LA MIA MEMORIA ATTUALE DI PIER PAOLO PASOLINI
JUAN CARLOS HERRERA RUIZ
Non sono un esperto della produzione saggistica e di quella letteraria di Pier Paolo Pasolini. Ho letto negli anni stralci di diversi libri sparsi qua e là, nei quali, in ogni caso, ho capito immediatamente che lì si manifestava una coscienza politica estremamente potente, e quindi estremamente pericolosa per le classi dirigenti. Una frase forte e indimenticabile di questo pericolo che il suo pensiero rappresentava per il potere la trovai in un volume autobiografico intitolato Pasolini. Poeta delle Ceneri, dove con brillante ironia descrive il modello esemplare della famiglia italiana del periodo fascista, basata sui valori della piccola borghesia, del patriarcato, della religione, con un termine tratta dall’ambito giuridico: “associazione a/per delinquere”. Niente di meglio in termini di efficacia comunicativa della sua poesia politica. Ho letto anche estesamente sulla stampa quotidiana italiana a proposito del suo misterioso omicidio, ancora irrisolto, che riguarda uno dei miei italiani preferiti.
Negli anni Novanta ho visto con entusiasmo diversi suoi film, e mi ha colpito in particolare il casting degli attori e la versatilità con cui vengono rappresentate le contraddizioni nei rapporti sociali di produzione: ricordo, ad esempio, il motivo gramsciano dell’ottimismo della volontà contro il pessimismo dell’intelligenza, concretizzato nella lotta di classe messo in scena in Mamma Roma, un vero dramma realista; ho apprezzato molto anche l’erotismo che permeava Teorema. C’è un suo monologo magistralmente eseguito nel cortometraggio-documentario del 1974 intitolato Il profilo della città, sulla sfida di catturare cinematograficamente la forma della città, come spazio di relazioni temporali e spaziali artisticamente rappresentate nelle tipologie sociali, nelle immagini e negli scenari vitali che si presentano ai nostri occhi, in un insieme estetico che nasce da una profonda motivazione poetica.
Ma le lezioni di critica sociale e artistica che ho appreso maggiormente, se così si può dire, sono tratte dai video di programmi televisivi e di opinione, in cui Pasolini viene intervistato da solo o nel quadro di un dibattito tra diversi ospiti, nei primi tentativi del formato conosciuto con il termine anglosassone talk show, e che in Italia ha raggiunto quasi il rango di genere letterario. Oggi, per fortuna, questi materiali sono facilmente accessibili su Youtube.
Nei suoi interventi c’era una sorta di presagio, molto negativo, sulle conseguenze deleterie che l’ascesa dei media di intrattenimento di massa avrebbero avuto sulla vita della classe operaia. In questo senso, un’intuizione analoga a quella espressa da Pasolini trova eco nell’agile caratterizzazione fatta de Walter Benjamin in un saggio famoso del 1936 sulla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, in cui rivela le trasversalità tra fascismo, omologazione della coscienza alla lotta di classe e ruolo divulgativo dei media tecnologici. In molteplici occasioni Pasolini metteva in guardia dalla coltivazione di un paramilitarismo di Stato senza scrupoli, che trasforma l’ideologia nel feticcio della merce e che si affidava alla diffusione di contenuti mediatici (all’epoca la televisione ne era la massima espressione tecnologica) per creare una falsa coscienza e la destabilizzazione emotiva delle masse per favorire l’unione tra la borghesia industriale, le élite militari e i signori della guerra alla guida dello Stato.
Sulla stessa linea di pensiero, Pasolini in una di queste interviste dichiarava a proposito dei media, in particolare della televisione, che non potevano avere altra funzione se non quella della massificazione e dell’alienazione, che approfittano dell’ingenuità dello spettatore per porlo in una posizione di inferiorità, di fronte al mezzo, instaurando un rapporto profondamente antidemocratico e autoritario. Già all’inizio degli anni Settanta, Pasolini temeva che la mediazione esercitata dai media avrebbe finito per inglobare tutto e avrebbe portato all’affermazione di un particolare modo di parlare e di pensare del tutto assimilato a chi detiene il potere. E questo si è dimostrato proprio il modo in cui la classe operaia parla e pensa, non appena esce dalla sfera quotidiana o familiare, poiché tutto ciò che viene dall’“alto” è preferibile a ciò che è desiderato dal “basso”. Così, nel linguaggio parlato della classe operaia non c’è nulla che non sia già stato organizzato dal potere, al punto che l’unica cosa che rimane originale nel linguaggio della classe operaia è ciò che non può essere verbalizzato.
Parafrasando le parole Pasolini, è possibile pensare a una forma di “ferocia” sociale e tecnologica, terribilmente ambigua, ma anche agile e ineffabile, che si manifesta nella forma dei media tecnici odierni, che sono eredità o continuazione dei precedenti, in cui il potere assume un protagonismo performativo, quasi da buffone, le cui azioni dirottano l’opinione pubblica, servilmente prona nei suoi contenuti, per ottenere il totale servilismo delle classi subalterne.
Ma questa ferocia ha una portata ancora maggiore nella contemporaneità come creatrice di senso e di matrici di opinione sull’economia, sulla politica, sulla morale, o anche sulle questioni più banali, come le opinioni su un campionato di calcio: oggi si estende all’accademia, predisponendo e riorientando non solo le opinioni, ma anche le certezze di quello che chiamiamo “pensiero scientifico” o “rigore accademico”, per inglobarle in un sistema di conoscenza rassicurante e sicuro, la cui legittimità e ragione sta proprio nel fatto di provenire dal mezzo tecnologico. Così, allo stesso modo in cui l’operaio riafferma nel suo linguaggio le opinioni che gli sono state inculcate attraverso il mezzo di intrattenimento, sia esso il cinema o la televisione, o più recentemente Internet e i social network, l’accademico basa la credibilità del suo discorso e dei suoi prodotti sul grado di relazione che questi hanno con l’algoritmo, in qualsiasi sua forma o variabile, quasi come un atto di fede.
Molto è stato scritto, e con grande rigore, sulla traiettoria artistica e sul pensiero di Pasolini, anche in America Latina, per cui il mio approccio, del tutto marginale, contribuirebbe poco o nulla a nuove interpretazioni sulla sua vasta opera. Vorrei per il momento e a titolo di suggerimento, mettere in relazione le intuizioni sopra citate con l’emergere di un nuovo fattore che rende ancora più spaventosa l’influenza dei media sulle nostre vite, in termini di omologazione e, in generale, del senso che gli esseri umani si formano di ciò che significa essere e stare al mondo: parliamo della crescente influenza dell’algoritmo, e all’interno di questo dell’intelligenza artificiale (AI), come strumento di organizzazione dell’esperienza della realtà, che utilizza il mezzo tecnologico di massa in modo potenziato per impedire, innanzitutto, la formazione di una coscienza di classe delle forze produttive e dei rapporti sociali di proprietà in un determinato momento storico, fissando altre matrici di opinione, canoni artistici, razionalità economiche, modelli etici ed estetici, secondo schemi precostituiti e asserviti al prolungamento di un modo di produzione basato sulla crescita e sul consumismo sfrenato.
Chiediamoci, in via ipotetica naturalmente, come reagirebbe Pasolini di fronte a questo nuovo sviluppo della tecnologia mediatica sulle masse operaie e anche su di noi, nel nostro ruolo di insegnanti o accademici. Nessuna risposta deve essere data per scontata, tuttavia, potremmo anticipare che una prima osservazione riguarderebbe la possibilità stessa di considerare l’IA come intelligenza. L’ipotesi che mi permetto di avanzare è che Pasolini sospetterebbe che l’IA sia uno strumento politico nascosto di modellazione ideologica, ideato per manipolare il significato dei simboli per perpetuare il dominio di classe attraverso le tecnologie informatiche. Le macchine non possiedono una coscienza, ma possono essere programmate per alterare il significato dei simboli, rendendoli funzionali ai gruppi che detengono il potere.
Sono anche tentato di pensare, che la sua diagnosi dell’attuale condizione di vita digitalizzata indicherebbe la presenza di quello spettro che nella contemporaneità Yanis Varoufakis ha proposto di chiamare tecno-feudalesimo, ovvero un nuovo paradigma di produzione che comporta la migrazione del modo di produzione industriale capitalista, come lo conoscevamo fino a poco tempo fa, verso il campo delle piattaforme tecnologiche virtuali, che ora svolgono il ruolo di gestori e mediatori del commercio e del consumo, delle applicazioni e delle risorse educative, oltre a essere i destinatari e i creditori di maggioranza dei profitti della produzione economica globale. Si tratta di una sorta di overlordship tecnologica, che riscuote il “diritto di presenza” in ogni tariffa che impone agli utenti delle sue piattaforme, senza che questi partecipino al processo produttivo. YouTube, ad esempio, è il canale video più popolare e certamente il più redditizio al mondo, eppure è evidente che tra tutti i canali è quello che ha investito meno nella produzione di contenuti: il lavoro è svolto da un enorme esercito di manodopera gratuita, assetata di nuovi contenuti che generano l’illusione della novità e del progresso nel fragile tessuto di quella stessa classe operaia che Pasolini osservava nel suo tempo, ingenua e disorientata, alienata e spossessata del suo potere d’azione. Oggi come allora.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA LETTERATURA ENDOXA LUGLIO 2025 Juan Carlos Herrera Ruiz Pasolini
