L’AMBIGUITÀ DI UNA VENDETTA: DIALETTICA DI UNA LIBERAZIONE

RAFFAELE VALLORANI

Che cosa resta a un popolo che ha subito l’annientamento della propria cultura, della propria terra, della propria identità? Talvolta, resta solo un impulso: reagire. Non sempre per distruggere, ma per ricomporsi. È in questa risposta che vendetta e riconciliazione possono sovrapporsi. La vendetta è comunemente intesa come un gesto impulsivo, violento, divisivo. Un atto di rottura, che si oppone alla logica della ricomposizione, alla pace, alla giustizia. Eppure, in certi contesti storici, questa opposizione non regge. In scenari segnati da una violenza sistemica, brutale e istituzionalizzata — come quello del colonialismo europeo in Africa — vendetta e riconciliazione non sono poli opposti, ma forze che possono convergere.

È proprio in contesti di dominio assoluto, dove il potere coloniale ha organizzato la disumanizzazione, lo sfruttamento, la cancellazione culturale e psicologica dell’altro, che il desiderio di vendetta assume un significato ulteriore. Non solo reazione alla violenza subita, ma anche ricostruzione del sé: vendicarsi diventa un modo per riconciliarsi con la propria terra, con la propria storia, con la propria cultura.

Allo stesso tempo, il bisogno di vendicarsi può farsi detonatore di unità, spingendo alla riconciliazione tra fazioni e popoli precedentemente in conflitto: tribù rivali, comunità separate, individui isolati trovano, nella lotta comune, una coesione nuova, forgiata dal desiderio condiviso di liberazione.

Questa riflessione nasce da tale fertile tensione, e prova a indagare come — in contesti coloniali — vendetta e riconciliazione non solo coesistano, ma si alimentino reciprocamente, dando forma a un cammino collettivo di resistenza e liberazione.

Non sussiste alcuna legittimazione di un presunto primato razionale o morale del colonizzatore nei confronti del colonizzato, né tantomeno una giustificazione fondata su un supposto disegno provvidenziale, né, per quanto tale idea possa risultare radicata, una reale superiorità del modello socio-politico ed economico del colono rispetto a quelli propri dell’oppresso. La ragione principale per cui un colonialismo è esistito ed esiste anche sotto altre vesti, è una organizzazione razionale della violenza. Violenza di ogni sorta e non semplicemente bellica o repressiva. Il rapporto tra colono e colonizzato avviene sotto il segno del potere e la loro coabitazione, molto piu precisamente lo sfruttamente del colonizzato da parte del colono, è sorto in primo luogo tra la polvere da sparo e il sangue. La colonizzazione, la de-colonizzazione e il periodo post-coloniale sottendono solo rapporti di forze. Le violenze messe in atto dalla macchina coloniale hanno molti caratteri: partendo da quella più endemica fino ad arrivare a quella più profonda, passando per una violenza economica, culturale, sociale, politica, linguistica, semantica. Anche se tali caratteri sembrano differenziarsi enormemente tra di loro, il minimo comun denominatore si ritrova in un determinato e calcolato piano da parte del colono basato sulla violenza, sull’oppressione e infine sul sadismo.                                                                                                                                                                                                                                                 Nulla è lasciato al caso nei rapporti di colonizzazione, sin dai primi sbarchi sulle coste delle future colonie, ormai molti secoli fa.

Comprendere la struttura di questa violenza sistemica non è solo un’esigenza teorica: è un passaggio necessario per dislocare lo sguardo, per assumere un punto di vista differente, e continuare a interrogarsi criticamente su realtà che, pur sembrando remote, continuano a parlare al nostro presente.

Il colonialismo è un sistema razionale e organizzato di violenza. Esso si articola su più livelli – militare, economico, sociale, culturale, psicologico – e penetra in ogni aspetto della vita dei colonizzati. Capire questa violenza nella sua interezza significa decifrarne l’architettura e riconoscere come si radichi strutturalmente nei territori colonizzati, lasciando tracce profonde che perdurano ben oltre la fine formale del dominio coloniale.

La violenza bellica costituisce lo strumento primario di sottomissione. L’otto dicembre 1952, ad Algeri, l’esercito francese apre il fuoco sulla folla che protesta per l’assassinio del sindacalista Ferhat Hased: circa trecento manifestanti vengono uccisi. In Sudafrica, il ventuno marzo 1960, la polizia inglese massacra sessantasette persone durante una manifestazione pacifica contro il lasciapassare obbligatorio imposto ai neri. Ogni forma di dissenso viene repressa con sistematicità. Nel marzo del 1957, ancora in Algeria, il governatore francese Robert Lacoste autorizza la formazione di milizie civili armate, legittimando ogni europeo a sparare contro chiunque venga percepito come sospetto. L’uccisione dell’avvocato Ali Boumendjel – defenestrato e poi dichiarato suicida – rappresenta un esempio emblematico della strategia repressiva francese, che mira all’eliminazione metodica dei quadri dirigenti del FLN (Front de Libération Nationale).

Ma la violenza coloniale non si limita alla dimensione militare. Essa assume anche forme più silenziose, strutturali, ma non meno devastanti. L’economia coloniale si basa su un sistema di violenza strutturata che si esprime attraverso l’espropriazione: le potenze imperiali estraggono risorse, materie prime, manodopera e ricchezze da Africa, Asia e America Latina, canalizzandole verso le metropoli. In questo schema, lo sviluppo si realizza a senso unico: a crescere è l’Europa, mentre le colonie vengono mantenute in una condizione di dipendenza economica e arretratezza funzionale. L’infrastruttura economica viene progettata per servire esclusivamente le esigenze dell’industria coloniale, generando uno squilibrio territoriale profondo e un ampio debito pubblico.

Questo modello di sviluppo selettivo determina una vera e propria gerarchia spaziale: le regioni ricche di risorse ricevono investimenti e attenzione, mentre il resto del territorio viene lasciato nell’abbandono. Un esempio tangibile di una pratica di violenza economica può essere ciò che è accaduto in Algeria tra il 1956 e il 1957, quando le restrizioni alla circolazione impedivano ai contadini l’accesso ai centri urbani. I commercianti speculavano sui beni essenziali come zucchero, tè e caffè, mentre le autorità coloniali, tentando di imporre prezzi calmierati, finivano per alimentare il mercato nero e la criminalità urbana.

Nemmeno l’indipendenza riesce a spezzare questi meccanismi. Gli stati appena formati si trovano privi di una borghesia nazionale strutturata, con una conoscenza frammentaria delle risorse del proprio territorio e una dipendenza cronica dagli scambi imposti durante la colonizzazione e dai circuiti commerciali dei governi coloniali europei. Gli investimenti internazionali non arrivano, e le élite che prendono il potere – spesso composte da figure che collaborano con l’ex potenza coloniale – perpetuano le stesse logiche di estrazione e disuguaglianza.

L’organizzazione della violenza assume anche carattere sociale, distruggendo gli equilibri tradizionali e forzando trasformazioni traumatiche. Le politiche di esproprio, la repressione nelle campagne e la marginalizzazione economica spingono milioni di persone verso le città. Ma ciò che incontrano non è integrazione, bensì emarginazione. Nasce così il Lumpenproletariat coloniale: una classe di esclusi senza accesso al lavoro, ai servizi, ai diritti. Giovani disoccupati, provenienti dal mondo rurale, finiscono per essere criminalizzati. In Kenya, tra il 1950 e il 1951, i britannici intensificano le azioni repressive contro questi giovani emarginati. In Congo, nel 1957, si istituiscono campi di “rieducazione” affidati a missioni evangeliche sotto vigilanza militare. In Madagascar, la strumentalizzazione socio-politica arriva a un livello ulteriore: il regime fonda il PADESM, un partito costruito attorno a elementi del Lumpenproletariat, usati come massa di manovra per arginare le forze rivoluzionarie.

A questa dimensione sociale si aggiunge la violenza culturale. Il colonialismo agisce sull’immaginario, sull’identità, sulla lingua, sulla rappresentazione del sé. I giovani colonizzati vengono privati della propria eredità culturale, bombardati da modelli estetici e valoriali europei: letteratura commerciale, pornografia, giochi, consumi senza senso. Questi contenuti, calati in contesti sociali disgregati, producono un senso di alienazione profondo. Il colonizzatore impone la propria cultura come misura di tutte le cose, mentre quella indigena viene screditata, ridotta al silenzio. Gli intellettuali locali, all’inizio, riproducono i modelli coloniali, e solo molto dopo si svegliano dal torpore culturale e maturano una consapevolezza critica, riscoprendo la propria cultura come fonte di resistenza e autenticità.

La violenza coloniale, tuttavia, colpisce anche più in profondità: agisce sulla psiche. I traumi provocati da torture, guerre, umiliazioni, stupri e privazioni generano disturbi psichici sia individuali che collettivi. Il sistema coloniale lavora per interiorizzare nei dominati l’idea che, senza il colono, regnerebbero solo disordine e barbarie. Questa narrazione viene inculcata con costanza, producendo disorientamento, autosvalutazione, frustrazione. La violenza psicologica diventa così uno strumento di controllo duraturo, capace di perpetuarsi anche dopo la fine del dominio politico.

Eppure, anche in questo contesto di oppressione totale, emergono segnali di resistenza. Essi rappresentano il desiderio di evasione, la ricerca di uno spazio altro, la possibilità di esistere fuori dai confini imposti. In queste rappresentazioni nasce quel legittimo desiderio di ribellione. Nella volontà di abitare il proprio luogo senza compromessi esterni si radica la vendetta, mentre nel progettarla insieme, i colonizzati trovano la via per la libertà.

Avviene, quindi, che lungo questa storia di violenze arrivi il momento in cui il popolo colonizzato abituato a vivere nel cerchio ristretto di lotte e di rivalità prenda coscenza e coraggio e si opponga a tutto il sistema coloniale. Nasce un chiaro sentimento di vendetta contro ogni danno materiale e morale subito nel corso dei secoli: un desiderio legittimo, alimentato da odio e risentimento, che però non si esaurisce nell’atto distruttivo. Anzi, è proprio questo impulso alla vendetta a trasformarsi in vettore di una riconciliazione più ampia, capace di ristabilire il legame interrotto tra il colonizzato e la propria patria, la propria cultura, il proprio popolo. In questo senso, la vendetta diventa lo spazio attraverso cui il soggetto colonizzato ritrova se stesso, si riappropria della propria storia, si riconcilia con la propria identità.

Vendetta e vita, in questo scenario, tendono a sovrapporsi. L’equazione è chiara: vendetta è vivere, e vivere significa rivoluzionare l’ordine imposto. La vendetta non è più solo reazione, ma fondamento di un’esistenza politica, forma di sopravvivenza attiva e cosciente. Ed è proprio in questo passaggio che essa si legittima, si radica nell’individuo colonizzato come impulso vitale, diventando al tempo stesso esigenza etica e progetto collettivo.

Ma non è tutto. La ribellione, la vendetta, l’indipendenza deve passare dapprima dal bisogno di unità. Il desiderio di vendetta agisce allora come detonatore di un processo di riconciliazione orizzontale. Ed è cosi che nella popolazione sottomessa famiglie nemiche decidono di cancellare tutto. Gli odi sepolti vengono ridestati per essere estirpati con maggiore decisione. Scompaiono i conflitti intestini e si liquidano definitivamente le reticenze. Intere tribù la cui rivalità è ben nota, depongono le armi, e si giurano mutuo soccorso. In questo caso, è la riconciliazione a porsi al servizio della vendetta, l’unione è funzionale a colpire il nemico comune, a coordinare l’azione, a costruire una solidarietà intertribale, interpaesana, nazionale. Questa attitudine, è alimentata da un intreccio di desiderio, di riscatto, da logiche di lealtà comunitaria e legami tra un legittimo desiderio di vendetta e una necessaria volontà di riconciliazione.

La contrapposizione tra vendetta e riconciliazione si rivela, dunque, insufficiente. Nel contesto coloniale, i due poli non si escludono: si intrecciano, si richiamano, si contaminano. La vendetta può diventare il primo passo di un processo di ricomposizione identitaria, così come la riconciliazione può assumere la forma di una rivalsa simbolica e politica. In entrambi i casi, ciò che conta è la capacità del colonizzato di trasformare l’impulso alla reazione in progetto di liberazione. La lotta anticoloniale non si nutre di dicotomie, ma di ambivalenze produttive, dove anche ciò che comunemente è considerato aberrante può, in un contesto radicalmente diverso, assumere un valore etico e politico profondo.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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