URBE COATTA: CREDO E SPAZIO URBANO NELLA ROMA DI PASOLINI
DOMENICO BILOTTI
La vivacità intellettuale di Pier Paolo Pasolini gli procurò, tra gli altri geniali cimenti del suo estro critico, di stendere una curiosa prefazione a una raccolta di sentenze emesse dal Tribunale della Sacra Rota, richiamata più o meno direttamente anche in un passaggio degli Scritti corsari. Il Pasolini campione nello scandalizzare il bigottismo retrivo che era sceso a patti col consumismo capitalista incontrava il Pasolini montano, tradizionalista, ostinato esteta di una civiltà rurale imperniata su liturgie e su valori cattolici. Colpiscono, in quelle righe che sono non da giurista ma che qualche ragguaglio offrono anche sul procedimento ecclesiastico, due temi su cui si misura l’originale tempra saggistica di Pasolini: l’amore e l’extraterritorialità. Il competente formalismo tecnico dell’amministrazione giudiziaria canonica è guardato dal Poeta senza astio, anzi, con quel certo rispetto che si deve a ciò che si intuisce aulico, pensoso, contemporaneamente modellato e indurito dallo studio. Gli risulta però incredibile, e fino alla bestemmia, che quelle sentenze trasudino logica probatoria, riferimenti dottrinali dotti e assolutamente ben padroneggiati, ma non si percepisca in esse alcuna empatia, alcuna palpitazione. Quel senso profondo di carità che è contemporaneamente primaria espressione dell’amore divino (Deus Caritas Est, del resto, è una delle più profonde encicliche di Benedetto XVI) e che dovrebbe modellare anche la giurisdizione, dal momento che l’equità è la giustizia mitigata dal dolce profumo della misericordia. O, almeno, così sosteneva Enrico da Susa, che pure non fu uomo indulgente, se si ricordano le sue dissertazioni sui rapporti di debito-credito o la rigorosa solidità espositiva della sua teoria costituzionale sul Papato.
E, in quel piccolo saggio di accompagnamento, che nasceva nel clima in cui il movimento divorzista per i diritti civili avversava l’istituto della nullità matrimoniale, esecrandone arbitrii e opportunismi non eventuali, un’altra nota emerge sovente: l’extraterritorialità. La giurisdizione ecclesiale opera nello Stato e, attraverso la delibazione, le sue pronunce raggiungono efficacia civile in quello stesso Stato, eppure afferisce a un ordinamento diverso, universale, non territoriale. Potenzialmente senza confini anche nel senso che a nessuno è dato di porle dei confini. Un simile immaginario, così singolare, seduce lo sguardo di Pasolini: radicati in Roma, Urbe eterna, nel mezzo di quello che tutt’oggi ha funzione e natura di centro storico e amministrativo della città, quel diritto e quella giurisdizione le stanno al di fuori, perché sono dappertutto.
Anche geograficamente parlando, d’altra parte, la Roma pontificia, da Castel Sant’Angelo a San Pietro, in bilico tra il comune della capitale italiana e il territorio dell’indipendente Stato (enclave) Città del Vaticano, è una Roma sul Tevere. Quel fiume di latrine, capanne, famigli e famiglie, affaracci, unisce Roma papale e Roma di borgata. Poche decine di chilometri, spesso nemmeno una, e due città diverse che a stento si riconoscono di sfuggita, ma che certo non si conoscono a fondo.
Sui rapporti tra l’etica e l’estetica pasoliniane, da un lato, e il cattolicesimo, tra teologia e scrittura, dall’altro è stato pensato e detto molto: indagini che hanno inteso ricoprire ogni possibile interpretazione, dall’indole intrinseca più o meno nascostamente comunitaria e tradizionalistica fino alla dissacrante postura libertina e anticlericale. Non ha senso, scomparso ormai da un cinquantennio il regista bolognese, sperare di addivenire alla parola ultima di un dilemma che è stato forse più di sopravvissuti e posteri, che non di contemporanei, amici ed estimatori. La censura italiana che bersagliò il Pasolini del cinema e del teatro, in fondo, non era specificamente curiale: esprimeva una formazione e un cursus honorum tipici in certe accademie, in certe giurisdizioni, in certe istituzioni. Pasolini irritava e irretiva la morale più che la liturgia, il confezionamento narrativo consueto del vizio e del male, non gli argomenti religiosi per il loro contrasto o la loro difesa. Più modestamente, ci si può limitare a due notazioni: che Pasolini vivesse, contro ogni possibile esibita sfacciataggine, con un’inestirpabile percezione di colpa la sua sessualità e che, tutto sommato, di quell’amore come caritas non desse la raziocinante lettura tomistica, ma una esuberante, indicibile, visione di irrazionalità.
A favore del primo argomento, milita il raffronto con un altro grande “corsaro” del Novecento italiano, Giovanni Testori, drammaturgo e non cineasta, che non a caso, nello scacchiere urbano di Milano, non stava col Pirellone, con le parate della moda o i cortei al Duomo, bensì coi nuovi borghesi mancati, passati dalle risaie alla periferia senza accorgersene. Uno di loro farà morire a Stazione Centrale, unico illuminato dalla grazia in una mise en scène straordinaria, “In Exitu”, per overdose. Primo aborto del nuovo mondo, ultima vittima del Secolo breve.
Quanto al secondo aspetto, il film “Teorema” e il romanzo omonimo tratto da quel soggetto assegnano al grottesco ospite inatteso, che amoreggia con tutti, senza alcun raziocinio o distinzione, una sorta di valenza salvifica, che non è carnale o metafisica, ma essenzialmente semantica: la sessualità trasmette ciò che è impedito ai codici scritti e a quelli non scritti.
Tornando però all’Urbe romana di Pasolini, quelle due realtà socio-urbanistiche unite da una storia e da un linguaggio comune, ma divise su ogni possibile argomento di fenomenologia dell’amministrazione, sono due territori da esplorare: i conservatorismi interessati della prima, la disarmante e nuda (perciò genuina ed entro certi termini innocente) violenza autolesionista della seconda.
La questione emerge con una certa nettezza nel Pasolini editorialista e corsivista dei Sessanta e dei Settanta: ricordava spesso come i giovani borgatari, quando muovevano dal litorale Sud, dicessero di “salire a Roma”, “andare a Roma”, “su a Roma”. Come se fossero, in sostanza, due mondi a distanza di sicurezza, probabilmente, per Pasolini, l’uno dall’altro. I ricchi dai poveri, ma forse anche questi ultimi i cui comportamenti possono ancora per qualche tempo sperare di essere immuni dalla contaminazione dei primi. In un certo senso, la narrativa pasoliniana di ambientazione romana racconta consimile debacle: il cedimento dell’inconsapevole al desiderio del vincitore, alla religione del suo tempo.
Non casualmente, le due opere migliori in questa parte della produzione dell’A. sono degli anni Cinquanta (Ragazzi di Vita del 1955 e Una Vita Violenta del 1959): la fotografia di un’Italia repubblicana, ma non riscattata, dove il suo vissuto popolare è molto diverso dalle vestigia, persino le più rispettabili, del suo ceto politico e, peggio ancora, dai fasti del suo patronato economico, menzognero, contestualmente servile e manipolatore.
Nell’esasperare tale divaricazione Pasolini soleva esagerare e ciò resterà caratteristico della vera febbre militante della sua opera: la denuncia delle corruttele pubbliche e morali dell’alta borghesia, anche a costo di prendere cantonate.
Basti pensare al rovente 1968 della contestazione. La Chiesa reagiva al movimentismo generato dalle istanze più radicali del Concilio Vaticano II con Humanae Vitae, l’enciclica di forte riaffermazione dottrinale e teologica di Paolo VI; a Valle Giulia scontri violenti tra polizia e manifestanti e Pasolini alle prese con la difesa dei proletari in divisa, screditando invece il lignaggio dei dimostranti. Quando scorgiamo l’occupazione e la provenienza dei fermati di Marzo alla facoltà di Architettura, tuttavia, scopriamo manovali nati in Puglia, studenti della provincia abruzzese, disoccupati dal Pigneto; nient’affatto i soli figli della Roma bene e dell’intellighenzia opportunista e strumentale della sinistra politica.
E forse in errore il Nostro lo è pure a vedere così tanto spazialmente e affettivamente divise quelle due comunque distanti parti di Roma: molto sottoproletariato capitolino fu coattivamente sfrattato e sfollato dalle case fatiscenti da dentro le Mura Aureliane verso le sterminate borgate ancora in onnivora (mal)formazione edilizia. E altra parte di quel sottoproletariato è stato affidato, o si è formato o è stato costretto a istruirsi, presso l’immenso reticolato degli istituti religiosi. Ruderi imperiali, possedimenti ecclesiali e baracche sotto le paludi si somigliano in realtà molto più di quanto appaia.
I testi più rappresentativi di quest’ultimo milieu, che fa incessantemente spola di sopravvivenza presso gli altri due, sono non a caso pubblicati dall’editore milanese Garzanti. La Roma potente d’allora non aveva attitudine a perdonare chi investigava la polvere nascosta sotto il suo tappeto. Criticare i comportamenti mettendoli a irrevocabile evidenza è, come affermò lo stesso Pasolini in un celeberrimo j’accuse, assai peggio che fare nomi, non servono le prove. In destino non difforme incorse il bel film, e da rivalutare, “Stazione Termini” di De Sica: obliato, stroncato come una americanata di scarto e resultativa, in realtà registrava la Roma impiegatizia, il sacco edilizio, il vivere d’espedienti, il mutevole popolo intorno alle stazioni prima del boom economico.
Se per redenzione si intende allora nel linguaggio comune, approssimando di molto il senso canonico-sacramentale, uno stato di felicità e rigenerazione ottenuto attraverso la liberazione da colpe e angosce, sia il Riccetto sia Tommaso, i protagonisti più nitidi del Pasolini narratore, sono i figli di due redenzioni mancate. Figli, cioè, dell’impossibile ricomposizione tra i tanti volti di una Roma spezzata.
L’epilogo del primo è quello di un manovale dei cantieri ormai divenuto cinico: il giovanissimo extralegale che nel raggiro e nel reato trovava sopravvivenza e soprattutto sfogo ha lasciato spazio a un uomo adulto incapace dell’irragionevole slancio della generosità e del sacrificio. Ed è ancora più netta la dipartita, stavolta anche fisica, di Tommaso. È una sorta di anti-Chisciotte che ha rubato, si è prostituito, ha vissuto la rude essenza maschile di un carcere ordinato su una gerarchia collaterale e antitetica rispetto a ogni speranza (costituzionale o rivoluzionaria che fosse). Trova la morte proprio nell’avvicinamento all’impegno politico-sociale e alla decisione di mettere su una famiglia, esattamente nel senso di società naturale fondata sul matrimonio. La tubercolosi avrà la meglio e non sarà nel suo corpo e nel suo destino la riconciliazione della Roma coatta, ristretta, orfana di alternativa, e di quella distratta e nobile, carceriera e inconsapevole.
Non c’è palingenesi nel consumismo: cristianesimo e socialismo sembrano non trovare più dove piantare il piccolo seme, né dove prendere la falce.
DIRITTO ENDOXA - BIMESTRALE DOMENICO BILOTTI ENDOXA LUGLIO 2025 Pasolini
