TRA VENDETTA E RICONCILIAZIONE: LA SFIDA DELLA GIUSTIZIA RIPARATIVA
ANTONGIULIO GIGANTE
Fare giustizia è fare del male a coloro che hanno fatto del male? La nota sentenza secondo cui la pena si definisce come un “malum passionis quod infligitur ob malum actionis” sembra avvallare l’ipotesi: la risposta adeguata al male compiuto sarebbe l’inflizione all’autore di un male che rispecchi, nella afflizione che procura, quello cagionato alla vittima. I medievali non temevano di definirla “giustizia vendicativa”, e certamente appare essere una prospettiva che permane anche nell’orizzonte contemporaneo, specie lì dove si tratta di reati particolarmente efferati. Tra le fattispecie delittuose che più colpiscono l’immaginario collettivo e scuotono la coscienza pubblica, il femminicidio occupa, senza dubbio, una posizione paradigmatica. Esso si configura non solo come atto di estrema violenza individuale, ma come sintomo di una più profonda patologia sociale, radicata in assetti culturali e relazionali segnati da disparità strutturali e persistenti logiche di dominio. È dunque comprensibile che l’opinione pubblica, come pure il legislatore, abbiano negli ultimi anni dedicato particolare attenzione a tale fenomeno, sollecitando interventi normativi ispirati a logiche di rafforzamento dell’arsenale repressivo e di inasprimento delle pene. Tuttavia, proprio questa tendenza – che sembrerebbe ispirarsi a una visione sempre più afflittiva del diritto penale – impone una riflessione critica sull’orizzonte assiologico che ne sorregge l’adozione. Non può non rilevarsi, infatti, come il paradigma retributivo occupi un ruolo centrale nella grammatica legislativa, producendo un’accentuazione del tratto vendicativo della giustizia penale, in aperta tensione con i principi di proporzionalità, ragionevolezza e finalità rieducativa della pena che ne dovrebbero costituire l’ossatura e orientarne, almeno in via teorica, la legittimità e la tenuta democratica. Occorre interrogarsi sulla tenuta e sull’efficacia dell’approccio prevalentemente repressivo alla violenza, sondando la possibilità che, accanto – o in alternativa – alla risposta penalistica tradizionale, possano esistere strumenti o paradigmi giuridici più idonei a perseguire in modo duraturo e non meramente simbolico l’obiettivo della prevenzione del reato, della protezione delle vittime e della trasformazione delle dinamiche relazionali sottese alla violenza.
Un caso emblematico: la risposta penale al femminicidio
A riaccendere il dibattito in ordine all’adeguatezza e all’efficacia delle strategie normative approntate dal nostro ordinamento sui reati di maggiore allarme sociale è stata proprio la recente approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, del disegno di legge recante “Introduzione nel nostro ordinamento del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime”. L’iniziativa legislativa in parola ha ricondotto al centro della riflessione pubblica e giuridica quella che costituisce la più sistematica ed emblematicamente allarmante manifestazione della violenza di genere: la violenza contro le donne. In tale contesto, lo schema normativo attualmente in discussione al Senato introduce, per la prima volta nel codice penale italiano, un’autonoma fattispecie incriminatrice di femminicidio, sanzionata, secondo l’architettura del nuovo articolo 577-bis del codice penale, con la pena dell’ergastolo per “chiunque cagioni la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna, o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà, o comunque l’espressione della sua personalità”. Anteriormente alla riforma in discorso, il femminicidio non trovava espressa tipizzazione autonoma nell’ordinamento penale, essendo ricondotto nell’alveo dell’omicidio comune, di cui all’art. 575 c.p., con applicazione, a seconda dei casi, delle circostanze aggravanti previste dagli artt. 576 e 577 del codice penale. Tali aggravanti comportavano la pena dell’ergastolo solo in casi tassativamente delineati, quali l’uccisione del coniuge, del convivente ovvero di una persona legata all’autore di reato da una relazione affettiva. In tale contesto, l’intervento normativo recentemente promosso si profilerebbe, nelle intenzioni del legislatore, come un avanzamento significativo, quantomeno sul versante della risposta penalistica, che risulterebbe perciò connotata da maggiore nettezza e determinazione. La nuova formulazione, difatti, amplia l’orizzonte applicativo della norma, rendendo più agevole l’irrogazione di pene severe nei confronti degli autori di tali crimini e rafforzando il messaggio simbolico e repressivo dell’ordinamento. Va tuttavia rilevato come il nostro sistema giuridico non rappresenti un unicum né una primizia nell’accogliere una definizione autonoma di femminicidio, essendo preceduto, in tal senso, da altri sistemi normativi che hanno già intrapreso analoghi percorsi di tipizzazione. Il panorama internazionale offre numerosi esempi di Paesi che hanno scelto di affrontare il fenomeno riconoscendone la specificità giuridica e affidando alla risposta punitiva il compito di arginarne la diffusione. Una scelta, tuttavia, che – almeno stando ai numeri – non sembra aver premiato i propositi. Secondo i dati raccolti dallo studio Femicides in 2023: Global Estimates of Intimate Partner/Family Member Femicides, commissionato dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (UNODC) e da UN Women, infatti, l’America è oggi la seconda regione al mondo per incidenza di femminicidi, con un tasso annuale superiore a 1,6 omicidi ogni 100.000 donne, limitatamente ai casi commessi da partner o familiari sebbene numerosi Stati del Nuovo Continente, con particolare incidenza nell’area latinoamericana, hanno recentemente proceduto all’introduzione di una fattispecie ad hoc di femminicidio nei rispettivi codici penali, accompagnando tale tipizzazione con un sensibile inasprimento del trattamento sanzionatorio riservato a simili condotte. Secondo quanto riportato dalla Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi (CEPAL), nello studio Prevenire i femminicidi: un obbligo per gli Stati e una sfida persistente nella regione, ben 18 Paesi, tra il 2013 e il 2017, hanno intrapreso un tale percorso normativo, volto a riconoscere in forma autonoma l’omicidio di donne e a prevedere un rafforzamento dell’assetto sanzionatorio. Ciononostante, il quadro che emerge dai dati dimostra come il ricorso alla “mano dura” non abbia portato a risultati soddisfacenti. Solo nel 2022, infatti, sono state 4.050 le donne vittime di femminicidio in 26 Paesi dell’America Latina e dei Caraibi, contro le 1.678 donne assassinate in 17 paesi dell’America Latina e dei Caraibi del 2014, con un incremento del 141,2% circa, sottoponendo a confronto i dati recenti con quelli raccolti in quell’anno dalla stessa fonte.
Vendetta o giustizia? Alle origini del paradigma punitivo
L’analisi comparata, dunque, sembra scoraggiare il ricorso a soluzioni iper-criminalizzanti, nella convinzione che un inasprimento delle pene possa arginare un fenomeno che, pur colpito con durezza dall’apparato repressivo della giustizia, continua inesorabilmente a produrre vittime. Viene da chiedersi: se i risultati degli studi sono pubblici e chiaramente indicano la limitata efficacia di tali approcci, perché i governi continuano a percorrere questa strada, pur consapevoli del serio rischio di un insuccesso? Sembra, in effetti, che l’intervento dello Stato, più che orientarsi verso un’efficace strategia di prevenzione o contenimento del fenomeno, sia mosso dalla preoccupazione di infliggere pene più severe ai colpevoli, quasi in una logica di rivalsa, o, in altre parole, di vendetta.
Pur evitando di sollevare critiche di natura etica alla logica retributiva della pena, è difficile negare che, anche da una prospettiva puramente utilitaristica, l’equazione “più pene, più giustizia” — almeno nel caso specifico — mostri evidenti segni di inefficacia. Basti richiamare il pensiero di Jeremy Bentham, padre dell’utilitarismo, secondo cui «lo scopo generale che tutte le leggi hanno è quello di accrescere la felicità totale della comunità e, perciò, in primo luogo, evitare per quanto si può ogni cosa che tenda a fare diminuire tale felicità: in altre parole, il loro scopo generale è escludere il danno» (Jeremy Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione,1780, cap. XIII). Se la punizione non concorre a tale fine — se non previene il danno, se non riduce la sofferenza collettiva — allora rischia di perdere ogni legittimità, lasciando alla giustizia il solo onere del castigo. Occorre dunque interrogarsi sulle logiche sottese a tale approccio punitivo, che finisce per declassare la funzione general-preventiva della legge ad uso sterile di grida manzoniane. In questa prospettiva, offre una chiave di lettura significativa la filosofa statunitense Martha C. Nussbaum, la quale individua nell’emozione della rabbia un tratto costitutivo della risposta umana al torto subito. Secondo l’autrice di Rabbia e perdono, tale emozione affonda le proprie radici in un istinto primario di reazione, connesso al bisogno di giustizia intesa come risposta riequilibratrice all’offesa. Richiamandosi alla tradizione aristotelica, in una visione che risulta sorprendentemente coerente con i più recenti studi neuroscientifici, i quali indicano nel sistema limbico – area cerebrale deputata tanto alla gestione delle emozioni quanto alla percezione della gratificazione – il nucleo da cui si origina la rabbia e conseguentemente il desiderio di vendetta, Nussbaum descrive la rabbia come caratterizzata da un «doppio movimento»: dal dolore originato dall’offesa alla reazione che mira a ristabilire una forma di equilibrio. Lungi dall’essere una pura esplosione viscerale, la rabbia si rivela, in questa lettura, anche una risposta razionale, nella misura in cui è orientata verso un bene futuro, coincidente con la promessa di procurare “qualcosa di spiacevole” all’offensore. Si tratta, cioè, di una risposta emotiva la cui cifra distintiva è rappresentata dal desiderio di una vendetta immaginata (timōría phainoménē) per un’offesa altrettanto immaginata (phainoménē oligōría), percepita come rivolta ingiustamente a sé o a persone a noi care. L’obiettivo futuro implicito dell’ira, dunque, consisterebbe nel conseguimento di una forma di soddisfazione attraverso la sofferenza inflitta al colpevole. Da qui il ruolo compensativo assunto dal sistema penale, chiamato a farsi carico di una duplice funzione: da un lato, incanalare e sublimare l’impulso vendicativo del cittadino comune; dall’altro, disinnescare il rischio della ritorsione privata. Una dinamica che, se legittimata dall’assenza della forza regolatrice delle istituzioni, rischia di alimentare un’escalation di “reciprocità violenta”, ben sintetizzata da René Girard attraverso l’espressione «circolo vizioso della vendetta». Il sistema giudiziario, osserva l’antropologo francese, «non sopprime la vendetta, la limita effettivamente a una rappresaglia unica, il cui esercizio è affidato a un’autorità suprema e specializzata nel suo campo» (René Girard, (1972). La violenza e il sacro. Parte I). Nel tentativo di mitigarne gli effetti deflagranti, lo Stato assume dunque su di sé le istanze vendicative della collettività, traducendole in una punizione codificata e pubblica, che ne rappresenta la forma civilizzata e istituzionalmente controllata. Punire in modo esemplare, e soprattutto punire “bene”, diventa allora una strategia di contenimento della regressione verso forme di giustizia arcaica, fondate sulla vendetta di sangue, tipica delle società primitive, nelle quali l’unico ristoro simbolicamente accettabile era il “versare il sangue del criminale”. In tale prospettiva, come sottolinea ancora Girard, «non c’è differenza di principio tra vendetta privata e vendetta pubblica, ma vi è un’enorme differenza sul piano sociale: la vendetta non è più vendicata; il processo è finito; il pericolo di escalation è scongiurato». La giustizia penale si configura dunque come dispositivo istituzionale di contenimento, che assorbe e rielabora l’impulso alla ritorsione restituendolo in forma ritualizzata e depotenziata. Da ciò se ne potrebbe trarre che la funzione retributiva della pena, pur configurandosi come una forma di “vendetta pubblica”, assuma comunque una funzione pedagogica, seppur difficilmente quantificabile nel breve periodo.
Ma anche rispetto alla funzione pedagogica del punire si possono sollevare delle obiezioni. Come osserva Giovanni Grandi, la sanzione, inflitta o minacciata, sfrutta inevitabilmente la forza dissuasiva del timore della sofferenza: «La punizione farà leva sul dolore ed in particolare su quel dolore amplificato che è la privazione correlata a ciò che si cerca come piacere (…), per costringere ad andare in una certa direzione colui che non intende più altro linguaggio che quello animalesco della ricerca del piacere e della fuga dal dolore» (Grandi, G. 2020. Fare giustizia. Un’indagine morale sul male, la pena e la riparazione. Capitolo III). Tuttavia proprio questo quadro e il ricorso alla leva motivazionale del timore evidenzia, secondo Grandi, un fallimento educativo a monte: ciò che viene compiuto sotto minaccia può, al limite, essere efficace nella disciplina dei comportamenti ma ben difficilmente lo è dal punto di vista formativo.
Lo “spirito” della vendetta, anche quando viene ammansito – specie nelle pratiche – incontrando altre finalità, come appunto quella educativa, continua a lasciare la propria impronta, depotenziando notevolmente proprio quei processi che invece chiedono la partecipazione attiva, motivata e libera della persona per porre rimedio al male.
Oltre la pena: l’orizzonte riparativo
Esiste dunque la possibilità di superare la vendetta nel fare giustizia?
Esiste ed è già contemplata nel nostro ordinamento, essendo stata introdotta nel 2022 una disciplina organica sulla giustizia riparativa, che apre le porte del diritto a un paradigma alternativo rispetto al modello meramente retributivo. Un paradigma che orienta il sistema della giustizia verso un vero e proprio “cambio di lenti”, promuovendo una lettura più olistica del fenomeno criminoso. Al centro quindi non vi è più la mera reazione punitiva, bensì un rinnovato focus sulla responsabilizzazione dell’autore del reato, sull’ascolto e la presa in carico dei bisogni della vittima, nonché sul recupero del senso di sicurezza collettivo compromesso dall’illecito. Ben lungi dal prefigurare, nei casi di reati connotati da elevata gravità e da profonde implicazioni simboliche e relazionali – quale il femminicidio –, un esito forzosamente riconciliativo tra vittima e autore del fatto, la giustizia riparativa si propone piuttosto come prodromo di una riconciliazione più profonda e plurivoca: da un lato, come possibilità per la vittima (o per i suoi familiari) di ricomporre lacerazioni interiori prodotte dalla ferocia del conflitto e dalla violenza subita; dall’altro, come occasione, per l’autore del reato, di intraprendere un percorso di assunzione di responsabilità e di ricollocazione etica nel tessuto comunitario lacerato dal crimine. Occorre chiarire infatti, che tra i possibili esiti di tale percorso, va riconosciuta anche la scelta, da parte dei soggetti coinvolti, di mantenere una definitiva distanza reciproca: una distanza che, lungi dal rappresentare un fallimento del processo riparativo, può invece costituire una forma compiuta di tutela e di rispetto della volontà e dell’integrità dei partecipanti. In questa prospettiva, l’orizzonte riparativo non si configura come una mera alternativa al paradigma punitivo, ma come una sua integrazione trasformativa, capace di restituire senso alla giustizia quale spazio etico relazionale e non soltanto retributivo. Elemento qualificante dei Restorative processes è rappresentato dallo spazio dialogico in cui i partecipanti sono messi nella condizione di esprimere il proprio vissuto, nella ricerca di una verità condivisa che si sviluppa alla luce dei precetti dell’ordinamento penale, senza mai porsi in contrapposizione con il diritto, bensì in un’ottica di sua integrazione umanizzante. Non si tratta, è bene precisarlo, di sminuire il reato o di negare la responsabilità dell’autore, bensì di accogliere la complessità relazionale ed emotiva che attraversa ogni evento criminoso. Come ha efficacemente affermato Jacqueline Morineau, si tratta di «dare un posto al disordine» (Jacqueline Morineau, Lo spirito della mediazione, 1998, Parte I): riconoscere e legittimare emozioni profonde come la rabbia, il dolore, la vergogna e la paura, che il sistema giudiziario tradizionale tende a marginalizzare, considerandole irrilevanti rispetto alla stretta logica dell’accertamento penale. Modulandosi sull’esperienza individuale del male, la giustizia riparativa si struttura come un intervento ritagliato sulla singolarità del soggetto, orientandosi così da una logica general-preventiva verso una prospettiva special-preventiva. Essa mira, infatti, a colmare la lacuna emotiva di chi ha agito il male attraverso la promozione della capacità empatica, contribuendo in tal modo a disincentivare la reiterazione della condotta violenta. Inoltre, come già evidenziato, essa si prende carico delle ferite della vittima, offrendo uno spazio di riconoscimento e ascolto, che resta del tutto assente nella prospettiva retributiva, la quale, concentrandosi unicamente sulla sanzione, prescinde dai bisogni relazionali, emotivi e riparativi di chi ha subito il reato. Si tratta, in definitiva, di un approccio che mostra esiti promettenti, come attestato dai risultati, a partire dai primi esperimenti pionieristici condotti in Minnesota fino agli ultimi studi empirici che ne attestano l’efficacia deflattiva ed il livello di soddisfazione percepito dai partecipanti ai programmi di Restorative Justice. L’esperienza della giustizia riparativa rappresenta oggi una delle opportunità più promettenti per riformare il nostro approccio alla violenza, rendendolo più umano, efficace e trasformativo. Tuttavia, per realizzare appieno il potenziale di questo paradigma, è necessario andare oltre la sua semplice previsione normativa nel sistema penale. È d’uopo, a opinione di chi scrive, favorirne una concreta e ampia applicazione, promuovendo una vera cultura della riparazione che non si esaurisca nei confini del sistema penale, ma coinvolga l’intero corpo sociale. Solo riconoscendo nella responsabilità condivisa, nell’ascolto empatico e nel ripristino del legame sociale le vere leve del cambiamento, sarà possibile affiancare alla giustizia retributiva un modello complementare, capace di affrontare la complessità dei vissuti individuali e collettivi che la violenza genera. In questa direzione, le agenzie educative informali – famiglie, associazioni, comunità – sono chiamate a un ruolo centrale: non solo nell’arginare il danno, ma nel coltivare quotidianamente il senso della giustizia come cura, non come vendetta. Solo così potremo trasformare la reazione alla violenza in un’occasione generativa: non più un grido punitivo, ma una risposta consapevole e rigenerante, capace di ricostruire ciò che il reato ha spezzato.
DIRITTO ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Antongiulio Gigante Endoxa maggio 2025 Riconciliazione Vendetta
