, un gruppo di eldiani riuscì a negoziare la fuga verso un’isola remota chiamata Paradis. Lì, dietro tre mura colossali, si sviluppò una società medievale isolata, priva di memoria del proprio passato e di contatto con il mondo esterno. Eren e i suoi amici nascono su quell’isola, convinti che l’umanità si sia estinta e che i giganti che li minacciano siano semplici mostri, non loro compatrioti trasformati.

Il conflitto in L’attacco dei giganti comincia quando quell’ignoranza si spezza. Quando Eren e i suoi scoprono che il mondo non solo esiste oltre le mura, ma li odia. Che non sono gli ultimi esseri umani, bensì il residuo di una guerra mai conclusa.

Ed è allora che emerge la domanda centrale: come si amministra quell’odio? Come si regola la vendetta quando non è più un impulso, ma un progetto istituzionale?

Tutto è regolato. Perfino l’odio. L’apparato giuridico di Marley punisce gli atti, ma soprattutto il sangue. La legge non ferma la violenza, la organizza. La proietta come castigo simbolico, come pedagogia della paura, come tecnologia militare. È un diritto d’ingegneria del terrore.

Eppure, dall’altra parte del mare, le cose non sono poi tanto diverse. Quella che nasce come difesa diventa dottrina. La memoria dell’offesa — la città distrutta, gli amici morti, la madre divorata — si trasforma in programma politico. Quando Eren accede al potere del Gigante Fondatore, ciò che prima era sopravvivenza diventa strategia di sterminio. Una soluzione finale: il Boato della Terra, la marcia di milioni di giganti colossali per annientare il mondo intero tranne Paradis.

Non c’è arbitrarietà in quella decisione. C’è giustificazione. C’è calcolo. C’è discorso. E c’è diritto.

Perché perfino Eren — forse il più lucido esecutore di una vendetta totale — non agisce da assassino solitario, ma da portavoce di una volontà collettiva: quella del popolo eldiano perseguitato per secoli e che ora, finalmente, dice basta. Non si tratta di uccidere per odio, ma di farlo per giustizia. O almeno, così viene ripetuto all’infinito.

Ma quando la giustizia smette di essere tale e diventa la sua parodia? In che momento il ripristino dell’equilibrio diventa giustificazione dell’annientamento?

La distinzione tra giustizia e vendetta — così chiara nei manuali di diritto — diventa porosa, ambigua, scomoda. È giustizia annientare chi ha annientato? È vendetta sterminare i figli di chi un tempo ci ha oppressi? È possibile una riconciliazione senza un racconto comune, senza un linguaggio condiviso sul dolore?

Nel mondo di L’attacco dei giganti vediamo una scena dopo l’altra in cui il diritto si presenta come narratore di guerra. Come quell’apparato che, lontano dal prevenire la catastrofe, la struttura. La legittima. La chiama male necessario. Con un ciclo eterno di dolore che continua.

  1. L’abbiamo già detto: tutto comincia con una promessa personale. Il giovane Eren Jaeger giura di distruggere tutti i giganti dopo aver assistito al massacro di sua madre. Rabbia pura. Ma perfino quella rabbia ha una forma. È una furia che dà forma a una missione. La sua intensità non nega la razionalità; la alimenta. Fin dal primo istante, la storia propone una logica che non abbandonerà mai: il dolore giustifica la distruzione.

Anni dopo, quando Eren compie il suo primo atto di vendetta — uccidendo la gigante che ha divorato sua madre — non lo fa nel vuoto. Lo fa in uniforme, sotto ordini, in nome di un’umanità che, si suppone, deve essere salvata. È parte di un sistema. Quel sistema dà senso alla sua violenza. La trasforma in dovere.

Poi, però, il quadro si spezza. I giganti non sono mostri estranei. Sono esseri umani. Ancora più precisamente: sono eldiani, come lui. Vittime trasformate in armi, usate dall’impero di Marley per mantenere l’egemonia globale. Allora la storia cambia rotta. Quello che sembrava uno scontro tra specie si rivela essere un conflitto tra popoli.

La narrazione di Marley è precisa. Presenta gli eldiani come responsabili storici di un’epoca di orrori. Li chiama “demoni”. Afferma che i loro crimini passati giustificano il loro asservimento presente. Non importa che molti di loro siano nati generazioni dopo. Non importa che non abbiano scelto nulla. La colpa si eredita. La punizione si applica. La storia diventa legge.

Tuttavia, quella narrazione non mira a sterminarli del tutto. Ha bisogno che restino vivi, ma sottomessi. Marley trasforma alcuni in soldati, altri in armi, e tutti in monito: voi siete ciò che noi diciamo che siete. Anche i più leali non sono mai pienamente accettati. C’è sempre un limite, un segno, un muro invisibile che definisce chi può morire e chi può uccidere.

Quando Eren comprende questo, la sua vendetta si espande. Non vuole più uccidere mostri, vuole distruggere il sistema che li produce. Ma lungo il cammino, la sua logica diventa identica a quella che intende abbattere. Dove prima c’era giustizia, ora c’è calcolo genocida.

Il rovesciamento dei ruoli è brutale. Il bambino che ha perso la madre diventa l’adolescente che rade al suolo le città. Le vittime del passato si trasformano nei carnefici del presente. Lo fanno continuando a parlare di giustizia, continuando a invocare il diritto del proprio popolo a vivere. La violenza aggiorna il proprio linguaggio.

I diversi fronti adottano una morale sacrificale. Sull’isola, gli eldiani seguaci di Eren credono che l’unico modo per garantire la propria sopravvivenza sia annientare il nemico. A Marley, la brutalità dello Stato si giustifica in nome di una pace globale che richiede il contenimento di una “razza pericolosa”. Ma anche tra coloro che si ribellano a questa logica emergono proposte estreme.

Zeke, ad esempio, è un eldiano cresciuto a Marley che diventa uno dei giganti più potenti dell’impero. Dalla sua posizione di privilegio militare, elabora in clandestinità un piano ancora più radicale di quelli dei fronti principali: sterilizzare l’intera popolazione eldiana. Niente più nascite, niente più giganti, niente più guerra. Una riconciliazione senza odio, senza rumore, senza futuro.

Zeke non cerca vendetta. Vuole la pace. Ma la sua proposta riproduce la stessa logica che intende combattere: un intero popolo viene ridotto a un problema tecnico. L’esistenza collettiva diventa una minaccia da gestire. Anche qui, il diritto si programma come protocollo biopolitico. La riconciliazione si trasforma in amministrazione della sparizione.

A ogni passo, la serie mostra come le categorie giuridiche si confondano con le narrazioni sacrificali. Si legifera la colpa, si eredita la punizione, si istituzionalizza l’odio. Il diritto non interrompe il ciclo, lo trasforma in procedura. Invece di fermare la vendetta, la formalizza. Invece di riconciliare, calcola.

Non c’è scena in questo anime che non sia attraversata da questa macchina. Ogni decisione strategica è anche una decisione morale. Ogni giustificazione bellica è anche un racconto legale.

E in quel paesaggio devastato, il diritto come promessa moderna — come superamento della violenza, come istanza di riconciliazione — appare come una figura impossibile. Non perché non si provi a realizzarla. Ma perché ogni tentativo viene assorbito da una struttura che ha già deciso che vivere significa distruggere.

  1. La storia finisce — se davvero qualcosa finisce in L’attacco dei giganti — con una promessa mantenuta e un’altra infranta. Eren porta a termine il Boato della Terra: la marcia catastrofica dei giganti colossali che radono al suolo il mondo esterno. Intere città vengono ridotte in polvere, popolazioni intere scompaiono. Non c’è clemenza, non c’è trattativa. Solo la certezza che, altrimenti, saranno loro a essere sterminati.

E tuttavia, lo sterminio non raggiunge il suo obiettivo totale. I vecchi compagni di Eren riescono a fermare questo dio dello sterminio. Lo uccidono. Letteralmente, lo separano dal proprio corpo e così disattivano la macchina apocalittica. Quello che segue non è redenzione, né tantomeno giustizia. È appena una nuova spartizione del silenzio.

La scena finale non offre conforto. Quel che resta sono rovine. Una tomba. Una memoria opaca. Un futuro in cui la violenza, lungi dallo scomparire, cambia forma. L’epilogo mostra come, nonostante il sacrificio e il presunto termine del conflitto, la guerra ritorni. Nuove bandiere, nuovi nemici, nuove rovine sopra quelle precedenti. Come se la riconciliazione non fosse solo impossibile, ma persino irrilevante.

Perché fallisce il diritto? Perché non esiste più un soggetto riconciliabile. I corpi sono troppo danneggiati. Le narrazioni, troppo contraddittorie. Come costruire un linguaggio comune tra chi è stato costretto a divorare i propri genitori, tra chi è cresciuto credendo di essere un demone, tra chi ha giustificato il genocidio come atto d’amore? La parola “pace” viene pronunciata, ma suona vuota. Non esiste istituzione capace di assorbire tale densità di dolore.

Forse il gesto più onesto di questo anime è riconoscere che ci sono storie in cui non c’è redenzione, solo memoria. Che ci sono ferite che non si rimarginano con processi o trattati, perché sono anteriori a qualsiasi forma giuridica. Che a volte il dramma giuridico non arriva per risolvere l’orrore, ma solo per iscriverlo in un fascicolo impossibile, come testimonianza del suo fallimento.

E tuttavia, continuiamo a scrivere. Perché se non c’è giustizia, almeno possono esserci micro-racconti. Micro-racconti che non nascondano la barbarie sotto il linguaggio del diritto. Piccole storie che non travestano la vendetta da riconciliazione, e che abbiano il coraggio di guardare l’abisso senza chiamarlo redenzione.

  1. Anni dopo, tra le rovine di una città ricostruita, un bambino gioca alla guerra. Porta un fazzoletto al collo, disegna giganti per terra, fa esplodere edifici con la voce. Sua madre lo osserva dalla finestra, senza intervenire. Sui muri si leggono ancora i segni dell’ultimo bombardamento: numeri, sigle, referti.

Nessuno si chiede più da che parte stessero i morti. Le statue hanno perso le targhe, le macerie i nomi. Tutto è stato registrato, classificato, archiviato. Il cielo è attraversato da droni che non distinguono se sotto ci sono giochi o barricate.

Il processo è stato breve. Il rapporto, ordinato. Le vittime, innominabili. Il linguaggio, tecnico.

Il diritto, intatto.

ENDOXA - BIMESTRALE Fantascienza LETTERATURA

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