TRA VENDETTA E PERDONO: VERSO UN’ETICA DELLA PHYSIS

GABRIELE DE FILIPPO

In un’aula di tribunale del Kentucky, negli Stati Uniti, nel 2017, si è consumato un gesto che ha lasciato sgomento il mondo intero. Abdul-Munim Sombat Jitmoud, padre di Salahuddin, un giovane assassinato durante una rapina, ha abbracciato e perdonato l’uomo ritenuto colpevole della sua morte. Quel gesto, quasi surreale per chi vive immerso in un immaginario di giustizia retributiva e vendetta, non è stato motivato da debolezza o rassegnazione. Il padre ha dichiarato di trovare la forza di perdonare nella sua fede: “La porta della possibilità per Dio di perdonarti è aperta”, ha detto al condannato. Un gesto che ha colpito, ispirato e al contempo interrogato.

Ma è possibile, oggi, nel nostro mondo occidentale apparentemente secolarizzato, in un’epoca attraversata da un nichilismo diffuso, anche solo concepire un gesto di tale grandezza morale? Oppure questa capacità è divenuta patrimonio esclusivo di chi affonda le proprie radici in una fede profonda, in un orizzonte trascendente che offra un senso superiore al dolore, alla giustizia e al perdono?

In effetti, molta della filosofia contemporanea ha insistito sulla finitezza dell’essere umano, sulla sua fragilità esistenziale, sulla crisi di senso e sulla perdita di fondamenti assoluti. Da Nietzsche a Heidegger, passando per la fenomenologia e l’esistenzialismo, si è delineata una figura dell’uomo gettato nel mondo, privo di appigli metafisici, spesso abbandonato a se stesso. Il “Dio è morto” nietzscheano non è solo una denuncia, ma una sfida: chi siamo noi ora, senza Dio?

Eppure, proprio in questi pensatori è presente anche un barlume di risposta, se si ha il coraggio di spingersi oltre le letture più riduttive.

Se per Abdul-Munim quella forza nasce da una fede religiosa, la filosofia offre una via parallela, altrettanto profonda: il pensiero della Physis. Questa nozione, che per i Greci indicava il “nascere”, il “venire all’essere”, è stata ripresa da pensatori come Hölderlin, Nietzsche, Heidegger, Jankélévitch, Kafka. In loro, la Physis non è solo natura fisica, ma un principio vitale, tragico e trasformativo, che permette di pensare l’uomo come finito ma non chiuso, fragile ma aperto all’infinito.

La concezione della Physis in Hölderlin

Proprio da queste riflessioni sulla finitudine e sull’apertura al possibile nasce una visione in cui la grandezza d’animo si svela come una potenza che si manifesta nella fragilità dell’essere umano. In Hölderlin, l’uomo che si orienta verso l’En kai pan – l’Uno e il Tutto – riscopre una connessione profonda con l’universo, che lo spinge oltre il limite dell’egoismo, della vendetta e della caducità. La grandezza d’animo, come una forza che supera l’individualismo, è infatti un atto che nasce dalla consapevolezza di appartenere eternamente a un tutto che trascende l’individuo stesso. L’uomo che si riconosce come parte di un ordine cosmico è capace di agire non solo per se stesso, ma per una causa che abbraccia l’universo intero, agendo nella consapevolezza che la riconciliazione, la trasformazione e la possibilità di un futuro condiviso sono sempre aperte.

Hölderlin, a cavallo tra filosofia e poesia, è una figura cardine per comprendere come la Physis possa offrire una visione alternativa alla rigidità della morale retributiva. Per lui, la natura non è qualcosa di statico o armonico, ma un processo dinamico, un continuo trapasso tra creazione e distruzione, che costituisce la trama essenziale dell’esistenza. Questa natura tragica è ciò che ci collega all’ordine cosmico e rende l’umano partecipe di un destino più grande.

In Hölderlin la grandezza non è mai separata dalla fragilità: è proprio nell’essere spezzati che si apre la possibilità di un atto più alto, gratuito, persino riconciliativo. Il vero eroismo – ben distante dall’eroismo della forza – è quello che accetta di abitare la tensione tra opposti, che sa reggere la doppiezza della condizione umana, sospesa tra il finito e l’infinito, la gioia e la disperazione, il trionfo e il naufragio.

In testi come Hyperion o nella lirica Patmos, emerge chiaramente questa idea: “dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva”. Non si tratta di negare il male o il dolore, ma di riconoscere che ogni frattura può essere il punto da cui qualcosa di nuovo può sorgere. L’uomo, inserito in questo flusso, non agisce in base a codici morali assoluti, ma attraverso una sensibilità che coglie nel mutamento la possibilità di senso. È questa l’origine di una grandezza non imposta, ma rivelata: l’uomo si scopre infinito proprio là dove è più fragile, più esposto, più umano. In questo contesto, la Physis non è solo la natura fisica, ma un principio che abbraccia la totalità dell’esistenza, che ci invita a esplorare la nostra fragilità ma anche a cercare la possibilità di trascendere questa condizione limitata.

In Hölderlin, dunque, la riconciliazione non è un premio, ma un rischio creativo. L’uomo è grande quando abita con coraggio la propria finitezza e, in essa, accetta di trasformarsi insieme al mondo. Sarà Nietzsche a raccogliere e spingere oltre questa intuizione, integrando il legame cosmico di Hölderlin con una volontà immanente di affermazione e rigenerazione: la volontà di potenza come forma estrema di amore per il divenire.

Nietzsche – La volontà di potenza e il perdono dell’impermanenza

Nietzsche è uno dei critici più radicali della morale tradizionale: una morale che, secondo la sua critica, nasce non dalla forza, ma dalla debolezza; non dall’amore per la vita, ma dalla sua negazione. In particolare, nella Genealogia della morale, Nietzsche identifica nella vendetta una forma di risentimento: l’atteggiamento di chi, non potendo accettare la realtà così com’è, cerca di vendicarsi sul mondo e sugli altri per la propria impotenza. È la vendetta dei deboli, degli offesi, che rovesciano la forza in colpa, la vita in peccato, l’azione in castigo.

La figura emblematica di questa logica è il sacerdote ascetico, che alimenta un’idea di giustizia come compensazione, come pareggio dei conti. Una giustizia che, lungi dal trasformare il dolore, lo cristallizza in rancore. Nietzsche vi si oppone con forza: la vita, dice, non è un tribunale, ma un divenire incessante. Chi cerca giustizia in termini di punizione non vuole redimere il mondo, ma affermare se stesso contro di esso.

In contrapposizione alla vendetta come rifiuto del mondo, Nietzsche propone l’amor fati, l’amore per il destino, e l’idea dell’eterno ritorno. Non si tratta di credere che tutto si ripeterà letteralmente, ma di vivere come se ogni istante dovesse ritornare per l’eternità. È una prova etica: saresti disposto a rivivere, infinite volte, ciò che ora stai vivendo?

In questo senso, Nietzsche non parla di perdono come gesto morale, ma propone qualcosa di più radicale: trasformare il male in forza creativa, sublimare il dolore in elevazione, amare ciò che è stato senza volerlo cambiare. Non perdonare nonostante il male, ma amare attraverso il male.

Nietzsche, pur senza usare il lessico religioso, ci mostra che la riconciliazione è possibile anche senza Dio. È una riconciliazione tragica, non pacificata: come scrive in Così parlò Zarathustra, il vero spirito libero è colui che “vuole anche ciò che è stato”, che non giudica il mondo, ma lo accoglie. La riconciliazione non è un atto morale, ma un atto creativo: dire “sì” all’essere nella sua tragicità.

Con Heidegger, questo rapporto si approfondisce ulteriormente: l’uomo non è solo chiamato ad amare incondizionatamente ciò che accade, ma a comprendere l’essere stesso come apertura, come possibilità di un senso che si dà nel tempo.

Heidegger – La verità della finitudine come luogo della grandezza

Heidegger raccoglie e radicalizza molti dei temi nietzscheani, ma li conduce in una direzione ontologica: dalla volontà di potenza come affermazione del divenire, all’apertura all’essere come evento fondativo dell’esperienza umana. In questo senso, Heidegger è decisivo nel nostro percorso: egli mostra come, proprio attraverso la consapevolezza della finitudine, l’uomo possa accedere a una grandezza che non è eroismo, ma verità dell’esistere.

Nel suo capolavoro Essere e Tempo (1927), Heidegger definisce l’uomo come Dasein, “esserci”, cioè colui per cui l’essere è in questione. L’essere umano non è definito da un’essenza, ma dalla sua apertura al tempo, al mondo, alla possibilità. Questa apertura, tuttavia, è costitutivamente finita: l’uomo è gettato nel mondo senza averlo scelto, destinato a morire, privo di garanzie ultime. La sua condizione è tragica, nel senso greco del termine: sta tra nascita e morte, tra nulla e significato.

È qui che Heidegger recupera il concetto greco di Physis, che per lui non è semplicemente natura, ma ciò che sorge, emerge, si disvela. La Physis è l’essere stesso in quanto evento: il manifestarsi di ciò che è, attraverso il tempo. L’uomo partecipa a questa dinamica, non dominandola, ma abbandonandosi ad essa, abitandola poeticamente.

Come scrive in Costruire, abitare, pensare, “l’uomo abita poeticamente”. E ciò significa: la verità dell’umano non è un programma, ma una risonanza, una disponibilità a lasciarsi toccare dal mistero dell’essere. In questa disponibilità nasce la riconciliazione: non un atto di clemenza, ma un gesto originario di ascolto, di accoglienza del possibile.

Con Heidegger, dunque, la grandezza non è un’eccezione eroica, ma la fioritura silenziosa di chi ha il coraggio di abitare il proprio tempo. Il perdono, da questo punto di vista, può essere inteso come apertura radicale: non risposta a un comando, ma fioritura di una libertà che non si chiude nella colpa. Su questa soglia si colloca il pensiero di Vladimir Jankélévitch, che radicalizza la questione: è possibile perdonare l’imperdonabile? E se sì, da dove nasce questo gesto che eccede ogni logica e ogni giustizia?

Jankélévitch – Il perdono come impossibile possibilità

Per Jankélévitch, la domanda centrale non è “quando perdonare?”, ma che cosa significa perdonare davvero?”. La risposta che offre è tanto semplice quanto vertiginosa: perdonare davvero significa perdonare l’imperdonabile. Se si perdona ciò che è scusabile, ciò che può essere compreso, ciò che ha delle attenuanti, allora non si perdona: si giustifica. Ma il perdono autentico, invece, inizia proprio là dove la giustizia finisce, dove ogni ragione, ogni norma, ogni principio razionale sembra venir meno.

Nel suo saggio Le pardon, Jankélévitch esplora a fondo questa idea. Il perdono non è né una virtù sociale, né un’azione utile, né un comando morale: è un gesto gratuito, ingiustificabile, un evento interiore che sfugge a ogni codifica normativa. Non lo si può comandare, né attendere. Non è un dovere, ma un dono: quando arriva, è miracoloso, spezza la catena del dolore, interrompe il ciclo della vendetta. In questo senso, il perdono è affine all’evento poetico di cui parlava Heidegger: una fioritura imprevedibile dell’essere, un’apertura che non può essere pianificata. Ma a differenza di Heidegger, Jankélévitch insiste sul carattere tipicamente umano del gesto: il perdono non è un’idea filosofica, ma un’esperienza vissuta, spesso nella carne viva del trauma e dell’ingiustizia.

Centrale, in Jankélévitch, è la distinzione tra perdonare e dimenticare. Perdonare non significa rimuovere l’offesa, né cancellare il passato. Al contrario, è un atto che ricorda pienamente ciò che è accaduto, ma decide di non rispondere con lo stesso linguaggio. È una forma di resistenza morale, che non cede alla logica della punizione, ma ne inventa un’altra: quella del gesto che salva l’umano proprio laddove sembrava impossibile.

Qui il perdono assume un valore radicalmente politico ed etico: non è una rinuncia, ma un atto di forza, che scardina la catena causa-effetto del dolore. Jankélévitch non idealizza il perdono: ne conosce tutta la difficoltà, tutta la fatica, e proprio per questo lo considera una grandezza dell’animo, simile a una grazia laica che si dona a chi non la merita.

Se con Jankélévitch il perdono appare come un gesto impossibile, eppure reale, Kafka ci porta ancora oltre: ci mostra cosa significa continuare a vivere e agire anche quando il perdono non arriva, quando la giustizia tace, quando il senso è assente.

La sua opera ci mostra cosa significa vivere nella finitudine senza appigli, senza Dio, senza verità ultime — e tuttavia resistere eticamente, umanamente, poeticamente.

Kafka non parla esplicitamente di perdono o riconciliazione, ma tutta la sua scrittura è attraversata dalla tensione tra giustizia e misericordia, colpa e salvezza, condanna e possibilità di redenzione. In lui, il gesto di riconciliazione non è mai garantito, né consolatorio. Ma è proprio per questo che ha valore: perché si compie nonostante tutto.

Kafka – L’etica silenziosa dell’indistruttibile

Le opere di Kafka, da Il processo a Il castello, da La metamorfosi a Nella colonia penale, sono abitate da una colpa misteriosa, opaca, senza origine e senza spiegazione. I suoi personaggi si trovano spesso coinvolti in procedimenti giudiziari incomprensibili, come Josef K., o travolti da condanne la cui ragione resta oscura. La giustizia, nei mondi kafkiani, resta indecifrabile, e proprio per questo, non redime.

Eppure, in questo universo senza redenzione, Kafka non cede al cinismo. Al contrario, i suoi personaggi spesso resistono silenziosamente, con gesti minimi, quasi invisibili, eppure carichi di dignità. La vera etica kafkiana non è quella dell’eroe, ma quella del fedele: colui che continua a vivere, a cercare, a tentare, anche quando tutto sembra crollato. Come scrive nei Quaderni in ottavo, Kafka crede in qualcosa che chiama “l’indistruttibile”: un nucleo profondo, segreto, incorruttibile, che abita ogni essere umano.

“Si può impedire l’accesso, ma non si può impedire l’essere dell’indistruttibile.”

L’indistruttibile kafkiano, però, non è Dio, né una verità assoluta. È l’etica senza fondamento, il bene che si compie anche senza destinatario, la fedeltà a qualcosa che non può essere provato, ma che la Physis, di cui siamo parte, ci suggerisce soltanto come intuizione. In Kafka, dunque, la riconciliazione non è un atto spettacolare, ma un gesto di resistenza etica: non vendicarsi, non restituire il male ricevuto, continuare ad amare anche nel disincanto.

Con Kafka si conclude il nostro percorso, ma non si chiude. Perché se il gesto di Abdul-Munim — perdonare chi ha ucciso suo figlio — sembra sorretto da una fede trascendente, Kafka ci mostra che una riconciliazione è possibile anche in assenza di ogni fondamento religioso, anche nella solitudine più estrema. La sua è un’etica post-religiosa e post-metafisica, ma non per questo meno radicale. È un’etica del possibile, dell’apertura, del nonostante tutto.

Dopo Hölderlin, Nietzsche, Heidegger e Jankélévitch, Kafka ci dice: non sempre ci sarà un Dio, una giustizia, un perché. Ma ci sarà sempre una scelta: quella di non rispondere al male con il male, di non trasformarsi in ciò che ci ha ferito. In questo senso, riconciliazione non è dimenticare, non è giustificare, ma interrompere: rompere il ciclo della vendetta, anche quando nulla sembra legittimare questo gesto.

E così, attraverso questo viaggio nella finitudine, scopriamo che la grandezza dell’uomo non consiste nel dominare, né nel giudicare, ma nel perdonare anche quando non è possibile, nella fiducia che l’altro possa cambiare, nella forza di vivere in modo diverso da come “si fa”. È in questa capacità di sopportare l’assurdo, di abitare la debolezza come spazio del possibile, che si manifesta il vero miracolo laico della riconciliazione.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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