LA RICONCILIAZIONE COME FORMA DELLA CONTRADDIZIONE
DOMENICO BILOTTI
Non sembrano sussistere culture umane nelle quali sia completamente rimosso il sentimento di vendetta. Come che essa sia riguardata, appare un elemento ineliminabile delle relazioni intersoggettive: la vendetta nasce quale impulso individuale, strettamente e talora patologicamente individuale, ma mette inevitabilmente in contatto la posizione di chi si vendica e quella di chi quella vendetta subisce.
La vendetta ha un significato preciso persino nella costruzione di una delle più note teorie politiche della nonviolenza, quella gandhiana. Il politico indiano, prima ancora che definirla come metodo e strumento di lotta, ne fornì una rappresentazione in termini essenzialmente morali. La nonviolenza era, perciò, l’intenzionale conseguenza dell’attitudine a resistere alle sofferenze patite e del contenimento del desiderio di vendetta. L’uno e l’altro presupposto sono però intimamente intrecciati: se si oppone una strenua resistenza alle sofferenze subite, se le si minimizza in intima cordis, l’istinto a vendicarsi sarà minore, potrà essere affrontato senza che si esprima in reazioni avversative.
Se si dovesse azzardare una spiegazione del perché la vendetta sia considerata così necessariamente parte dell’agire umano, tale giustificazione non potrebbe prescindere dalla sua natura essenzialmente retributiva. La vendetta appare, insomma, connotata da due poli irriducibili, che pure la costituiscono. È frutto di un risentimento psichico, tipicamente introspettivo; si concepisce come restituzione di un torto e, cioè, di un’azione ingiusta che ha coinvolto almeno due persone (chi ha messo in opera quella condotta, chi ritiene di averne pagato le conseguenze). La si definisca terribile o insidiosa, opportuna o smodata, dovuta o evitabile, la vendetta non è mai considerata inesistente.
Nel Deuteronomio, addirittura, questo insostituibile verificarsi della vendetta è sottoposto a un termine, quello per definizione necessario e sufficiente: non tarderà ad arrivare. E già se ne evidenzia la sua natura retributiva, il suo collocarsi in un rapporto di debito-credito cui le culture e i linguaggi occidentali hanno sovente associato metafore e similitudini di evidente simbologia patrimonialistica: la riparazione dei torti, il saldare i conti, nella propaganda politica persino il rimettere in pari la Storia.
La natura retributiva della vendetta è stata fondamentale affinché se ne accogliesse la piena giuridicizzazione negli ordinamenti che la prevedevano expressis verbis (basti pensare alla faida tra famiglie o alla restituzione patrimoniale del guidrigildo, nel diritto longobardo). Il sentimento privato della vendetta, per tale via, si innalzava a portatore di un interesse collettivo.
Persino i critici della vendetta – e i più genuini: quelli che la respingono per propria specifica preferenza, e non sulla base di una selezione argomentativa – se ne distanziano, senza mai provare a fissarne il contenuto. Giovenale la confina negli animi abietti, ma sa che c’è. Balzac le oppone nulla più (e nulla meno) di un angosciato spavento.
Un altro elemento consolidato, nelle trattazioni sulla vendetta, è il tentativo di rileggerla rispetto a un sentimento, a un effetto o a una disciplina che le siano radicalmente alternativi. Restando alle ipotesi presentate, perciò, contro la vendetta si reclamano il sentimento del perdono, l’effetto dell’indulgenza o la disciplina (ora intesa come animus, ora intesa come procedura) della riparazione. Nelle considerazioni a seguire, accoglieremo apoditticamente – generalizzando, cioè, ma sapendo dell’inevitabile inesattezza della generalizzazione – quest’ultima ipotesi di oppositio: vendetta vs. riconciliazione. Lo scopo sarà quello di dimostrare che, se tale opposizione è fondata, non lo diventa sul crinale tra buono e cattivo, tra giusto e ingiusto, tra religioso e irreligioso, bensì su quello tra conformismo e contraddizione, tra uniformità e difformità, tra eteronomia ed autonomia. Alla vendetta spetta di chiudere il cerchio (anche quando è una catena). La riconciliazione tiene aperto il finale.
Nel Siracide inizia, ad esempio, a profilarsi una differenza tra la vendetta pubblica e quella privata, ovviamente non nei significati modernamente assegnati a sfera privata e sfera pubblica. Si noti, per inciso, che tale commistione sopravvive nel decantato impianto teologico-giuridico dantesco del contrappasso. Pur suggestiva la punizione dei dannati per il loro più emblematico peccato (e che forse ne abbiano commessi solo di quel tipo?), Dante riconduce alle categorie che crea anche suoi personali nemici. Il Siracide piuttosto dà alla vendetta divina il senso di universalità e ineluttabilità, assegnando a quella umana una connotazione eternamente provvisoria e ribaltabile: Dio si vendicherà di chi si è vendicato; la remissione dei peccati sarà data a chi non ha offerto niente in cambio, se non preghiera e pentimento. La letteratura vetero-testamentaria, tuttavia, non può essere innalzata a modello di riconciliazione, né di critica delle istituzioni retributive della giustizia e della pena. Non giunge mai ad abolirle: quando le nega agli uomini, non arriva a smentire che Dio ne usi.
Perdono e riconciliazione sono stati spesso fraintesi, anche dal diritto, soprattutto quando ha ritenuto il perdono prettamente individuale e la riconciliazione tipicamente intersoggettiva. Testimoni omologhi di questo equivoco sono personaggi che poco avrebbero in comune. Francesco Petrarca ritiene che l’anima, creazione divina, sia ingiunta a perdonare quando le si fa incontro la contrizione autentica; cade, però, in contraddizione (certo feconda) quando definisce il penitente per il suo sembiante umile. Il pentimento è una essenza o una parvenza? Chi ha stabilito, poi, che pentimento e perdono debbano esser sempre conseguenti? Essi sono realmente tali soltanto se accettano il rischio che uno dei due non esista.
Per il neoclassicista Alexander Pope il perdono è prerogativa divina: il genere umano può avvicinarsi a Dio unicamente nel perdonare. Più prosaicamente, l’aforista colombiano Dàvila avvicina l’aver perdonato al disprezzo: si perdona una condotta che ormai è ininfluente per lo stato d’animo della persona. A ben vedere, né l’uno né l’altro superano una visione retributiva della giustizia per il tramite della riconciliazione. Per Pope, la divinità del perdono consiste nella sua inafferrabilità, ma le conseguenze sono pericolose: diventeremmo forse divini soltanto nell’irrazionalità? Per il filosofo novecentesco, invece, il perdono è l’indulgenza che è garantita dall’inoffensività: colpa e pena restano intrecciate in un inestricabile determinismo.
È sulla base di questi precedenti che si suggerisce di monitorare con molta attenzione il tema della giustizia riparativa, soprattutto all’interno di quei sistemi (come quello italiano) che, sia pur parzialmente, abbiano già provveduto a legiferarla. Una modalità di amministrazione della giustizia, quando intende superare un’accezione meramente retributiva della pena, non può rischiare di reintrodurre in forma diversa elementi vendicativi. In tal senso, il nesso tra retributività e vendicatività si paleserebbe in un uso eccessivo – e fondamentalmente di classe – della riparazione patrimoniale, quale semplice pratica per smaltire il carico processuale pendente. A mimetizzare questa funzione provvederebbe l’enfasi retorica sull’incontro specifico tra vittima e autore del reato, persino in quelle ipotesi dove tale incontro è scoraggiato, a beneficio di entrambe le parti, dalla più assennata letteratura criminologica. Si pensi al caso della violenza sessuale, nella fase in cui la vittima ne è ancora profondamente turbata e l’autore è psicologicamente sovraesposto a reiterare la medesima condotta alla vista delle persone che la hanno già subita da parte sua.
Non è un caso che, quando il dibattito sulla giustizia riparativa poteva considerarsi all’origine della sua attuale conformazione, gli autori statunitensi, inglesi e canadesi che se ne occuparono ebbero a discutere se fosse preferibile definirla restorative o reparative justice. Se dovesse prevalere, cioè, il lato della materiale riparazione dell’errore o della commendevole e mite ristorazione del torto, secondo criteri equitativi, mai perfettamente computabili: in tutta evidenza, non mere sfumature terminologiche, ma accezioni differenti tanto della giustizia, quanto, più specificamente, dell’esecuzione della pena.
La vendetta la racchiude e conclude, in un perimetro di azioni, se non consentite, almeno accettate, reiterando uno schema di esercizio del potere, al cui interno esiste una gerarchia sociale: il rovesciamento che la vendetta vuole realizzare è solo apparente, perché il miglior esito che possa raggiungere è la replica esponenziale, a parti invertite, del rapporto di forza preesistente. La riconciliazione, al contrario, preserva l’autonomia da un dispositivo che la realizzi, perché produce effetti materiali tuttavia incommensurabili: non si esprime nel cieco diritto (se un diritto, tanto soggettivo quanto oggettivo, possa esser cieco) a riprodurre il torto, contando sull’altrui indulgenza permanente. Né è mai giuridicafibile l’obbligo di chi patisce la lesione a doversi riconciliare con chi gliela ha inflitta. La riconciliazione porta semmai il diritto (ancora una volta: tanto oggettivamente inteso quale sistema, quanto soggettivamente espressivo di libertà individuali) a non prefabbricare la misura della sua attuazione. La riconciliazione contraddice, perché può destituire il tiranno senza condannarlo a morte; può ovviare al torto, tuttavia sciogliendo ogni relazione tra agente e parte offesa. Seleziona al caso concreto le opzioni di reazione. Non pretende di esser più giusta, né riesce a essere per forza più efficace, rispetto alla vendetta – perché si è già osservato come non possa essere giustificata secondo criteri utilitaristici. Molto più immediatamente, la riconciliazione consente di tener vive le dinamiche costituenti del conflitto.
DIRITTO ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA DOMENICO BILOTTI Endoxa maggio 2025 Riconciliazione Vendetta
