PASOLINI POSTUMO – EDITORIALE
TOMMASO GAZZOLO
Si potrebbe definire Pasolini uno scrittore essenzialmente postumo. Lo aveva già, non senza polemica, osservato Sanguineti, il giorno dopo la sua morte, in un articolo per «Paese sera», in cui ricordava: «è stato sempre uno scrittore (e un regista) postumo, fin dal primo istante […]. Oggi, sembra impossibile negare a questa sua morte i tratti di un suicidio preparato minuziosamente, quasi a completare il disegno di una persecuzione perpetuamente lamentata».
Ma è un tema che torna, e che è stato ripreso, più di recente e in una prospettiva diversa, da Giulio Ferroni (Dopo la fine. Una letteratura possibile, Donzelli, 2010), che parla di un Pasolini ossessionato da una «dimensione “ultima” e “postuma” fin dalla sua immersione nella poesia dialettale e dai suoi molteplici tentativi di “salvare” le tracce di un’Italia popolare che si stava modificando e distruggendo sotto i suoi occhi».
Pasolini era già postumo prima di morire, come Sanguineti affermava, perché la sua parola era quella di qualcuno che parlava da dopo la sua morte, dopo la sua propria storia, dalla fine di quella vita che cercava, nostalgicamente, di richiamare: «Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, / dove sono vissuti i fratelli».
E però è postumo anche in un altro senso, in quanto parla anche da dopo una morte che deve sempre ancora venire, da un tempo che non abbiamo ancora raggiunto: «e io, feto adulto, mi aggiro / più moderno di ogni moderno /a cercare fratelli che non sono più». Più moderno di ogni moderno: moderno nel negare la modernità, alla ricerca di fratelli ormai morti, ma anche più moderno di noi moderni perché egli parla da dopo la modernità, come colui che si aggira tra le rovine del nostro tempo, e che vede già compiuta quella «mutazione antropologica» nella quale noi dobbiamo forse ancora renderci conto di vivere.
Da qui la contraddizione di questo anti-moderno nella modernità e, insieme, più moderno della nostra modernità. Il Pasolini “reazionario e romantico” che tanto Sanguineti detestava – e che di recente ha fatto dire a Marcello Veneziani che Pasolini sarebbe in realtà un autore della «destra mimetica», pensatore di destra che nega di essere tale, per ragioni di opportunità o per rimozione o auto-censura – e il Pasolini che coglie la logica ultima della società dei consumi prima e meglio di qualsiasi altro intellettuale italiano del suo tempo.
Pasolini dunque postumo, morto in vita e vivo da morto, non può che essere una figura spettrale, un fantasma: quando lo si rispetta e celebra, è perché se ne teme la vendetta, se ne ha paura, e quando lo si aggredisce, è perché l’odio verso i morti si rivela essere il vero motivo per cui li onoriamo.
Non si sa che farne. Se ne discute. Così ci sarebbero sette buoni motivi per dimenticare Pasolini, come sosteneva, dieci anni fa, in occasione dei quarant’anni dalla morte, Francesco Longo, su Rivistastudio. Ma pare ce ne sarebbero però esattamente altri sette, di pessimi, per volersi sbarazzare di lui, come replicò allora Massimo Arcangeli, su Lid’O. Ma chi è sempre stato un postumo, non lo si può né ricordare né dimenticare: non è mai stato vivo, da vivo, né morto, da morto.
Pasolini era vivo da morto: non tanto perché attratto da quel carattere “epico” della morte, che egli rivendicava e ricercava anche per se stesso, quanto perché la sua scrittura era effettivamente testimonianza, scrittura che non cessava di scrivere la sua stessa morte, raccontando la scomparsa delle lucciole e della società contadina, dei dialetti e dei ragazzi di vita.
Eppure il Pasolini già sempre postumo è anche il Pasolini ucciso, ammazzato, che muore. Pasolini morente, come nessun altro intellettuale italiano del Novecento è mai stato. Non solo perché la sua morte è divenuta da subito un “mistero”, un “delitto italiano”, forse un omicidio “politico”, su cui sono stati versati fiumi di inchiostro, composte canzoni, girati film e documentari. Piuttosto, direi perché, comunque la si giudichi, non ci si riesce a liberare dalla sensazione che anche il morire, in Pasolini, sia stato per lui un atto di testimonianza. Propriamente, dunque: di martirio. Come se non fosse stato sufficiente scrivere, parlare. Perché se testimonianza e martirio dicono la stessa cosa, lo fanno in modo profondamente diverso: per dirla con Kierkegaard, mentre il testimone è colui che dice la verità, il martire è chi è nella verità, che, cioè, “testimonia” della verità non con la parola che la riferisce, ma con il suo stesso corpo e la sua stessa vita. Quando Zigaina parla di “morte sacrificale”, di un Pasolini che teorizza e provoca la propria morte, dice qualcosa di vero, a prescindere dalla sua corrispondenza o meno con il fatto di cronaca: dice, cioè, che Pasolini è morto come, nella posizione di, un martire: di qualcuno che, dopo aver detto e ripetuto la sua verità (“io so”…), diviene la propria verità, e lo può divenire solo nel momento della sua morte, esponendo il proprio corpo, la propria sofferenza come unica prova.
La “religiosità”, il cattolicesimo di Pasolini sta anche qui. Ma questo spiega anche perché non abbia in realtà senso, in fondo, chiedere quale sia la “verità” sulla morte di Pasolini. Perché la domanda presuppone ciò che Pasolini stesso, morendo, nega. Presuppone che la verità in questione sia qualcosa che possa essere detto, sia una verità dell’ordine del discorso. Questa è la verità del Pasolini scrittore, giornalista, intellettuale militante. Ma la verità della sua morte, la verità, cioè, che egli fa accadere morendo, è d’un altro tipo. Riguarda qualcosa che può essere solo mostrato, indicato, dal cadavere di Pasolini a Ostia. In fondo, esso non indica che il suo stesso accadere: che la società in cui le lucciole erano scomparse, in cui i fascisti vestono e portano gli stessi capelli degli antifascisti, è la società in cui un intellettuale come Pasolini può essere, impunemente, ucciso. Di ciò egli stesso testimonia, morendo.
Il testimone è, però, sempre anche il sopravvissuto – se vale l’etimologia tracciata da Benveniste: supertes, superstites, colui che può rendere testimonianza proprio perché è “al di là” di ciò che è accaduto, dell’avvenimento, e dunque della morte stessa. Pasolini, cioè, parla da un al di là che la sua stessa scrittura, morendo, rende possibile, nel suo sopravvivere a se stessa.
Ma il sopravvissuto non ha nessuna speranza, nessun avvenire verso cui guardare. Essendo già morto in vita, è come morto che sopravvive. Rileggiamo le sue stesse parole: «l’unica cosa che può “contestare globalmente” la realtà attuale è il passato». Ma questo passato è irrimediabilmente passato: «so che è assurdo rivolgersi al passato. Non sono un reazionario. Ma purtroppo so anche che non si può proporre niente per modificare questo mondo».
Solo il passato può annientare, contestare integralmente, il presente, la realtà per come è data. E tuttavia, questo passato non è mai “ora”, non viene, non si attualizza, perché Pasolini non riesce a pensarlo che come, appunto, passato, compiuto definitivamente. Se, come diceva Benjamin, la felicità è possibile solo in ciò che rende, improvvisamente, incompiuto di ciò che è compiuto, Pasolini non crede in questo movimento, per lui impossibile: «Non piango perché quel mondo non torna più, ma piango perché il suo tornare è finito».
Per questo le sue sono le passeggiate di un morto, nel dopo la fine della storia – «Giro per la Tuscolana come un pazzo, / per l’Appia come un cane senza padrone. / O guardo i crepuscoli, le mattine / su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, / come i primi atti della Dopostoria, / cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, / dall’orlo estremo di qualche età / sepolta».
La Dopostoria è ciò che rende il passato passato, sempre e solo già stato. E che pertanto “blocca” la storicità stessa, la relazione tra passato e futuro che la costituisce. La Dopostoria è questo tempo senza tempo, in cui Pasolini si aggira da solo, e dove ha intorno solo rovine. Non è la fine della storia, si noti, né la fine dei tempi. Piuttosto, essa è ancora un tempo: quello del presente, ma di un presente che non si riesce più a legare al passato, e dunque neppure al futuro. E questo perché, a ben vedere, in questo presente che è la dopostoria, tutto è presente. E cioè: nulla, in esso, rimane non passato alla presenza, non-stato. Quello della dopostoria è un tempo, pertanto, in cui il presente è sempre già stato, passato cioè alla presenza. E dunque è sempre anche passato. Ancora allora le due morti di Pasolini: del poeta che vive in un passato ormai morto – quello pre-tecnologico, della civiltà contadina – , e del poeta che vede dalla sua fine il presente, come già tutto passato alla presenza – quello della società dei consumi, non più orientata da nessun futuro.
Per questo la temporalità della sua scrittura è sempre frastagliata, e non riesce a ricomporsi. «Quanto al futuro, ascolti: / i suoi figli fascisti / veleggeranno / verso i mondi della Nuova Preistoria»: Pasolini fa profezie, ma il futuro in realtà è una pre-istoria, un tempo già morto, come subito chiarisce dicendo «Io me ne starò là / qual è colui che suo dannaggio sogna / sulle rive del mare / in cui ricomincia la vita». E tuttavia, questa vita non ricomincia, perché Pasolini, ancora una volta, è «solo, o quasi, sul vecchio litorale / tra ruderi di antiche civiltà», morto anche lui, «come un partigiano / morto prima del maggio del ’45, / comincerò piano piano a decompormi». Il futuro non è dalla parte della vita, dunque, ma della morte, del ritorno di ciò che è morto. La vita, però, è dalla parte di ciò che è per sempre passato, e chi è “vivo” lì, non può che essere un cadavere in decomposizione.
La questione non è, allora, quella se vi sia, in questo Pasolini, del lucido “realismo”, o un pessimismo più o meno giustificato, o una scarsa comprensione delle cose. Quel che è inquietante, e perciò interessante, è la sua spettralità, è questa parola sempre postuma, sempre da dopo la propria morte, che resta tale da qualunque punto del tempo ci si ponga per ascoltarla. Anche quando anticipa, presagisce, prevede, quando sembra scritta oggi, sembra parlare dell’oggi, è già morta, parla già con la voce di un morto, che non può cambiare le cose, che le guarda già compiutesi.
Qui sta, per molti versi, la stessa forza della parola, della scrittura di Pasolini, ma insieme l’impossibilità di “ereditarla” – ed è questo, forse, che fa di Pasolini un intellettuale senza, propriamente, “eredi”, nella storia della cultura del nostro Paese. Ché solo da un morto, da un vivo ora morto, si può ereditare. Mentre Pasolini non è mai stato né vivo né, quindi, morto – proprio perché già da sempre morto. Sempre fantasmatico: «passo come un morto tra i vivi, o un vivo tra i morti», aveva scritto ai redattori di Officina. Vale più di uno spunto polemico: è la cifra del modo in cui Pasolini passa tra noi, sempre e per sempre.
Passa tra noi lettori vivi come un morto, ma non senza allo stesso tempo passare come un vivo tra noi lettori morti, perché – ripetiamo – le sue parole, le sue immagini, sono sempre insieme quelle del mondo che non esiste più ma anche di un mondo che lui ha già visto, ed in cui noi siamo ora.
La “dopostoria” in cui si aggira Pasolini, è un tempo che non ha più tempo: è un tempo della storia in cui non c’è più storia, e dove pertanto noi, che viviamo in esso, veniamo dopo, ma anche prima, della morte del poeta che visita le rovine, cercandoci come fratelli che non sono più.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA ENDOXA LUGLIO 2025 Gazzolo Pasolini
