PASOLINI E MEDEA: L’ECLISSI DEL SACRO
ALESSANDRO MEZZENA LONA
C’è una donna che turba i nostri pensieri da 2500 anni. Si chiama Medea, è figlia di Eete, il re della Colchide, e di Idia la più giovane delle Oceanine, una delle tremila discendenti del titano Oceano e di Teti. Ma Le Argonautiche di Apollonio Rodio le attribuiscono parentele assai più rilevanti e inquietanti: sarebbe, infatti, nipote di Elio, il Dio Sole, e della maga Circe.
Se proviamo a chiederci che cosa ci angoscia tanto, quando sentiamo raccontare la storia di Medea ancora oggi nelle sue difformi declinazioni (non ultima quella di Rosie Hewlett, la scrittrice inglese laureata a Birmingham in Letteratura e Civiltà Classica, che ha dedicato a Medea l’omonimo romanzo pubblicato in Italia nel 2024), non possiamo liquidare la faccenda dicendo che è il suo devastante tormento d’amore, il perdere il senno al punto di ammazzare il fratello, il violare la sacralità di un simbolo come il Vello d’oro, il tradire il proprio popolo e poi uccidere i figli, a tormentarci dopo tutto questo tempo.
Di personaggi che impazziscono per amore e gelosia sono piene le cronache quotidiane dei notiziari, oltre ai libri. Basterebbe ricordare Orlando furioso, che solo una rocambolesca incursione di Astolfo sulla Luna riporterà al senno perduto. O, per restare a casi più concerti e vicini a noi, a Rina Fort, soprannominata la belva di San Gregorio, che nel 1946 massacrò a Milano la moglie del suo amante Giuseppe Ricciardi e i suoi tre bambini, di cui uno aveva appena pochi mesi. Un caso di cronacaccia nera capace di suggestionare un giornalista d’eccezione del “Corriere della Sera” come Dino Buzzati, che sei anni prima aveva pubblicato per Rizzoli “Il deserto dei Tartari”
Ma allora cos’è che ci attira e ci respinge dal personaggio di Medea? Da questa donna simile agli dei, nipote di quella Circe che trasformò Scilla in un mostro marino e i compagni di Ulisse in porci? Dalla ragazza iniziata alle arti magiche dalla dea degli inferi Ecate, capace di uscire di scena nella tradizione della Grecia antica a bordo del carro del Sole trainato da un drago alato? Che cosa ci affascina in questo connubio di passione, conoscenza arcana, astuzia, gelosia e spietata violenza, generato da Idia, “colei che sa”, e da Eete, re della Colchide sulle rive del Mar Nero, che corrisponderebbe oggi alla Georgia?
Indubbiamente, a turbarci è lo scandalo supremo: l’assassinio dei figli, l’affogare nel sangue la carne innocente nata dalla carne stessa di Medea. La decisione di punire il tradimento di Giasone, reo di avere violato il patto di amore e fedeltà, nel modo più atroce: eliminando il futuro incarnato nei due bambini che hanno concepito insieme. Il folle proposito di cancellare per sempre il desiderio di lasciare al mondo un segno di sé, una testimonianza visibile del proprio essere.
Eppure, se andiamo a cercare nella storia della letteratura greca, scopriamo che la Medea di Euripide non rappresenta il personaggio più estremo immaginato dagli scrittori dell’antichità. Nella tragedia perduta Tereo, scritta da Sofocle probabilmente tra il 431 e il 414 a.C. e di cui restano pochi frammenti, si raccontava la truculenta storia di Procne, moglie del re di Tracia, che per vendicarsi del marito Tereo che si innamora, e poi violenta la sorella di lei Filomela, non solo uccide il figlio Iti, ma glielo serve come pasto a sua insaputa.
Ma allora perché Pier Paolo Pasolini decide di confrontarsi, sul finire degli anni Sessanta, con la storia di Medea? Un motivo forte c’è: nello scandaloso desiderio di vendetta della donna, il poeta e regista vede qualcosa di ancora più perturbante. Tanto che non si accontenta di abbozzare una difesa della spietata madre, come aveva tentato Corrado Alvaro, lo scrittore calabrese morto a Roma nel 1956, nel testo Lunga notte di Medea. E non prova nemmeno a costruire una rivalutazione in chiave femminista, come farà molti anni più tardi la scrittrice tedesca dell’Est Christa Wolf, scomparsa nel 2011, nel romanzo Medea. Voci. Cesellando un ritratto potente della donna-strega, della femmina che fa a brandelli le regole dettate dalla società per incamminarsi sulla via oscura.
Pasolini gira Medea nel 1969. E per il ruolo della maga sceglie una superstar del canto lirico, ormai un po’ in declino, come Maria Callas, reduce da una sfortunata liaison d’amore con il ricchissimo armatore Aristotele Onassis. Le affianca lo statuario ex campione di salto in lungo Giuseppe Gentile nel ruolo di Giasone. E mentre costruisce il film non dimentica certo che, due anni prima, si era confrontato con un altro totem della tragedia greca: “Edipo Re” di Sofocle.
Non è la prima volta che Pasolini esplora i territori del sacro. Nel 1968 aveva dato forma a uno dei suoi film più enigmatici, visionari e dirompenti: “Teorema”, che avrebbe trovato, sempre nel 1969, una sorta di completamento ideale, di specchio deformante in cui riflettere le proprie inquietudini, in “Porcile”.
Nel 1970, infine, “Gli appunti per un’Orestiade africana” avrebbero segnato il confine tra questa fase della creatività cinematografica pasoliniana, sospesa tra il mito e la scomparsa del sacro davanti all’avanzare di una società devota al consumo e al denaro, e la successiva Trilogia della Vita. Quel viaggio tra i capolavori della letteratura, poi abiurato, che avrebbe aperto la strada all’incompiuta e perturbante Trilogia della Morte. Da Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte, insomma, il poeta-regista di Casarsa sarebbe passato alla discesa nelle tenebre di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Senza mai riuscire a girare Porno-Teo-Kolossal, di cui rimane solo la sceneggiatura scritta insieme all’amico Sergio Citti, visto che il poeta-regista verrà ammazzato il 2 novembre 1975 al Lido di Ostia in circostanze ancora oggi non ben definite.
Medea, nella lettura filmica di Pasolini, assume un significato netto fin dalle prime scene. Nella parabola sanguinosa della figlia del figlio del Sole si incarna, infatti, il simbolo di ciò che ancora oggi turba le persone più sensibili del terzo millennio. Ovvero, la cancellazione del senso del sacro non in una visione religiosa, confessionale, ancor meno dogmatica, ma secondo il significato che ne dava il filosofo Gregory Bateson nel libro uscito postumo “Dove gli angeli esitano”, curato dalla figlia Mary Catherine: un senso del tutto, al quale ci si può accostare solo con timore reverenziale. Che ispira umiltà se si ha il coraggio di ammettere che ci sono limiti a ciò che la scienza può sapere.
Come diceva il poeta visionario William Blake, autore dei Canti dell’innocenza e dell’esperienza e dei Libri profetici: “May God us keep from single vision and Newton’s sleep”, possa Dio preservarci dalla visione unica e dal sonno di Newton. Gli faceva eco uno dei personaggi più affascinanti e misteriosi del ‘900, B quando affermava, autore degli arcani Incontri von uomini straordinari: “Il sapere di per se stesso non ha che una presenza passeggera. Un nuovo sapere caccia via il precedente e, in fin dei conti, non è altro che del nulla versato nel vuoto”.
Pasolini era attratto dall’ancestrale legame di una donna come Medea a quello che era considerato l’esoterico centro di gravità permanente: l’onfalo, ὀμφαλός in greco, una semplice pietra, coperta da cordoni intrecciati, che veniva conservata nel santuario dedicato ad Apollo a Delfi. In realtà, l’incarnazione stessa dell’ombelico del mondo: un simbolo potente che stava lì a indicare la necessità di rispettare un ordine costituito nell’universo. Un punto di riferimento imprescindibile per far fluire in armonia la vita delle creature presenti sulla Terra e nel mistero del cosmo. La prova, insomma, che esiste un solo principio fondamentale da cui deriva la molteplicità dell’essere: l’Uno nel Tutto.
Era proprio lì, in quel punto di frattura, che Pasolini intravedeva la possibilità di raccontare Medea come simbolo del tramonto di un mondo arcaico, legato a miti e riti ancestrali, che si trova a confrontarsi e, poi, a scontrarsi con la perdita di una propria, forte identità umana e culturale. La donna, infatti, viene strappata alla propria terra, dopo aver ucciso il fratello Apsirto, per aiutare l’amato Giasone a rubare al re Eete il Vello d’oro. Un feticcio capace di guarire le ferite e dare il potere assoluto.
Catapultata verso Iolco con gli Argonauti, Medea smarrisce completamente la nozione di “ciò che è”. Arriva da un piccolo mondo antico e si sente completamente straniata in una ricca città come Corinto, dove tutto è laico, moderno, raffinato, colto. Ben presto, la transitoria sostituzione dei suoi valori ancestrali con la bruciante passione amorosa per Giasone si rivelerà ingannevole illusione. Anche perché il capo degli Argonauti, dopo aver sfruttato i poteri negromantici per tentare di ascendere al Potere, deciderà di irridere, umiliare e infangare il loro matrimonio per convolare a nozze con Glauce, la giovane figlia di re Creonte.
Gìà durante la fuga dalla Colchide, Pasolini coglie Medea nel pieno di un vortice di contraddittorie sensazioni. Giasone e gli Argonauti si dimostrano del tutto indifferenti alla sacralità, magica e contadina, dei piccoli gesti quotiadiani, attorno a cui ruota il senso profondo dell’esistenza. Così, in una scena memorabile, Maria Callas-Medea urla tutto il suo disprezzo per quel nuovo modo d’essere, che si fonda su valori profani e transitori: “Questo luogo sprofonderà perché senza sostegno. Non pregate Dio perché benedica le vostre tende. Voi non cercate il centro, non segnate il centro”.
Nel mondo di Giasone e degli Argonauti, l’onfalo non ha più alcun senso. Non esiste un centro, attorno a cui organizzare le proprie azioni, tutto viene fatto a caso. Tutto viene dettato dall’obbedienza a desideri smodati. A quel punto, l’occhio del film spalanca l’obiettivo su Medea che corre disperata verso l’acqua. La giovane donna cerca conforto nelle parole, in una sorta di mantra infinito che non può metterla al riparo dall’affanno: “Parlami Terra, fammi sentire la tua voce. Non ricordo più la tua voce. Parlami Sole, dov’è il punto dove posso ascoltare la vostra voce. Parlami Terra, parlami Sole, forse vi state perdendo per non ritornare più. Non sento più quello che dite. E tu erba parlami, e tu pietre parlatemi. Dove sei Terra, dove ti ritrovo? Dove i legami che ti legavano al Sole. Tocco la Terra con i piedi e non la riconosco. Guardo il Sole con gli occhi e non lo riconosco”.
Per capire ancora meglio il senso profondo della “Medea” di Pasolini bisogna, però, ritornare all’inizio del film. Ricordare una delle scene girate nella laguna di Grado. Lì, accanto a un casone di pescatori, il centauro Chirone (che ha il volto dell’attore e regista francese Laurent Terzieff), a cui spetta l’educazione del piccolo Giasone, spiega la sacralità che permea ogni cosa, l’armonia e l’equilibrio insiti nella Natura, che sono destinati a essere spazzati via molto presto dalla brama di potere e di ricchezza: “Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo – ripete per tre volte -, non c’è niente di naturale nella Natura, ragazzo mio tienitelo bene in mente. Quando la Natura ti sembrerà naturale, tutto sarà finito e comincerà qualcos’altro. Addio cielo, addio mare”.
Quel “tutto è santo” contiene in sé un’autentica visione pagana, politeista della Natura come luogo del mito e del mistero, che richiama alla memoria il “Deus sive Natura” di Baruch Spinoza. Prima di girare Medea, nel 1968, Pasolini si era già addentrato nello spazio di una santità del tutto lontana da quella canonizzata dalle religioni monoteiste. In Teorema, infatti, aveva dato forma a una sorta di ascesi spirituale, contadina e folle, della servetta Emilia (l’attrice, cantante e scritttice Laura Betti), che richiamava alla memoria il “beati i poveri di spirito” dell’evangelico “Discorso della montagna”, ma anche il cammino sulla via iniziatica di Milarepa. Nel percorso di divinizzazione dell’umano visitatore (Terence Stamp) si poteva intravvedere l’ombra di un Cristo diverso da quello imbalsamato sugli altari delle chiese. Più vicino al Vangelo apocrifo di Tommaso che a quelli ufficialmente accettati come “parola di Dio”.
La santità raccontata da Teorema, sulla spinta dell’enigmatica presenza dell’Ospite, eterea e carnalissima personificazione di un messaggero che porta con sé il fascino del mistero, farà maturare lo scandalo del padre della famiglia borghese, presa come simbolo di un tempo corrotto. Tanto che proprio lui (Massimo Girotti), dopo essersi congiunto carnalmente con quello che Pasolini stesso definiva “un giovane Dio, che sia Dioniso o Jehovah poco importa”, finirà per smarrire se stesso, vagando in un deserto vulcanico ormai libero dal potere esercitato nella sua fabbrica e dentro casa.
È indubbio che la Medea di Euripide sia stato l’ipotesto, il punto di riferimento del film di Pasolini. Anche se il regista, poi, ha deciso di tradire l’originale per seguire la propria ispirazione visiva. La tragedia greca, infatti, inizia quando Medea è già a Corinto e fa ricostruire alla Nutrice e al Coro gli antefatti. Pasolini, invece, recupera sia l’episodio del furto del Vello d’oro sia le sue premesse mitologiche. Riallacciandosi, dal punto di vista narrativo, alle “Argonautiche” di Apollonio Rodio.
Ma questo tradimento del testo euripideo non è pretestuoso. Al contrario, contiene in sé gli elementi fondanti del cinema di poesia pasoliniano. Il regista, infatti, riporta indietro lo scorrere del tempo. Individua in quel passato lontano le radici della perdita di un centro di gravità, di un onfalo, nella gestione quotidiana della vita. Raccontando la tragedia di Medea, insomma, mette a fuoco i prodromi dell’annullamento del senso di esistere, la mercificazione di ogni sacro concetto. Il trionfare di un edonismo consumistico, che Epicuro avrebbe definito dettato da “piaceri vani, né naturali né necessari”, capace di dilagare nella società del secondo dopoguerra fino a valicare i confini del terzo millennio.
Tocca al centauro Chirone raccontare al bambino Giasone le origini del mito legato al Vello d’oro. Per poi spingere lo sguardo in avanti e proiettare lo spettatore nella Colchide in cui Medea ė già diventata una temuta e ammirata manipolatrice di arti oscure. Sarà lei a sovrintendere all’uccisione e allo smembramento di un ragazzo, rituale eseguito per propiziare la fertilità della terra.
Arti oscure, quelle di Medea, che, in realtà, erano legate ai riti di fertilità dei campi e alla conoscenza dei ritmi della Natura. Come ben sapevano i Benandanti, raccontati nell’omonimo libro di Carlo Ginzburg, che finirono sotto gli occhi dei giudici dell’Inquisizione e vennero, poi, perseguitati e mandati al rogo come pericoloso tramite tra il mondo umano e quello demoniaco.
Scrive Marco Antonio Bazzocchi nel suo libro I burattini filosofi: “La lunga scena sacrificale della prima parte di Medea evoca con precisione il momento in cui una civiltà antica entra in comunione con le forze naturali e cosmiche attraverso un sacrificio ciclico che favorisce il raccolto. Un corpo viene fatto a pezzi e distribuito a tutti i membri della tribù, e ne sfregano le parti sugli steli delle piante coltivate. C’è una nuova unità che si crea, e si tratta di un’unità collettiva grazie alla quale viene tenuta lontana la minaccia di una crisi apocalittica”.
Volendo dare voce allo sfruttamento e alla violenza esercitata dal più ricco nei confronti del più povero, Pasolini trova in Medea un’allegoria per comprendere il suo tempo. E siccome la realtà non si sottrae mai al mito, riandando verso un passato che porta impresse su di sé le stigmate di un universo perduto (lo definirà “arcaico, ieratico, clericale”), lì il regista ritrova l’arroganza di vecchi e nuovi colonialisti. Siano essi i conquistadores, che rasero al suolo con le armi, e con malattie sconosciute a quelle latitudini, le civiltà dei Maya, degli Atzechi, degli Inca. Oppure, i moderni imperi che trasformarono il Terzo Mondo in una scacchiera di possedimenti da sfruttare. O, ancora, i despoti del giorno d’oggi, che tengono in scacco i Paesi più poveri usando le armi di uno sfrenato turbocapitalismo, depredandoli delle loro risorse principali, usando gli anestetici di un controllo elettronico che passa per la tossica manipolazione delle informazioni in rete.
Come scriverà lo stesso Pasolini, quella di Medea “potrebbe essere benissimo la storia di un Paese del Terzo Mondo, di un popolo africano ad esempio, che vivesse la stessa catastrofe venendo a contatto con la civiltà occidentale materialistica”.
Ogni scrittore, ogni regista sa che il Male è interessante, dal punto di vista narrativo. Perché scrutare nell’oscurità permette di analizzare una storia in tutte le sue sfaccettature. Anche quelle più inquietanti. E allora Medea, a considerarla libera da scontati moralismi, non è soltanto l’assassina senza cuore della tragedia di Euripide. Non è il sanguinario boia dei suoi stessi figli. Guardandola più da vicino, diventa la vittima di un sistema perverso. La donna tradita da un uomo che è figlio di un mondo capace di annientare i sentimenti più puri davanti ai simulacri del Potere e del Denaro. L’involontario strumento di una società che si inchina ai dettami di divinità insaziabili: la Grande Bestia, o Mammona, secondo i nomi che hanno affibbiato loro le scritture bibliche.
In ogni caso, nemmeno in un mondo che ha smarrito se stesso, nemmeno alla strega Medea, Pasolini può regalare una via di fuga che la metta al sicuro nel sacro recinto del mito. Infatti, nelle scene finali del film non arriverà nessun carro trainato da draghi a scortare la donna verso il Sole, lontana dal suo orrendo delitto. Perché lei, persa nel gorgo del suo dolore e della rabbia funesta, avvolta tra le fiamme della propria dimora, non potrà conservare la speranza di redimersi da una realtà che ha mercificato tutto.
E, allora, a Medea non resterà che pronunciare la sua raggelante profezia finale: “Niente è più possibile, ormai”. Anticipando le parole che Pasolini stesso affiderà all’intervista rilasciata a Furio Colombo nel pomeriggio del primo novembre del 1975, poche ore prima di essere massacrato sulla spiaggia di Ostia. Mentre si apprestava a salutare il giornalista, infatti, il poeta-regista suggerirà al giornalista il titolo della loro chiacchierata: “Perché siamo tutti in pericolo”. Una preveggenza che riguardava prima di tutto il poeta-regista, visto che la sua vita, di lì a poco, sarebbe affogata nella violenza e nel sangue. Ma che metteva in guardia anche questo nostro mondo, destinato a proiettarsi ridendo verso l’abisso dell’autodistruzione.
CINEMA ENDOXA - BIMESTRALE ALESSANDRO MEZZENA LONA ENDOXA LUGLIO 2025 Pasolini
