CINQUE DECENNI DOPO LA MORTE DI PASOLINI: UN DIALOGO SUL PRESENTE

ANTONIO GIMÉNEZ MERINO

“Ciò che conta è anzitutto la sincerità e la necessità di ciò che si deve dire. Non bisogna tradirla in nessun modo, e tanto meno tacendo diplomaticamente, per partito preso.” («Abiura della Trilogia della vita» [15-06-1975], in Lettere luterane, 1976).

L’incessante interesse per la opera di Pasolini

Dopo le molte attività finalizzate a commemorare il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini (1922-1975), il cinquantesimo anniversario del suo assassinio è un nuovo invito a guardare indietro all’importante eredità di questo autore. Il passare del tempo, anziché toglierle rilevanza, sembra accrescerla, per cui non deve sorprendere che in un paese a lui ostile in vita, come la Spagna, sia stata ormai pubblicata la maggior parte delle sue opere. L’ultima novità è la traduzione delle tre sceneggiature cinematografiche che aveva lasciato praticamente pronte per essere girate: Los guiones no filmados. San Pablo, El padre salvaje, Porno-Teo-Kolossal, Trotta, Madrid, 2025).

Le ragioni di questo vivo interesse sono di varia natura. La prima è enunciata nella citazione di apertura: in tempi in cui la doppia verità discorsiva —un pensiero per sé e uno diverso per il pubblico — è a suo agio, l’impulso pasoliniano a dire le cose senza questo freno sembra uno strumento di intervento necessario e urgente.

Il contesto di questa urgenza è l’eccezionalità del presente, che molti percepiscono già come una sorta di fine di mondo: la disintegrazione fisica del pianeta, l’aumento esponenziale delle disuguaglianze —ormai prive degli ammortizzatori sociali che la generazione di Pasolini aveva conquistato—, la morte di massa di persone innocenti che cercano di fuggire dai loro paesi o la progressione del militarismo, con espressioni apertamente genocidiarie, sembrano condurre a un tragico destino. Ciò contrasta, tuttavia, con l’impressione ancora più tragica che simili espressioni della barbarie contemporanea non sembrino, in generale, avere molta importanza.

Ciò che rende attuale Pasolini è la sua intuizione precoce, intorno agli anni Sessanta, del germe di questa indifferenza: la componente amorale di uno sviluppo materiale senza progresso sociale, che inevitabilmente avrebbe condotto ad una realtà sostanzialmente espropriata dell’elemento democratico e, quindi, a una società priva di interesse per l’azione collettiva.

Il resto delle anticipazioni pasoliniane si possono annodare a questa. Per molti, ad esempio, è preoccupante l’attuale amnesia sulla fragilità dei diritti, nel momento in cui le strutture sociali di vigilanza che hanno dato loro consistenza vengono meno (lo stiamo vedendo con la controffensiva maschile contro i diritti delle donne e delle minoranze o, più drammaticamente, con la rottura forse definitiva del diritto internazionale umanitario a Gaza). La progressiva perdita di consapevolezza della natura storico-sociale di queste forme elementari di protezione che ci siamo dati è anche al centro della riflessione politica di Pasolini

Pasolini in chiave attuale

Ma al di là di queste anticipazioni, un dialogo con Pasolini implica chiedersi immaginativamente quali preoccupazioni farebbero oggi irruzione —in un mondo profondamente trasformato— nella sua testa e come le affronterebbe, tenendo presente qual è stata la fonte —ancora attuale— da cui è scaturito il suo pensiero:

[…] la mia vita sociale in genere dipende totalmente da ciò che è la gente. Dico «gente» a ragion veduta, intendendo ciò che è la società, il popolo, la massa, nel momento in cui viene esistenzialmente (e magari solo visivamente) a contatto con me. È da questa esperienza, esistenziale, diretta, concreta, drammatica, corporea, che nascono in conclusione tutti i miei discorsi ideologici («Sacer» [30-01-1975], in Scritti corsari, 1975).

È stato più volte detto che la società a cui Pasolini si riferiva nel 1975, già molto trasformata rispetto a quella precedente alla normalizzazione del consumismo, oggi non esiste più. Nel 1973, diceva a Enzo Golino: «Oggi per chi lotti se il popolo non esiste più? E poi, contro chi lottare?» («Terra già sommersa», Il Giorno, 29-12-1973). Certo, il mondo in cui siamo cresciuti noi maturi ha poco a che fare con quello in cui crescono i giovani di oggi. Molte cose che ci parlavano —come quelle che parlavano al Gennariello di Pasolini— non esistono più, mentre altre che parlano a loro esprimono idee che non riusciamo a decifrare.

Tuttavia, questo è vero solo in parte.

Non c’è più, infatti, il cascherino (o fornarino) dei lumpen urbani (v. «Ampliamento del “bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia» [11-7-1974], in Scritti corsari, cit.), né l’operaio con coscienza di classe a cui Pasolini si rivolgeva nella sua rubrica di Vie Nuove, né l’«intellettuale impegnato», e nemmeno la vecchia borghesia colta che leggeva Il corriere della sera. Anche la corporeità è stata radicalmente reificata, materializzando le peggiori previsioni di Pasolini. La concezione comunitaria della vita, tipica delle regioni non industrializzate, si è disintegrata con la globalizzazione dei nostri modi di vita. La storia non viene più semplicemente accantonata per superamento, ma viene riscritta quotidianamente al servizio di politiche impopolari.

Ma va ricordato che Pasolini lavorava, allo stesso tempo, su due livelli: quello di un autore prestigioso, capace di raggiungere un vasto pubblico; ma prima di tutto quello di chi aveva deciso, come scelta di vita, di stare dalla parte della gente comune. Qualcosa che è ancora perfettamente applicabile alla realtà del nostro tempo, in cui le figure della esclusione di Pasolini mantengono una continuità oggettiva con i nuovi indigenti di oggi, con i declassati, con gli anziani soli o con i rifugiati. E, in questo senso, è ancora possibile usare la metafora del Palazzo: è possibile continuare a starci dentro e viverci benissimo, godendosi i suoi vantaggi, ma è anche possibile viverne fuori, prolungando una tradizione di resistenza e cercando di conservare la propria dignità (si veda l’acuta riflessione a questo proposito di Juan-Ramón Capella, «Pasolini: tempo di consumo», in Id., La nuova barbarie. La gobalizzazione come controrivoluzione conservatrice, Dedalo, Bari 2008).

Oggi ci sono due tipi di «corridori» disposti a raccogliere il testimone delle lotte precedenti:

Ci sono i giovani che sono consapevoli della disuguaglianza dilagante e della mancanza di prospettive di lavoro, che soffrono nella loro carne l’angoscia per la mancanza di un orizzonte vitale. Giovani che vivono in prima persona la distruzione o la precarizzazione del lavoro determinata dai processi di robotizzazione e dall’espansione delle grande aziende di distribuzione, aspetti che si collegano alla critica pasoliniana della scissione tra scienze applicate e scienze umane già in atto nel suo tempo storico (vale la pena rileggere i saggi sulla linguistica in Empirismo eretico e sul consumismo e l’assorbimento degli intellettuali da parte dell’industria culturale in Scritti corsari e Lettere luterane). I più avanzati di questi «corridori» chiedono un cambiamento occupando la Piazza pubblica, istituendosi come soggetto politico e stabilendo così un legame con tutte le lotte che li hanno preceduti (si veda il film fantastico Orlando ferito [2013] di Vincent Dieutre, sulla metafora pasoliniana della scomparsa delle lucciole).

E ci sono anche altri «corridori» che si ribellano al disastro ecologico e invocano la necessità di imporre limiti allo sviluppo e di distribuire in modo diverso delle risorse sempre più scarse. Queste idee risuonano anche nell’articolo delle lucciole («Il vuoto di potere in Italia», Corriere della Sera, 1-02-1975) e nel documentario del 1970 Le mura di Sana’a, indirizzato all’Unesco, sulla necessità di preservare il patrimonio culturale dello Yemen (che non ha impedito la sua successiva demolizione da parte delle bombe arabo-saudite).

Come organizzare il pessimismo al di là di queste luminescenze passeggere dei nostri giorni: anche se questa è certamente la questione principale, si tratta tuttavia di un problema che fuoriesce dai limiti di questo scritto, il cui modesto scopo è quello di mostrare perché Pasolini sia ancora un libro aperto per le generazioni attuali. E per illustrarlo e concludere, mi permetterò di spiegarlo attraverso un’esperienza in prima persona.

Un’esperienza personale

Qualche anno fa, un documentarista brasiliano mi propose di proiettare un film di Pasolini in un centro culturale afrobrasiliano a Belém, capitale dello Stato amazzonico del Parà e perfetta rappresentazione del mondo delle disuguaglianze, dove la popolazione nativa, massicciamente discriminata, costituisce il gradino più basso della società.

Dopo averci pensato bene, scelsi Uccellaci e uccellini (1966), soprattutto perché è una delle metafore più belle e atemporali della produzione pasoliniana. La sua enorme forza non è solo espressiva, poetica, ma anche comunicativa, dal momento che riesce a portare alla nostra coscienza il problema dell’intera cultura spazzata via dalla storia da uno sviluppo sfrenato (cosa ben nota anche nel Brasile degli ultimi anni). Mi sono chiesto, durante la proiezione, cosa avrebbero pensato gli spettatori, discendenti di schiavi che ancora mantengono vive le loro tradizioni africane, vedendo scene come il frate francescano che cerca di parlare con gli uccelli o Totò e Ninetto che divorano un corvo ideologico. La risposta è stata data dai loro volti sorridenti e lacrimosi, sui quali, all’accensione delle luci, si alternavano il sorriso e le lacrime. Avevano assistito a una favola che, dicevano, per molti versi ricordava la loro…

Quegli spettatori attenti avevano perfettamente compreso il dialogo tra passato e presente proposto dal film, tra il tempo ciclico della campagna, a cui si sentivano ancora spiritualmente legati, e il tempo lineare della città, che li respingeva come reietti.

Insomma, in condizioni di resistenza forzata come quelle attuali, di constatazione dell’irrealizzabilità della falsa promessa di un benessere infinito, Pasolini ci mostra che c’è una massa enorme di persone a cui ci si può continuare a rivolgere, ma ci mostra anche che bisogna farlo tenendo conto della loro voce. E in questo modo continuare a rivendicare il sogno di una cosa proprio nel momento in cui ci viene ripetuto che non ci sono alternative a un modello di società chiaramente disumano.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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