LA PRIMA PROVA TEATRALE DI PASOLINI: LA SUA GLORIA

PAOLO QUAZZOLO

Autore estremamente poliedrico, Pier Paolo Pasolini ha attraversato, com’è ampiamente noto, numerose forme di espressione artistica: la riduttiva classificazione quale “poeta”, che per molto tempo gli è stata attribuita dalla critica, si è in oggi rivelata agli studiosi del tutto insufficiente a inquadrare una figura estremamente complessa, ossia quella di un intellettuale calato nella propria epoca e impegnato a capire e interpretare il suo tempo. E ciò è avvenuto attraverso forme molteplici e differenti – la poesia, la narrativa, la saggistica, la critica d’arte o letteraria, il cinema, il teatro, la pittura, il dibattito politico, solo per citarne alcune –, tutte praticate con eguale rigore, che ne hanno fatto un artista unico nel suo genere, capace di esprimersi con linguaggi di volta in volta differenti, adattandoli alla situazione e a quei concetti che egli intendeva comunicare.

In un quadro così complesso, la vocazione teatrale di Pasolini occupa un posto del tutto centrale e assolutamente non casuale, in un percorso di formazione che rivela, da parte dell’autore di Casarsa, grande attenzione verso il dibattito che si stava svolgendo, tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta, attorno alla nascente regia e al bisogno di rinnovare le scene italiane. Illuminante, a questo proposito, una lettera del 1941, dove il diciannovenne Pasolini metteva a confronto la recitazione fortemente naturalistica dell’ormai anziano Ermete Zacconi, con quella più innovativa e sperimentale di Memo Benassi. Ma, in entrambi i casi, Pasolini dimostra insofferenza per la tradizione tutta italiana del grande attore, cogliendo così le inquietudini di una generazione – la sua – che di lì a non molto, grazie a figure di grande rilievo quali Luchino Visconti o Giorgio Strehler, avrebbe finalmente introdotto nel nostro Paese la regia teatrale, limitando così le eccessive libertà dei “mattatori” e attribuendo centralità allo studio del testo e al valore della parola.

Non è quindi casuale che Pasolini si fosse dimostrato entusiasta per uno spettacolo che ha fatto la storia della nascente regia teatrale in Italia, Piccola città di Thornton Wilder, interpretato da Elsa Merlini e Renato Cialente e diretto da un antesignano della messinscena, Enrico Fulchignoni, che il nostro vide al Teatro del Corso di Bologna nel gennaio del 1941. Spettacolo che Pasolini, in un’altra lettera dello stesso anno, definì “interessantissimo” perché toccava “originali e necessari problemi, specialmente di tecnica teatrale”.

Il primo incontro con il teatro era tuttavia avvenuto già qualche anno prima, al tempo del liceo, quando il sedicenne Pasolini decide di partecipare, nel 1938, ai Ludi Juveniles: si trattava di gare sportive e culturali promosse, sin dal 1936, dal Ministero per l’Educazione Nazionale del regime fascista, delle competizioni tra gli studenti delle scuole superiori, in analogia ai Ludi Littoriali, riservati viceversa agli studenti universitari. Sette le sezioni previste: poesia, novella, dramma, articolo sportivo, articolo economico-politico, pittura e scultura. Il tema assegnato nel 1938 per la sezione dramma richiedeva ai candidati di illustrare, in non più di tre atti, un episodio del Risorgimento. Significativo che il “poeta” Pasolini, agli esordi della sua luminosa carriera artistica, avesse scelto di confrontarsi non con la sezione riservata alla poesia, ma piuttosto con quella drammaturgica, consegnando un testo in tre atti dal titolo La sua gloria. Ancor prima, quindi, di misurarsi con la poesia, il giovane Pasolini sente che il mezzo più idoneo per affrontare in modo efficace i conflitti esistenziali è quello teatrale. Perché il palcoscenico è il luogo dove la parola scritta diventa parola detta, dove i sentimenti prendono corpo di personaggio, ma soprattutto la scena è lo spazio dove, attraverso il dialogo, si sviluppano i conflitti, i confronti, le riconciliazioni. In altre parole, Pasolini molto probabilmente sentiva che la poesia poteva dare voce al proprio io solo attraverso una forma monologante, mentre il teatro era in grado di incarnare i conflitti che contrappongono l’io al resto del mondo.

La sua gloria, pur svolgendosi in epoca risorgimentale, è un dramma fortemente autobiografico in cui l’autore proietta se stesso e i propri tormenti sia come poeta sia come uomo: vi è affrontato il rapporto con la madre e quello con il mondo circostante, attraverso la rappresentazione delle relazioni interpersonali, di quelle sentimentali e di quelle politiche. E, soprattutto, anticipa il tema centrale del conflitto interiore vissuto dal protagonista, che sarà uno degli elementi ricorrenti nelle future opere teatrali pasoliniane.

Il titolo dell’opera riecheggia, senza dubbio, il dramma La gloria, scritto nel 1899 da Gabriele D’Annunzio. Rappresentata per la prima volta a Napoli al Teatro Mercadante dalla compagnia di Eleonora Duse ed Ermete Zacconi, l’opera dannunziana era incentrata attorno alla figura di Ruggero Fiamma, personaggio che aspira ad affermare la propria personalità e il proprio potere politico contro le masse che gli si oppongono, in una Roma percorsa da congiure di palazzo e ambizioni personali.

Il dramma pasoliniano ne fornisce una sorta di polemica contro-lettura, laddove alle vuote ambizioni politiche e personalistiche di Ruggero Fiamma, si contrappongono le sincere aspirazioni di Guido Solera, il quale ricerca la gloria prima nella poesia e poi nella lotta patriottica.

Come avverte lo stesso Pasolini in una nota anteposta al dramma, il personaggio di Guido Solera è ispirato alle Mie prigioni di Silvio Pellico e, allo stesso tempo, riecheggia la figura storica di Antonio Solera, patriota italiano condannato a morte nel 1821 e rinchiuso, dopo aver avuto commutata la pena in vent’anni di carcere duro, nella fortezza dello Spielberg. Tuttavia, del Solera storico il Solera personaggio conserva ben poco: il nome proprio, curiosamente, viene tramutato in quello del fratello minore di Pier Paolo, mentre dal punto di vista caratteriale e psicologico, egli è una chiara proiezione dell’autore.

La vicenda è ambientata in una cittadina della pianura padana all’inizio dell’Ottocento. Guido Solera, un ragazzo appartenente a una famiglia borghese benestante, orfano di padre, vive assieme alla madre premurosa e amorevole. Egli è afflitto da un continuo turbamento interiore causato dal contrasto tra la volontà di emergere dall’anonimato per conquistare la gloria in ambito poetico e la paura di non riuscire a comporre dei versi degni di attenzione. Confidatosi con un vecchio amico del padre, Guido comprende che l’Italia, oppressa dalla schiavitù austriaca, ha bisogno dell’aiuto di tutti per potersi liberare: intravedendo la possibilità di essere utile alla Patria e di ottenere la gloria quale eroe, decide di entrare nella carboneria. Ciò provoca un cambiamento di umore nel ragazzo il quale, non più impegnato solamente a scrivere poesie, sembra deciso a godersi anche le bellezze della vita. La serenità, tuttavia, ha breve durata in quanto Guido viene identificato dai gendarmi austriaci, che lo arrestano. In piazza San Marco a Venezia, al di sopra di un palco, Guido e altri condannati aspettano di essere giustiziati, ma all’ultimo momento giunge la notizia che l’imperatore ha concesso la grazia e la condanna a morte è commutata in carcere duro, da scontare nella fortezza dello Spielberg. In carcere, Guido apprende che i ribelli italiani stanno insorgendo e vincendo contro l’austriaco: la notizia genera nel protagonista un nuovo entusiasmo, tanto da iniziare a comporre una poesia inneggiante all’Italia.

Su uno sfondo storico accuratamente ricostruito, Pasolini crea dunque una serie di personaggi sui quali spiccano Guido e la madre, chiare proiezioni di se stesso e di sua mamma. La vicenda posta al centro del dramma si ispira a un fatto realmente accaduto – ossia il processo e la condanna di alcuni membri della carboneria arrestati nel Polesine – per raccontare il quale l’autore dovette sicuramente consultare numerosi documenti dell’epoca. Sul piano compositivo, Pasolini tende ad assegnare alla parola un ruolo fondamentale, ricorrendo spesso a lunghi monologhi o a dialoghi ricchi di contenuti, anticipando, sin da questa sua prima opera, quella teoria esposta nel 1968 nel Manifesto per un nuovo teatro, ove invitava gli spettatori ad assistere a uno spettacolo “con l’idea più di ascoltare che di vedere”. Colpisce inoltre la straordinaria ricchezza di didascalie, che rivela come Pasolini, sin da principio, avesse ben chiaro il funzionamento dei meccanismi teatrali, vedendo il suo dramma non solo dalla prospettiva dell’autore, ma anche da quella, per l’epoca fortemente innovativa, del regista. E, allo stesso modo, deve essere sottolineata la capacità di Pasolini nel caratterizzare ogni personaggio con un linguaggio differente, assegnando ai borghesi un italiano colto, ai popolani il dialetto di Venezia, ai gendarmi austriaci un lessico ricco di storpiature e dalla caratteristica cadenza teutonica. Una chiara volontà, apprezzabile sin da questa prima prova, di sfuggire a un livellamento espressivo e soprattutto di evitare sulla scena un italiano che si scrive ma che non si parla: negli anni a venire Pasolini interverrà più volte sull’argomento, con attacchi e critiche anche molto aspri.

Già in questa prima opera drammatica pasoliniana è possibile rinvenire molti dei temi che caratterizzeranno la successiva produzione, non solo teatrale, dell’autore. Innanzitutto il tema della gloria che viene ricercata dal protagonista attraverso il mezzo della poesia e della lotta patriottica: la paura di non riuscire a emergere, di confondersi nella moltitudine, affligge l’animo di Guido sin dalle prime pagine del dramma. Pasolini, per mezzo di lunghi monologhi, affida al suo protagonista una serie di riflessioni nelle quali l’autore proietta se stesso, le proprie insicurezze, il desiderio di poter emergere quale letterato. Ma, le aspirazioni di Guido, poeta e patriota, non sono altro che un’anticipazione di quel doppio ruolo intimistico e civile che Pasolini affiderà alla poesia: come Guido abbandonerà i versi intimisti per ricercare la gloria attraverso una serie di atti concreti, così Pasolini, sempre attento alle sorti dell’Italia, tenterà la non semplice operazione di restituire alla poesia una funzione civile.

Allo stesso modo, Pasolini mette a fuoco il complesso tema dei rapporti sociali, che egli individua in due nuclei fondamentali: il legame con la madre e il confronto con la società. Rinchiuso nello Spielberg, Guido non smette mai di pensare alle due “madri” da cui è stato strappato, quella biologica e la Patria. E la lirica cui mette mano in chiusura del dramma rispecchia la volontà del poeta di scrivere da un lato parole che testimoniano l’orgoglio di appartenenza alla propria nazione, e dall’altro di dare voce a quella intimità poetica che lo lega fortemente alla figura materna. Proprio come nella vita dell’autore, laddove la figura della madre ha sempre occupato un posto di assoluto rilievo.

La sua gloria propone infine un altro tema che tornerà costantemente nella successiva produzione artistica di Pasolini: quello del sacrificio. Come ben noto, l’autore, nel corso della sua vita, fu spesso perseguitato per la sua omosessualità, per le sue idee politiche, per la vis polemica, per il suo essere considerato, in qualche modo, un “diverso”, un uomo che attraverso i suoi comportamenti e il suo pensiero, spesso sfuggiva alle regole della buona società borghese. Non può non colpire, in questa prima opera teatrale di Pasolini, come l’autore abbia voluto proiettarsi in un personaggio che risulta essere vittima di persecuzioni da parte degli austriaci, il quale, per sostenere le proprie idee, va incontro a privazioni, rinunce e alla fine anche al sacrificio di se stesso. L’estrema rinuncia alla vita che accompagna il percorso di Guido preannuncia quella tematica mortuaria che in seguito si collocherà al centro dell’universo poetico pasoliniano. Il protagonista di La sua gloria tuttavia non morirà, ma la condanna al carcere duro deve essere interpretata come una sorta di prolungamento del martirio, un ampliarsi del solitario cammino di dolore. Di più, la condanna a morte che avrebbe potuto consacrarlo quale eroe sul pubblico patibolo di piazza San Marco, viene tramutata in una grazia che converte il martirio in un sacrificio silenzioso. Proprio come accadrà a numerosi eroi di opere future, condannati a un tacito patimento e a una morte di cui quasi nessuno si accorge.

Sin dal primo dramma, Pasolini sente il bisogno di utilizzare il teatro quale efficace mezzo per indagare se stesso, avviando così un percorso di confessione che investe l’intero arco delle sue opere drammatiche, sino a Bestia da stile, l’ultimo dramma cui pose mano nel 1966 e che continuò a rimaneggiare sino a poco prima della morte. La scelta di rappresentare sé stesso attraverso un personaggio storico, non resta un caso isolato. Nei Turcs tal Friúl, per esempio, Pasolini si proietta nei due fratelli Pauli e Meni, anch’essi personaggi storici rivisitati sullo sfondo dell’invasione turca del Friuli avvenuta nel 1499. E, d’altra parte, anche nel caso di una ambientazione contemporanea, come avviene in Bestia da stile, Jan, un poeta ventenne impegnato nella lotta politica, presenta una forte similitudine con Guido Soleri.

Il tormento interiore e la contrapposizione al potere sono dunque i due temi attorno ai quali ruotano le confessioni pasoliniane sul palcoscenico. Guido Solera è tormentato dalla ricerca della gloria e allo stesso tempo si ribella al potere austriaco; Pauli e Meni sono angustiati dal loro opposto modo di porsi di fronte alla vita – uno riflessivo, l’altro ribelle – ma entrambi insorgono contro il turco invasore; Jan, dopo aver visto fallire i propri progetti in ambito artistico e politico, sceglie di morire. Ma anche nei drammi di ambientazione più fortemente borghese, non è difficile scorgere nei protagonisti quella sfida alla morale conformista che aveva caratterizzato la vita di Pasolini. Così, per esempio, Julian in Porcile, Rosaura in Calderòn, l’Uomo e la donna in Orgia, o il Padre e il Figlio in Affabulazione.

Pasolini, dunque, dà vita a dei drammi dai quali non può mai considerarsi del tutto avulso: egli stesso, in un verso di Calderòn, affermava significativamente che l’autore, “pur guardando da fuori del quadro, ne è dentro”: in una sorta di gioco di specchi, come il pittore compare all’interno della sua stessa tela, così il drammaturgo si manifesta attraverso i personaggi del suo lavoro drammatico.

Ma, naturalmente, si tratta di un gioco ricco di trasfigurazioni: nel rappresentare se stesso sul palcoscenico, Pasolini ha sempre rielaborato la sua figura rivisitandola e filtrandola attraverso innumerevoli rimandi culturali. Solera può essere quindi visto come una sorta di esperimento destinato in seguito a essere riproposto di continuo. D’altra parte, non è un caso, che in tutti i testi ove l’autore ha ritratto se stesso, compare puntualmente anche la figura della madre, sempre pronta a sostenere il protagonista, ispirata al reale modello materno e riproposta ripetutamente, in modo quasi identico, non solo all’interno della produzione teatrale.

La sua gloria è stato pubblicato per la prima volta nel 1996, dopo che un gruppo di studenti del Liceo Scientifico “A. Righi” di Bologna, nel corso di un lavoro di ricerca condotto presso l’Archivio di Stato bolognese, ebbe la ventura di imbattersi in un fascicolo relativo ai Ludi Juveniles. Qui, assieme ad altri elaborati risalenti al 1938, gli studenti ebbero la sorpresa di ritrovare questo dramma pasoliniano, di cui si era persa la memoria. Il rinvenimento ha avuto quale conseguenza non solo l’aggiornamento del numero di opere drammatiche scritte da Pasolini – che è salito da dodici a tredici – ma soprattutto ha consentito di anticipare di sei anni l’incontro dell’autore con il teatro. Sino alla metà degli anni Novanta, infatti, si riteneva che la prima opera teatrale di Pasolini fosse I turcs tal Friúl, scritta nel 1944. Anticipare al 1938 la scrittura del primo testo teatrale ha consentito di attribuire non solo un maggiore peso a questa espressione artistica nella formazione culturale dell’autore, ma anche di rileggere sotto nuova luce l’intero percorso culturale di Pasolini.

Dunque un esordio letterario avvenuto attraverso il genere drammatico, un testo in cui l’autore abbozza molti dei temi che lo accompagneranno lungo tutta la sua molteplice produzione artistica. Leggendo La sua gloria, si ha l’impressione che Pasolini avesse quasi coscientemente voluto porre le basi sulle quali erigere la sua futura opera letteraria: l’autobiografismo, la figura della madre, l’amore per la Patria, il senso di ribellione, l’impegno politico, il martirio, la morte e infine la gloria. Quella gloria desiderata sin da giovanissimo e che riuscirà a ottenere non senza sforzi e sacrifici. Una gloria voluta a tal punto da partecipare a una competizione letteraria del regime fascista, senza tuttavia adeguarsi allo stile solenne e celebrativo imposto all’epoca. Come ha ben sostenuto Stefano Casi, primo studioso di questo lavoro pasoliniano, già in La sua gloria l’autore dimostra una lucida determinazione a diventare ciò che poi, effettivamente, è diventato, ossia un letterato famoso e un uomo costantemente impegnato nell’ambito politico e sociale.

ENDOXA - BIMESTRALE LETTERATURA TEATRO

Lascia un commento