MAMMA ROMA: TRA INVENZIONE DEL QUOTIDIANO, IPERREALISMO E GIUDIZIO DEGLI ALTRI
EUSEBIO CICCOTTI
- Dal neorealismo al post-neorealismo
Per la maggior parte degli storici del cinema la grande stagione de neorealismo si conclude intorno ai primi anni Cinquanta. Tra gli ultimi capolavori vi sono: Germania anno zero (1950, R. Rossellini); Bellissima (1951, L. Visconti) Umberto D (1952, V. De Sica), Il tetto (V. De Sica, 1956), Il ferroviere (P. Germi, 1956).
Una vena “realista”, staccatasi dal troncone “neorealista” (non più attori presi dalla strada; non più pedinamento oggettivo, non più solo dialetto), si ibriderà in diverse soluzioni: nel realismo-fantastico (proprio grazie a uno dei maggiori “teorici” del neorealismo duro e crudo: Cesare Zavattini) con film quali Miracolo a Milano (1951) o Giudizio universale (1961). Si coniugherà, al contempo, con il realismo “esistenzialista” di un Federico Fellini (La strada, 1954) e di Roberto Rosellini (Viaggio in Italia, 1954), ma anche con l’introspezione psicologica di Michelangelo Antonioni (Il grido, 1957).
Poi, ecco “un colpo di coda” agli inizi dei Sessanta: arriva il realismo dalla forte denunzia sociale con I delfini (1960, F. Maselli), I basilischi (1963, L. Wertmüller), e, finanche, politica, Le mani sulla città (1963, F. Rosi,); senza tralasciare nei soggetti una venatura sociale-esistenziale con Io la conoscevo bene (P. Germi,1965: qui il regista inserisce sequenze con la camera a mano). Mentre, su altri versanti stilistici, un Fellini, ad es., segue la propria strada, tra realismo ricostruito e/o trasfigurato, filosofia esistenziale, psicanalisi, analisi dell’io diviso (1960, La dolce vita; 1963 Otto e mezzo).
Pier Paolo Pasolini esordisce come regista nel 1961 con Accattone cui segue Mamma Roma nel 1962. Egli arriva dalla letteratura, con due capolavori inediti nel panorama italiano, sia per tema (le borgate di una città di tre milioni di abitanti: «E cche proprio a mme dovete portà’ ‘n questura? Su ttre milioni d’abbitanti che ce só a Roma!»: Accattone ai due poliziotti in borghese che intendono identificarlo), sia sul piano stilistico, creando un realismo duro e crudo. Un’innegabile oggettività supportata da una sorta di “regressione verghiana” (scriverà poi il regista-scrittore), e in cui l’italiano standard cammina intersecato al dialetto del neo-romanesco anni Cinquanta (cfr. E. Ciccotti, Appunti sul romanesco nella finzione cinematografica, in Franco Onorati e Marcello Teodonio (a cura di), La letteratura romanesca del secondo Novecento, Roma, Bulzoni 2001): nei due romanzi Ragazzi di vita (1956) e Una vita violenta (1959), e poi in altri racconti; ma anche ricorso ad altri dialetti (Accattone), dimostrando di aver ben studiato il “caso” del Pasticciaccio (1946- 1957) di Carlo Emilio Gadda.
«I primi film [di Pasolini] tentano di trasferire dalla pagina allo schermo il mondo dei suoi “ragazzi di vita” e in seguito il suo sguardo si allarga a tutta la cultura letteraria fino alle forme più antiche della tragedia e del mito […]. Con il cinema [Pasolini] cerca di salvare delle figure di giovani senza storia e di dar loro una vita eterna proiettandoli da subito nella dimensione del mito. […]. Da Accattone in poi cerca di muoversi in direzione non naturalistica e di imprimere alle vicende un ritmo che conferisca a ogni gesto e a ogni battuta quasi un valore riturale: ogni evento nella vita di Accattone, Ettore e Stracci, i protagonisti di Accattone, Mamma Roma e La ricotta, si svolge secondo i momenti e le scansioni proprie del rito e del mito. L’eroe percorre tutte le tappe d’una parabola esistenziale che passa per l’iniziazione, la passione, e si conclude inevitabilmente nella morte. […]. La rappresentazione perde il senso della narrazione e del racconto lineare per acquisire la forma di un polittico in cui l’insieme è scomposto in tante unità autonome». (Gian Piero Brunetta, in G.P. Brunetta (a cura di), Dizionario dei registi del cinema mondiale, Torino, 2006, Einaudi, p.28).
- La recitazione irrealistica in Accattone e Mamma Roma.
Per il racconto socio- antropologico delle periferie e borgate della Roma inizio anni Sessanta (Accattone e Mamma Roma), Pasolini crea un suo “realismo ricostruito” ibridato di diversi generi, lontano dal neorealismo. Mantiene solo due aspetti della estetica neorealista: il ricorso ai dialetti (Accattone: romanesco e napoletano), (Mamma Roma: romanesco) e agli attori “presi dalla strada”, ossia non professionisti. Per il resto appare influenzato dalle nuove poetiche della fine anni Cinquanta della nouvelle vague francese (Jean-Luc Godard, Alain Resnais, François Truffaut, e dalle tecniche del teatro dell’assurdo, in cui il protagonista, svuotato del suo ruolo da vincente, tende a comportarsi come un antieroe.
Ciò appare evidente in tutti gli aspetti della diegesi: recitazione, scenografia, regia. Pasolini evita un racconto naturalistico, come ben individuato da Brunetta, ma ibrida, a nostro avviso, su una base documentaristica (pensiamo alle povere case e baracche di periferia in Accattone; ai prati sporchi, spelacchiati, a tratti rocciosi, inframezzati da resti dell’acquedotto romano, in entrambi i primi due film), soluzioni iperrealiste, simboliche, da assurdo quotidiano
L’incipit di Mamma Roma, per esempio, appare allegorico, quasi “dadaista”: vediamo tre porcellini, “vestiti”, che Mamma Roma (Anna Magnani) spinge nel salone dell’osteria aiutandosi con una scopa, «incravattati, uno ha un cappello in testa, uno con un fiocco sulla coda, uno con un paio di giarrettiere» (Pier Paolo Pasolini, Mamma Roma. La prima sceneggiatura, Milano, Rizzoli, 1962, p. 9). Ella, rivolgendosi alla sposa, Clementina, le provoca: «A sora sposa ecco i nostri fratelli […] te presento i tu cognati!» L’allusione è ai parenti del neo-marito, il pappone Carmine (Franco Citti), che ha lasciato Mamma Roma, donna matura, per la giovane e non bella Clementina, ragazza della campagna romana («burina»). (Nel film, poi, forse per prevedibili problemi di censura, non abbiamo la “porcellina” con le giarrettiere).
In Accattone, il personaggio principale, Accattone (Franco Citti), recita volutamente sopra le righe, ad alta voce. Si muove enfatizzando i movimenti del corpo; movimenti poi “esagerati” da Ettore (Ettore Garofolo), con la sua camminata eccessivamente dinoccolata, basculante, quasi disarticolata (Mamma Roma).
È innegabile come, agli attori “presi della strada”, Pasolini imponga una recitazione iperbolicamente realistica da sconfinare nell’iperrealismo, nel simbolico. Soprattutto, egli interviene sulla risata, considerata non solo semplice sfogo, ma modo di essere del soggetto, di chi vive ai margini della società del benessere, una arma per dichiarare la propria esistenza da escluso dal rapido processo industriale: che tu sia prostituta, pappone, ladro, ragazzo (Ettore) o ragazza (Bruna) disoccupato/a e senza avvenire.
Sia in Accattone che in Mamma Roma le risa dei personaggi sono, anticipavamo, eccessivamente sgangherate, con sovratoni striduli. In Accattone, per esempio, le risa del protagonista e dei suoi amici nelle scene al bar (un bar vagamente ricostruito, senza la preoccupazione del verosimile), alternate agli sfottò reciproci, sono volutamente insistite, irrealistiche, sguaiate: con la camera fissa su mezze figure o prima piani di bocche esageratamente spalancate, ad evocare tratti espressionistici.
La risata “esagerata” lo si incontra sin dall’inizio di Mamma Roma. Nella scena del pranzo nuziale, che figurativamente è una citazione provocatoria dell’Ultima cena di Leonardo, quella introdotta dai tre porcellini di cui sopra. Qui Pasolini, consigliato da Sergio Citti («collaboratore ai dialoghi»), offre una tipica sfida a stornelli, o “stornellata” in romanesco, tra Mamma Roma, Carmine (Franco Citti), suo ex marito, e Clementina, la neo-sposa. Gli invitati, lo ricordiamo, sono in maggioranza «burini parenti della sposa e zoccole e papponi, parenti dello sposo» (Pier Paolo Pasolini, Mamma Roma. La prima sceneggiatura, cit., p.10).
Ebbene, nelle indicazioni di regia della sceneggiatura si legge: «Mamma Roma ride con la bocca come un forno». E più avanti, mentre la sfida a stornellate prosegue tra i tre, con allusioni volgari, Mamma Roma ride oltre ogni ragionevole limite tanto da far dire a un convenuto:
«1° Pappone – “Me pari ‘n’annaffiatore. Ma che ciài d ride! Almeno faccelo capì pure a noi perché ridi! Hé!”
Ma Mamma Roma lo guarda con gli occhietti stretti dall’irrefrenabile risata. […]
E lei continua a sbudellarsi dal ridere» (Pier Paolo Pasolini, Mamma Roma. La prima sceneggiatura, cit. p. 12).
I ladri, le prostitute, i papponi, delle borgate o delle periferie, non fanno altro che ridere spalancando la bocca. Un modo per difendersi attaccando l’eventuale nemico. Ma si ride sguaiatamente anche per nascondere le proprie debolezze. Una risata surreale, siamo in Accattone, scoppiata per la disperazione della fame (nella vita normale non accade) è quella che trascina, contagiosamente, Accattone e i suoi quattro amici, mentre stanno tentando di cucinarsi degli spaghetti a casa di Fulvio. Mentre attendono che l’acqua bolla, uno di loro ha iniziato a mangiare un fiore da un vaso: scatta una irrefrenabile, contagiosa, insistita risata: la mdp inquadra i primi piani con le bocche spalancate, qui con le bianche dentature perfette, lì con dei buchi neri e denti malmessi.
La risata iperbolica, esagerata, è, dunque, un tratto recitativo stilistico antinaturalistico che Pasolini impone a quasi tutti gli attori in questi due film, ma, andrebbe ricordato, la scelta fu inaugurata nella sua sceneggiatura La notte brava (1959, poi regia di Mauro Bolognini): nella scena d’apertura due prostitute, colte mentre si litigano i clienti a Caracalla, accompagnano le loro crescenti offese e minacce reciproche con risate aggressive, mostrando le loro magnifiche dentature.
Altro elemento antinaturalistico nella recitazione lo si ritrova nei dialoghi. In Mamma Roma, Garofolo, doppiato, parla quasi controvoglia, senza partecipazione emotiva, in una sorta di anti-recitazione. Lo stesso accadrà con Accattone: in alcune scene Franco Citti recita come ste stesse parlando a fatica. Sembra che Pasolini intenda far recitare i suoi personaggi sotto-proletari non secondo una oggettività documentaristica, una partecipazione emotiva nell’ articolare la frase, come visto con Lamberto Maggiorani in Ladri di bicilette o Anna Magnani in L’onorevole Angelina; o come il Vittorio De Sica, di dieci anni dopo, in Il generale della Rovere (1960), ma, appunto, optando per una recitazione antipsicologica, spiazzante. Un ricorso a un codice “anti-recitativo” mutuato sia dal teatro dell’assurdo, sia assumendo l’esperienza dell’antieroe piccolo borghese (Jean-Paul Belmondo) ammirato da Pasolini in À bout de souffle (1959, Jean Luc Godard,) ma anche dell’anti-recitazione di Paul Newman che arrivava in Italia con The Long, Hot Summer (1957).
Pasolini chiede che anche il resto del corpo diventi espressionista. Pensate alla lotta nella polvere tra Accattone e il fratello della sua ex moglie: parte come violento scontro per poi trasformarsi, per alcuni secondi, in un abbraccio quasi erotico, mentre i due corpi si rotolano nella polvere della strada sterrata, per poi tornare a sussultare nella lotta per il domino sull’altro.
Dove non può del tutto cancellare il substrato “neo-realista” nella recitazione è nella direzione di una attrice, ormai da anni codificatasi come realista: Anna Magnani. Qui, se intende dirigerla in maniera anti-naturalista, allora deve lavorare sul testo da far recitare alla Magnani, sul rapporto con gli altri personaggi: insomma, sulla regia in generale; oltre che, naturalmente, contando sulla risata cui ella presta volentieri le sue performance.
3. Regia iperrealistica e visionaria
È nella regia, dunque, che Pasolini mostra il suo realismo ibrido. Dettagli (gli occhi del poliziotto che pedina Accattone), panoramiche e carrellate “documentaristiche” su borgate segnate da strade di terra, case non rifinite, con muratura frammista a bandoni, tende alle porte, o semplice baracche ad uso abitativo (Accattone). Ma anche neo-periferie del secondo Novecento, con palazzine INA-casa, in CLL (qui Pasolini si ricorda di Il tetto, 1956, Vittorio De Sica), cresciute come funghi, senza piano regolatore, tra quei prati aridi (dove le prostitute si adagiano con gli amici di una notte: introdotti da Pasolini stesso nella ricordata sceneggiatura di La notte brava); quei prati non curati di Mamma Roma, rivestiti di sterpi o erba bruciata dal sole, con a muti testimoni di un tempo mitico, astorico, i brandelli dell’acquedotto romano; quei prati divorati dalle scavatrici e dalle benne; quei pezzi di prati, con accanto qualche sparuto gregge di un mondo di allevatori in via di estinzione, dove Bruna “incontra” Ettore o si “diverte” con i suoi amici interessati solo al suo corpo, mentre questi è innamorato della ragazza.
Ebbene, questi pezzi di realtà, sono sì oggettivi, ma, tramite il montaggio, la musica barocca, resi al contempo a-storici, come congelati in un passato senza tempo, divenuto mitico, insomma un Eldorado al contrario, una lontana età dei poveri.
Pasolini propone un realismo a-realistico, narra uno spazio che era certamente là, tra quella baracche e quei prati, tra quelle strade asfaltate della nuova periferia, dove le figlie di nessuno “battono”; mostra stradine e piazzole sterrate, vere, dove si vive con la spazzatura trasportata dal vento; un mondo tra neo-palazzine e avanzi di prati spelacchiati. In questo spazio Pasolini inventa, narrando, un suo quotidiano
4. Inventare il “realismo” quotidiano tramite la narrazione
In L’invenzione del quotidiano, Michel De Certeau distingue tra spazio e luogo.
«È un luogo l’ordine (qualsiasi) secondo il quale degli elementi vengono distribuiti entro rapporti di coesistenza. Ciò esclude che due cose si possano trovare nel medesimo luogo. […]. Un luogo è dunque una configurazione istantanea di posizioni, Implica una indicazione di stabilità.
Si ha uno spazio dal momento in cui i prendono in considerazione vettori di direzione, quantità di velocità e la variabile del tempo.
Lo spazio è un incrocio di entità mobili. È in qualche modo animato dall’insieme dei movimenti che si verificano al suo interno. È spazio l’effetto prodotto dalle operazioni che l’orientano, lo circostanziano, lo temporizzano lo fanno funzionare come unità polivalente di programmi conflittuali o di prossimità contrattuali” (De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro, 2001 trad. Mario Baccianini, pp. 175-176; L’invention du quotidien. I L’arte de faire, Éditions Gallimard, Paris, 1990).
Sembra che De Certeau stia parlando del cinema del primo Pasolini, in particolare delle note sequenze pasoliniane risolte con lunghissime carrellate all’indietro (o backward tracking shot) di Accattone e Mamma Roma. Sequenze in cui i protagonisti attraversano la città, a piedi, marcando uno proprio spazio antropologico, identitario, in una unità polivalente, uno spazio dei poveri, risolto, sul piano estetico, come notato, in chiave iperrealista e simbolica. Insomma soluzioni linguistiche che consentono a Pasolini di inventare il suo quotidiano. Rivediamo queste sequenze.
5. Lo spazio carrellato in Accattone
In Accattone abbiamo due backward tracking shot chiamati a supportare un dialogo-monologo del protagonista, appunto Accattone (Franco Citti). Nel primo (7”), l’uomo attraversa la borgata con un suo amico, Balilla (soprannome), il quale entra in campo e gli cammina affianco, iniziando a parlargli provocandolo. Prima gli chiede, ironicamente, che ne è della sua automobile e, poi, dove sia finito «[…] tutto l’oro che c’avevi?» (ossia la catenina d’oro e gli anelli). Infine, gli rinfaccia d’essere un fallito: «Io sò’ nnato coll’istinto de fa er ladro. Tu no! Nun sei nato coll’istinto de fa’ er pappa, ma l’accattone». Poi Balilla si stacca, durante la camminata, da Accattone, per andare verso un bambino sul bordo della via, e Accattone, con gli occhi chiusi, sempre camminando a favore di camera, risponde convinto che Balilla gli cammini accanto; ma quando si accorge che sta parlando al vento, sputa in terra in segno di disprezzo.
Il secondo carrello a precedere (1’ e 50”) è la scena in cui Accattone affianca Ascenza (Paola Guidi), sua moglie (ma i due non vivono più insieme), mentre ella sta tornando dal lavoro, con un infante in braccio. La donna non si ferma alla richiesta dell’uomo che vorrebbe scusarsi, essere ascoltato, essendo ancora suo marito. Quindi Accattone è costretto a parlarle seguendo la donna che mai si volta verso di lui, mantenendo lo sguardo in avanti verso lo spettatore (ma non in camera).
Queste due soluzioni registiche, pur esibendo un codice di ripresa realistico- documentario (con le case della borgata in pessimo stato che sfilano ai lati dei due; i campi abbandonati; qualche solitario e dimesso passante), compongono un’immagine iperrealistica, alla Edward Hopper, e con tratti assurdi. Notiamo, innanzitutto, due camminate diverse: quella di Accattone, con il solito andamento in cui le parti del corpo sembrano scollegate (ciò sarà più accentuato, come detto, in Ettore di Mamma Roma); al contrario, l’andatura di Ascenza risulta impostata, da signora, pur con la difficoltà di tenere in braccio l’infante.
Pasolini evita la prevedibile recitazione neo-realistica, non facendo voltare Ascenza verso l’uomo, quando gli risponde, in un prevedibile campo/ controcampo, secondo la grammatica classica; né permettendo ad Accattone di bloccare il
procedere di Ascenza come ci si aspetterebbe in una discussione tra i due, visto che l’uomo intende parlare a quella che è ancora «mi moje». Come dice De Certeau lo spazio messo in atto in queste due carrellate a precedere, è un perfetto campo di tensioni conflittuali risolto magistralmente con una sorta di anti-recitazione: nella prima carrellata addirittura Accattone cammina ad occhi chiusi; nella seconda Ascenza guarda in avanti, verso un futuro altro che lo spettatore deve immaginare.
6. Lo spazio carrellato in Mamma Roma
Parimenti, in Mamma Roma abbiamo più di una carrellata. Ma due sono le carrellate
– in realtà anche qui due backward tracking shot – con al centro Anna Magnani, a supporto visivo di due “monologhi-autobiografici” della protagonista. La prima carrellata-monologo è l’addio alla “vita” di strada, quando felice si sta per trasferire nella nuova casa con suo figlio Ettore. La seconda, triste e depressa, è il rientro forzato in quella “vita”, costretta dal ricatto di Carmine, il suo ex pappone, «Si nun ci torni [“a battere”] dico a tu fijo, a Ettore, chi eri!»
a. L’addio alla “vita da strada” (backward tracking shot: 4’34”).
Mamma Roma si è staccata dal gruppetto delle prostitute, le saluta, euforicamente, ad alta voce: «Addioo!»: ora inizia la sua passeggiata di addio (un unico carrello a precedere). La giovane “collega” Biancofiore la accompagna per un tratto. Poi la lascia e subentra un aviere in libera uscita, cui ella prontamente gli dice «Io mica batto!». Adesso parte il suo “monologo-confessione”, guardando in avanti, come se informasse il soldato, ma sta parlando in realtà allo spettatore: «O sai che da tanti anni che sto da ‘ste parti nessuno sa cchi sò io? […] Davanti a casa mia ce sta un vecchio […]». Il soldato la lascia, esce di campo dicendo a un uomo che entra al suo posto, affiancando la donna «Te lascio la fiaccola!». Mamma Roma continua:
«[…] faceva tutti i muri maestri belli, co’ tutti i cessi, ce se poteva magnà’!». L’uomo esce di campo e la affiancano due gay, che ogni tanto lanciano una esclamazione per sorreggere il monologo, e una coppia di giovani silenti. «[…] lui c’aveva 65 anni e io 14! Me sò’ sposata da piccola italiana! […] Questo è vecchio, c’ha la bava alla bocca, questo more, more! Me dicevano […] Quanto puzzava!». Un gay, con voce molto effeminata, come quelli delle barzellette del tempo:
«Poveretta, t’hanno fatto sposà’ ‘n vecchio!»
b. Il ritorno forzato alla “vita da strada” (backward tracking shot: 4’52”)
Mamma Roma, inizialmente triste e sconsolata inizia la lunga “passeggiata” (carrellata a precedere) con accanto ancora la giovane “collega” Biancofiore, che le fa bere un goccetto di cognac, per tirarsi su. Poi ella dà via al suo sfogo accusando le prostitute (inclusa lei stessa) della responsabilità di quella scelta. Quasi parodiando quello che le ha detto un prete, e interrompendo il tono grave della autoaccusa, con la solita assurda risata. Soprattutto colpevolizza le prostitute responsabili dell’infelice destino dei propri figli. Biancofiore esce dal campo e la affianca un imbianchino. La donna continua il suo racconto di quando si sposò per la prima volta con un uomo che fu arrestato sull’altare, e di come tutti i parenti del suo primo marito, con cui non consumò le nozze, fossero figli di ladri e prostitute, a loro volta figli di ladri e prostitute. Infine, tre clienti la avvicinano, mentre lei chiude il monologo-autobiografico, gli occhi spalancati verso il cielo, addolorata, con una domanda secca sul suo infelice destino: «Spieghemelo te! Io non so niente de niente! Tu sei il Re dei Re!».
Sono tre gli aspetti estetico-linguistici inconsueti all’interno di un film dal tono comunque “realista”: «il mio realismo lo considero un atto d’amore […].» (P. P. Pasolini, in «Città aperta», nn.7-8, aprile-maggio 1958). Innanzitutto l’opzione della carrellata ininterrotta, quasi esagerata, a precedere il personaggio: scelta estetica spesso usata nel documentario. Ma qui la resa è chiaramente anti- documentaria. Questa ripresa “dal vero” è, per l’appunto, interrotta continuamente, intenzionalmente, dall’entrata in campo e la conseguente uscita, dei diversi personaggi, i quali, come in una sorta di simbolico girotondo schnitzleriano, conferiscono al racconto una dimensione che va dal realismo all’onirico, allineando delle immagini staccate logicamente ma collegate metaforicamente, in una sorta di “polittico”, come propriamente notato da Gian Piero Brunetta.
La “collega” Biancofiore, l’aviere, l’imbianchino, i due gay, i clienti per bene, sono il mondo notturno di Pasolini, reale ma presentato tramite immagini isolate da un contesto neorealistico, in una recitazione allusiva: il cliente, per esempio, mai passeggia accanto a una prostituta, ma la avvicina rimanendo in auto (come abbiamo visto in La notte brava).
Ultimo elemento irrealistico e la recitazione di Anna Magnani: volutamente sopra le righe, la voce alta e alterata, ma autoironica; con, ogni tanto, l’immancabile esagerata risata, isterica: una sorta di difesa, un rito esorcizzante, nei riguardi di quel mondo violento e falso in cui ella è dovuta crescere, schiava di un destino che ha tentato vanamente di cambiare.
7. Il giudizio degli altri
Come nella tragedia greca o nel romanzo ottocentesco di taglio realista, il destino dei perdenti appare indirettamente segnato sin dall’inizio della vicenda. Mamma Roma ha lavorato per anni per tirare su Ettore, pagando una famiglia, in un paese della campagna romana ai confini con Roma (nella sceneggiatura non è indicato; poi nel film sarà la periferia di Guidonia, quartiere di Colle Fiorito), dove il bambino è cresciuto.
A Roma, ora, ella ha preso un nuovo appartamento, vuole che suo figlio cresca in città (non «dai burini»), insieme a lei, frequentando dei bravi ragazzi. La donna cerca di cancellare la propria vita di ex prostituta; ha aperto un banco al mercato della frutta. Sta vivendo una vita onesta. Inizia a frequentare la messa domenicale, dove conduce Ettore (che la segue controvoglia), per chiedere al parroco (è lo scrittore Paolo Volponi), vanamente, un posto di lavoro. Vuole essere rispettata come una persona per bene. Ci tiene al giudizio degli altri. Assolutamente non vuole che Ettore sappia del suo passato. Ella si sta creando, a fatica, un suo onore:
«l’onore riguarda le qualità che ognuno può attribuire apertamente e pubblicamente a sé stesso» (Arthur Schopenhauer, Il giudizio degli altri, Rizzoli-Corriere della Sera, 2020, trad. Bettino Betti, p.73).
Mamma Roma, tramite il suo soprannome, rappresenta, come i personaggi di Charles Dickens tramite i loro nomi (cfr. infra), non tanto un principio etico astratto, un giudizio morale, per es., una ex prostituta in cerca di redenzione, ma una identità in carne ed ossa, ben definita, fuori dalle categorie morali, dal pre-giudizio. Pasolini cerca di ritrarre semplicemente la sua felicità ri-trovata, quella di stare con suo figlio, di rimuovere il suo triste passato, anche grazie alle sue esagerate risa. Il suo sacrosanto diritto ad essere stimata e rispettata nel giudizio degli altri. Mamma Roma rimarrà nell’immaginario, e nella storia del cinema, come la donna che lotta per la propria dignità, per una vita migliore. Per Pasolini, né prostituta, né santa: semplicemente madre.
8. Heidegger, Dickens, Kundera e Pasolini
Negli anni Ottanta Richard Rorty pubblica diversi saggi tra cui alcuni dedicati al rapporto tra filosofia e letteratura. Di particolare interesse è Heidegger, Kundera e Dickens (in Richrad Rorty, Scritti filosofici II, a cura di Aldo G. Gargani, Laterza, 1993, traduzione di Barbara Agnese). Il filosofo premette che scopo del saggio è quello di
«[..] sviluppare una opposizione tra il gusto del prete ascetico [espressione nietzscheana che sta per il teorico, il filosofo, il teologo, ndr] per la teoria, la semplicità, la struttura, l’astrazione e l’essenza da una parte, e il gusto del romanziere per la narrazione, il dettaglio, la varietà e l’accidente, dall’altra» (R. Rorty, op. cit., p.101).
Per fondare il suo ragionamento Rorty ricorre ad alcune affermazioni “teoriche”, ma “relative” che trae da L’arte del romanzo di Milan Kundera.
«Il romanzo è il paradiso immaginario degli individui. È il territorio in cui nessuno possiede la verità, né Anna né Karenin, ma in cui tuti hanno diritto ad essere capiti, Karenin non di meno Anna» (op. cit., p.103).
Il limite dei teorici, secondo Rorty è quello di cercare di creare dei sistemi per spiegare le verità ultime, di definire la Storia, di interrogarsi sull’Altro, pur partendo dall’essere (si riferisce ironicamente a Heidegger). A tale figura contrappone il lavoro del romanziere che, citando Kundera, non è ossessionato dal descrivere un mondo in cui debba esserci «un giudice supremo» (p. 106); inoltre, sempre per Kundera, «eternità e storicità sono cose ugualmente ridicole, concetti ugualmente essenzialisti» (Rorty, op. cit., p.106).
L’arte del romanzo tocca vette di perfezione, secondo Kundera, per esempio in Cervantes, autore che non si pone il tema dell’avvenire, del futuro, tanto che davanti ai noti quesiti filosofici, lo scrittore ceco così risponde: «Ma se l’avvenire non rappresenta ai miei occhi un valore, a che cosa tengo, allora? A Dio? Alla patria? Al popolo? All’individuo? La mia risposta è insieme ridicola e sincera: io non tengo a niente tranne che alla denigrata eredità di Cervantes» (p. 107).
Ora, sull’esempio di Cervantes citato da Kundera, Rorty, individua nel raccontare romanzesco di Charles Dickens quel romanziere anti-eroico (antifilosofico) per eccellenza che evita i quesiti esistenziali (cari ai filosofi).
«I personaggi di Dickens resistono ai tentativi di classificazione in tipologie morali, alla loro descrizione in quanto esibizione di particolari vizi o particolari virtù. Sono i nomi dei personaggi di Dickens, invece, a prendere il posto dei principi morali e degli elenchi di vizi e virtù» (Rorty, op. cit., p. 107).
In Dickens abbiamo i nomi propri. In Pasolini, oltre ai nomi propri, abbiamo i “soprannomi” ma che sono diventati nomi propri: il Zucabbo, il Matto (Una vita violenta) Accattone, Balilla, Mamma Roma, ecc. C’è una battuta, davvero emblematica dal punto di vista linguistico-esistenziale, in cui Accattone (mentre passeggia con Stella, tra prati abbandonati cosparsi di montagnole di terra scarti degli scavi per la nuova edilizia, terreni rocciosi, sterpi, con le nuove palazzine popolari, in costruzione, inquadrate in secondo piano (campo medio), rinnega il suo nome di battesimo: «Non me chiamà Vittorio, chiamame Accattone; de Vittorio ce ne so’ tanti, di Accattone ce sò solo io».
Nella letteratura e nel cinema di Pasolini, nomi e soprannomi scorrono gli uni accanto agli altri, in un gioco speculare tra caratteri e caratteri. Non sono carte di identità autonome, sono, appunto come in Dickens, nomi che sostituiscono principi morali che riguardano tutti.
Tutti siamo Accattone, Mamma Roma, Ettore. A Pasolini, come a Dickens, non interessa definire l’essere gettato nel mondo dei filosofi tramite giudizi «onto- teologici» o «ontico-morali» (Rorty), ma mostrare la (dura) realtà, anche irrealisticamente, con dei nomi, senza giudicare chi porta quel nome, quel soprannome: qui sta il segreto della nuova finzione romanzesca inaugurata da Pasolini: da Ragazzi di vita (1956), se Una vita violenta (1959), poi sperimentata nel cinema con La notte brava (soprannomi icastici come, Scintillone, Bella-Bella; ecc.) sino ad Accattone e Mamma Roma.
«In un mondo morale fondato su quello che Kundera chiama la “saggezza del romanzo”, i confronti e i giudizi morali verrebbero condotti con l’aiuto di nomi propri piuttosto che tramite termini o principi generali». (Rorty, op. cit., p. 107)
La finzione pasoliniana (narrativa, poesia, cinema, teatro) svela quello che spesso i trattati filosofici non riescono a dirci. Tratteggiano con quei nomi-soprannomi la carta di identità di un personaggio in carne ed ossa, che va oltre la categoria morale, portando il lettore-spettatore, tramite quel nome, dentro l’intrico della società che va trasformandosi da contadina a industriale, da agricola a consumistica. Accattone e Carmine non sono l’uomo “sfortunato” di Ladri di biciclette, un operaio che intende lavorare per mantenere la famiglia, sono i figli di una società contadina scomparsa; della disoccupazione dell’era industriale, della prostituzione e del latrocinio, unica fonte di reddito; sono ragazzi cresciuti nelle baracche di bandoni e mattoni. Non hanno amici veri (presenti in Ladri di bicilette: aiutano Antonio Ricci a cercare la bicicletta rubata); sono senza famiglia (fortemente presente in Ladri di biciclette), o con le prime famiglie separate anche tra il sottoproletariato; non hanno un figlio che ti riempia la vita (sino ad essere “padre al padre”: scena finale di Ladri di biciclette).
Accattone è l’uomo solo del sottoproletariato; come è solo l’intellettuale Steiner che si suicida in Otto e mezzo (e, curiosità, tale episodio nella scrittura sarà affidato da Fellini a Pasolini; anche se poi nel film del personaggio di Pasolini, Fellini trattenne solo alcuni aspetti).
La Magnani di Mamma Roma non è la Magnani di L’onorevole Angelina (1949, L. Zampa) che si batte per le case popolari nel dopoguerra; neanche quella naive che crede nel risolvere i problemi economici con il cinema di Bellissima (1951, L. Visconti): ella è orami una donna sola, risucchiata dalla prostituzione, pur essendone uscita, per via di un mondo ormai corrotto, sia dalla delinquenza come dal consumismo. La moto regalata a Ettore non cambierà la visione etica sulla vita di un ragazzo cresciuto sradicato dalla famiglia.
- Il dettaglio come elemento del quotidiano
Si adatta perfettamente al “romanzesco” pasoliniano, giocato tra realismo- iperrealismo-espressionismo, questa ulteriore riflessione di Rorty:
«[…] ho detto che i teorici come Heidegger vedono la narrazione sempre come un genere mediocre, nel migliore dei casi propedeutico ad afferrare qualcosa di più profondo del dettaglio visibile. I romanzieri come Orwell e Dickens tendono invece a vedere la teoria sempre come una soluzione mediocre, niente di più che un ripiego in vista di uno scopo particolare, lo scopo di narrare meglio la storia». (Rorty, op. cit. p. 110).
E più avanti:
«La qualità importante dei romanzieri in confronto ai teorici è che fanno attenzione ai dettagli. E questo è un altro motivo per cui Dickens rappresenta un paradigma interessante per il romanzo». (Rorty, op. cit., p. 10)
E il dettaglio, è quasi ovvio notarlo, è una caratteristica del narrare romanzesco di Pasolini. Le molte scene di Ragazzi di vita e di Una vita violenta, dalle periferie di Roma al centro, tra le città e i paesini del Lazio (nella sceneggiatura di La notte brava, Pasolini spedisce i tre trafficoni e le due prostitute sino a Fiumicino, dove se ne aggiunge una terza); l’attenta descrizione dei molteplici personaggi; le case di “bandoni” e cartoni con “tende” per porte; la benna della scavatrice (cfr. la nota poesia Il pianto della scavatrice), tutto il mondo “filmato” dagli occhi di Pasolini, nella narrativa, nella poesia, nel cinema scritto/realizzato, vive di dettagli: non solo dunque dettagli del corpo, ma dettagli di ambienti, di stati d’animo, di momenti psicologici.
Il dettaglio, il frammento, continua Rorty, tipico solo del talento del romanziere, è qualità estranea al teorico, interessato a teorizzare sistemi, visioni del mondo, trovare la quadra dell’esistenza: il dettaglio, sottolinea Rorty, ricorrendo a George Orwell (altro ammiratore di Dickens), non è solo fisico ma anche psicologico: tratteggia momenti anti-logici, antirazionali del personaggio. Per esempio, quando mostra le contraddizioni caratteriali del personaggio, il suo essere un io diviso, «un personaggio che in seguito sarà costretto a comportarsi in maniera incoerente» (George Orwell a proposito dei personaggi di Dickens: Rorty op.cit., p. 110).
Esattamente il “carattere” di Accattone, tra bontà e involontaria aggressività. Oppure quello di Ettore, che tenta di trasformarsi in un bravo ragazzo ma la città “esalta” la predisposizione al furtarello innocente (che aveva mostrato alla festa popolare a Guidonia, rubando un dolcetto, un «napoletano», da una bancarella– cfr. Pier Paolo Pasolini, Mamma Roma. La prima sceneggiatura, cit., p. 16).
Ettore, trasferitosi a Roma con la madre, la quale cerca il rispetto degli altri, della “gente per bene”, di coloro che frequentano la messa domenicale, si trova in realtà catapultato dentro la grande neo-periferia agricolo-industriale della capitale, avvolta nel selvaggio sviluppo edilizio-popolare del boom.
Qui, per Ettore, il furto diviene un modo, una categoria etica, un passaporto, per farsi accettare dai nuovi “amici”. Ettore, è quel giovane che delinque, non sapendo perché lo fa: forse perché non ha una famiglia: come il tredicenne Antoine (Les quatre-cents coups, 1959, François Truffaut) che ruba una macchina da scrivere per contestare inconsciamente la famiglia, la scuola, l’istituzione; come Petr in Černý Petr (L’asso di picche, 1963, Miloš Forman) che si isola, rifiuta di fre il commesso-spia, deluso dai valori del mondo socialista.
Antoine, Ettore, Petr, e i “ragazzi di vita” degli anni Sessanta li si incontrano in Europa, di qua e di là dalla cortina, nelle Americhe, in Giappone.
10. Conclusioni
Con Pasolini siamo catapultati in una società che consente agli esclusi (madre e figlio) di usare le tecnologie solo consumisticamente, passivamente: come un appartamentino della nuova edilizia popolare o una motocicletta (oggi lo Smartphone). Ettore rappresenta la categoria etica dell’escluso nella età post- industriale e consumistica, come Oliver Twist raffigurava la categoria etica l’escluso nella nascente e roboante società industriale ottocentesca.
Bruna, Ettore, i prati incolti, un manipolo di pecore senza pastore, improvvisamente si trasfigurano in un mondo altro, un mondo-mito, astorico, ibrido, tra il bucolico cancellato dalla Storia e la rapida proliferazione del cemento popolare.
Sullo sfondo quei palazzoni, come i mulini a vento di Don Chisciotte, ti guardano signorilmente, ostentando un certo fascino tecnologico, una perturbante bellezza, quella del diavolo. Avanzano, senza darne l’idea, lentamente, inesorabilmente, e mangiano ogni giorno una piccola porzione di prato. Certo, si tratta di erba secca, sterpaglie, zone petrose frammiste a sentieri di terra battuta, ma sono parte di natura e cultura che sparisce.
Nelle borgate si muore ancora giovani, come Accattone ed Ettore. Una madre impazzisce. Le prostitute hanno la vita segnata dalla malattia. Ma, i mezzi di comunicazione di massa, nella cronaca, parlano di “singoli casi”. La maggioranza della popolazione, statisticamente, sta “bene”: televisore, motocicletta, mangiadischi, utilitaria, vacanze al mare ad agosto. Siamo entrati nell’affascinante era del boom. Siamo dentro i “felici” anni Sessanta, non per tutti.
CINEMA ENDOXA - BIMESTRALE ENDOXA LUGLIO 2025 Eusebio Ciccotti Pasolini
