ABBOZZO DI UNA STORIA NATURALE DELL’ONNIPOTENZA

ALBERTO ARTOSI

Saranno anche stati falsi e bugiardi, ma in quella vichiana età della fantasia gli déi, manifesti o invisibili, erano dappertutto. A ogni piè sospinto, si strappavano alle delizie della loro vita beata e trascorrevano velocemente dalle eteree altezze del loro feudo montano giù fino al paese degli uomini, sempre accolti – anche quando apparivano nel loro aspetto più terribile – come delle presenze familiari. Questo perché erano umani. E, al tempo stesso, non lo erano. Singolare contraddizione: gli déi sono immortali, immutabili, hanno un loro tempo e un loro spazio; sono dotati di poteri straordinari; costituiscono un’élite – una società, quasi una razza, a parte, con le sue regole, i suoi costumi, una coscienza precisa della loro identità di classe – hanno una loro lingua, uno specifico regime alimentare (nettare e deliziosa ambrosia); nelle loro vene scorre non sangue, ma ichor, il fluido immortale dovuto alla dieta speciale che esclude il pane e il vino, nutrimento quotidiano degli uomini – la razza dei “mangiatori di pane”. E tuttavia, il loro coinvolgimento nel tumulto dell’epopea abbrevia le distanze fino a rendere umanamente vulnerabili i loro stessi corpi non umani. (Il loro sangue immortale può essere sparso da mani mortali. Ne sa qualcosa Afrodite che, scesa in campo in difesa del figlio mortale Enea, viene maltrattata e ferita da Diomede). Quando intervengono sotto falso sembiante negli affari degli uomini è spesso proprio ciò che c’è di più umano in essi a rivelarli. (Poseidone, presentatosi ai due Aiaci sotto l’aspetto dell’indovino Calcante, viene riconosciuto dalla forma delle gambe e dalle impronte dei piedi mentre se ne va). Ed Hera, quando prepara la sua scena di seduzione per distrarre l’attenzione del marito dalle faccende degli uomini, si comporta esattamente come si comporterebbe una qualsiasi dama dell’alta società.

Abbiamo appena detto che gli dèi hanno poteri straordinari, ma nessuno di essi è onnipotente, neppure il più potente di tutti, Zeus, il cui potere è comunque limitato. È il dio marino Poseidone a ricordarlo, con giusta indignazione, a Iside inviatagli da Zeus con l’ordine perentorio di astenersi dal ficcare il naso nella guerra: “Tre fratelli noi siamo, da Crono e da Rea generati, Zeus, poi io e per terzo Ade, signore degl’Inferi. In tre tutto è stato diviso, e ciascuno di noi ha il proprio appannaggio: a me toccò in sorte di vivere sempre nel mare spumoso, Ade ebbe in sorte le tenebre caliginose e Zeus il vasto cielo tra le nuvole e l’etere: la terra e l’alto Olimpo rimangono a tutti comuni”. Come spiega Émile Benveniste nel suo benemerito Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, la parola greca che sta per “appannaggio”, timé, si riferisce a qualcosa che è stata “ottenuta dal destino”, elakon (qui tradotto con “sorte”). A ciascuno dei tre figli di Crono è stata dunque destinata, nel senso proprio della parola, un’area di competenza che non ammette interferenze nemmeno da parte del più potente degli dèi, Zeus, al quale il maggiorasco conferisce la signoria sui suoi congeneri, ma nessuna onnipotenza. E infatti, quello di “onnipotenza” è un concetto del tutto estraneo alla teologia olimpica. A rigore, neppure la moira, la forza misteriosa e terribile che incatena tutti gli dèi al loro destino (moira significa “parte”, “parte assegnata”, ma anche “fato”, “sorte”, “destino”), è onnipotente (Omero la definisce semplicemente krataiè, potente, anche se qualche traduttore ha ceduto alla tentazione di rendere il termine con “onnipotente”).

Entra Senofane. Nato a Colofone, una delle antiche colonie ioniche dell’Asia Minore, rapsodo, cantore, poeta itinerante, dilettante di genio, passò sessantasette anni della sua lunghissima vita (sarebbe addirittura campato più di cento anni) a girovagare per la Grecia predicando contro le follie del passato e del presente. Nemico giurato della baldoria, degli atleti e del lusso sfrenato, il suo ideale era una festa dove non ci si abbandona a discussioni inutili, ma si onorano gli dèi e si trinca con moderazione: un’idea veramente controcorrente se si pensa alla passione dei greci per il godimento enologico (“riunione di bevitori” significava letteralmente la parola symposion che traduciamo pudicamente con banchetto). Quanto agli atleti, che andavano allora (come oggi) di gran moda, la sua opinione era che non fossero che degli avidi sbruffoni che si ingozzavano a spese della città ricevendone ogni sorta di immeritati onori. Se la prendeva con i suoi concittadini perché si erano lasciati contagiare dai Lidi a diventare dei pettoruti damerini che “andavano alle adunanze indossando mantelli tutti tinti di porpora”, con i capelli acconciati e impregnati di raffinate essenze. La sua fama imperitura è però affidata alla critica degli dèi tradizionali. Sosteneva che Omero ed Esiodo avevano attribuito agli dèi tutto ciò per gli uomini costituisce motivo di vergogna e di biasimo, come rubare, commettere adulterio e ingannarsi l’un l’altro. Affrontando di petto l’intera questione degli dèi antropomorfi, argomentava (possiamo immaginare con un ghigno divertito) che se buoi, cavalli e leoni avessero le mani e sapessero dipingere e scolpire come gli uomini, raffigurerebbero i loro dèi a propria immagine e somiglianza. Anticipando di molti secoli quello che oggi definiamo relativismo culturale, affermava che gli Etiopi credono i loro dèi neri e camusi, i Traci occhicerulei e biondi.

Comunque si valuti la personalità di Senofane, è chiaro che queste critiche stanno a indicare che in un qualche punto del processo storico è intervenuto un mutamento. Tale mutamento è ben riconoscibile nella pars construens della teologia di Senofane: esiste un solo dio, “il più grande tra uomini e dèi”, che non ha aspetto né intelletto umani, ma “come un tutto vede, come un tutto pensa, come un tutto ode”, tutto scuote senza sforzo con la sola forza della mente sempre rimanendo immobile nello stesso luogo poiché non gli si si addice andarsene a zonzo qua e là. Come si vede, ce n’è a sufficienza per gettare gli interpreti in profonde ambasce, ma una cosa è chiara: il dio che Senofane intendeva sostituire alla variopinta combriccola degli dèi tradizionali era un essere soprannaturale la cui astratta potenza comincia (fatti tutti i dovuti cambiamenti) ad assomigliare piuttosto da vicino a quella familiare caratteristica della divinità che definiamo “onnipotenza”. Resta quel “più grande tra uomini e dèi” a segnalare, con la sua nota inequivocabilmente politeistica, che il mutamento intervenuto nel processo storico era ancora in una fase in cui Senofane poteva tranquillamente convivere con l’incongruità tra la sua divinità “monoteistica” e i numi della religione tradizionale. Il che solleva un problema: se Senofane aveva ancora i piedi piantati nella tradizione (è lui a esortarci piamente ad “aver cura sempre degli dèi”), da dove aveva tratto l’impulso a rompere con l’ortodossia olimpica? C’è chi ha congetturato che alla base di questa come di tutte le altre imprese di quella variegata “banda di dottori e poeti, scienziati e ciarlatani” che si è soliti porre sotto l’etichetta unica e molto discussa di “presocratici” ci sia il passaggio (per citare il titolo di un famoso libro di Eric A. Havelock) da una cultura orale a una civiltà della scrittura. Non è difficile immaginare che i racconti di Omero ed Esiodo, una volta fissati per iscritto – e con tutto l’agio di pensarci sopra di cui potevano godere uomini “di lettere” –, potessero suonare più assurdi che nella narrazione orale. Sia come sia, il passaggio dall’oralità alla scrittura dovette costituire un potente fattore di spinta in un mondo inarrestabilmente in marcia verso livelli crescenti di astrazione. Ancor meno difficile è immaginare che le concezioni di coloro che di questa marcia costituivano la forza trainante potessero portare con sé, come ha scritto Paul Veyne, un “monoteismo latente che altro non è se non la tendenza filosofica alla sistematizzazione e al monismo”. Tuttavia, il successo di questi signori non impedì che le nuove “storie” che andavano raccontando potessero convivere ancora per molto tempo con l’indisturbata presenza dei celesti abitanti dell’Olimpo.

Siamo così arrivati all’ultimo episodio della nostra storia che aggiunge una tappa essenziale al percorso che porta dal regno primordiale di Cielo, Oceano, Terra e Ade, popolato e governato dagli dèi secondo le rispettive aree di competenza, al dominio di un unico dio “onnipotente”. Secondo il trattatello pseudo-aristotelico Su Melisso, Senofane e Gorgia, Senofane non si sarebbe limitato ad affermare i principi basilari della sua teologia positiva, ma li avrebbe anche dimostrati. La maggior parte dei commentatori ritengono la cosa storicamente infondata. L’anonimo trattatello sta comunque a dimostrare che all’epoca della sua composizione (probabilmente la tarda età ellenistica) gli attributi di dio potevano essere discussi nei termini di una teologia razionale. L’assunto di partenza dell’argomentazione è che “dio è il più potente di tutti (apánton krátiston)” – la cosa più vicina all’idea di onnipotenza divina che troviamo nella cultura greca (“più vicina” nel senso che essere “il più potente di tutti” non significa né implica l’essere onnipotente) –; si tratta di dimostrare che dio dev’essere uno. “Infatti, se ve ne fossero due o più, cesserebbe di essere il più potente e il migliore (béltiston) di tutti, perché ognuno di essi, essendo dio, dovrebbe avere queste caratteristiche in egual misura. Questo infatti è ciò che dio è e la potenza (dúnamin) di dio: dominare ma non essere dominato, ed essere il più potente di tutti. Per cui, se non è il più potente, per ciò stesso non è dio”. In pratica, dal momento che non può esserci che un solo “il più potente di tutti” (la cosa è, ovviamente, esclusa dalla stessa logica del superlativo relativo di maggioranza), o dio è uno o non è dio. “Ammettendo dunque”, continua l’argomentazione, “che ci siano molti dèi, se fossero per certi aspetti superiori e per altri inferiori gli uni agli altri, non potrebbero essere dèi, in quanto è proprio di dio non essere dominato”. (Spieghiamo l’argomentazione con un semplice esempio: se A è più bravo di B in matematica, ma meno bravo in latino e B è più bravo di A in latino, ma meno bravo di A in matematica, allora evidentemente nessuno dei due può essere in assoluto il più bravo). “Se fossero poi uguali, non potrebbero avere natura divina (theoû phýsin), perché dio dev’essere il più potente, mentre ciò che è uguale, invece, non è né migliore né peggiore del suo uguale”. (Se A e B sono ugualmente bravi in matematica, allora, ancora una volta, nessuno dei due può essere il più bravo in matematica). Conclusione: “dunque, se dio esiste e tale è la sua natura, dev’essere uno solo. Infatti, se così non fosse, non potrebbe fare tutto ciò che vuole, cioè non potrebbe farlo se ci fossero molti dèi: perciò dio è uno solo”. Parlando in termini storicamente prematuri, si può dire che l’argomentazione stabilisce che l’onnipotenza implica necessariamente l’unicità di dio (chiaramente, se esistessero più esseri con l’attributo dell’onnipotenza, questi si limiterebbero a vicenda o, come dice il testo, dio non potrebbe fare tutto ciò che vuole. Secoli dopo, la teologia cristiana assumerà che “Dio è onnipotente” significa che Dio può fare tutto ciò che vuole – vedi, ad esempio, Isidoro, Etymologie, VII, 1, 17 – rimanendo invischiata nei tortuosi meandri della conseguente problematica).

Fatto interessante, lo scritto Su Melisso, Senofane e Gorgia contiene anche una critica delle idee teologiche di Senofane. In particolare, la dimostrazione dell’unicità di dio viene attaccata nella sua stessa premessa “che dio sia l’essere supremo, intendendo con ciò il più potente e il migliore”. “In questo”, obietta l’anonimo autore, “non segue l’opinione comune (ou dokeî dè toûto katà tòn vómon), secondo la quale gli dèi sono superiori gli uni agli altri in molte cose. Quindi questa supposizione non gli deriva dal quello che è il pensiero comune sulla divinità (katà toû theoû tèn omologhían)”, ciò che costituisce una violazione della raccomandazione aristotelica che, in mancanza di premesse assolutamente certe, si argomenti a partire da endoxa, cioè da opinioni che hanno l’assenso di tutti (o della maggioranza o dei più sapienti) –e, ciò che più importa ai fini della nostra storia, suggerisce con forza che, a dispetto di Senofane e con buona pace di chi ha affermato che i “suoi attacchi alla teologia omerica devono aver esercitato una profonda influenza sia sulla gente comune che ascoltava i suoi poemi che su altri pensatori”, ancora diversi secoli dopo le argomentazioni sulla unicità e potenza di dio erano tutt’altro che universalmente accettate e che l’“opinione comune” continuava a nutrirsi dei vecchi cari dèi dell’Olimpo.

Riassumiamo e concludiamo. Sì è detto che quella di “onnipotenza” è una categoria estranea alla religione greca. Anche se di Zeus troviamo detto (Iliade, XI, 727) che è “potentissimo” (upermenés) e (Odissea (IV, 237) che “può tutto” (dúnatai apanta), ciò non significa che sia onnipotente. Benché rappresenti la quintessenza della sovranità, l’“esercizio effettivo” del suo potere, come scrivono Sissa & Detienne, “si fonda… sul rimettere continuamente in gioco un campo di forze contraddittorie e pericolose”. Neppure il dio “filosofico” di Senofane è onnipotente (il suo potere è una questione di più, non di tutto), e nondimeno i suoi poteri disumanamente amplificati ne fanno probabilmente il miglior candidato alla qualifica di “onnipotente” prima che entrasse in scena il dio degli Ebrei. L’onnipotenza di Yahweh scaturisce tuttavia dai suoi atti in quanto creatore e reggitore del mondo, ma non viene mai formalizzata in una specifica categoria ontologica. Il termine ebraico Shaddài che la Vulgata traduce pianamente con omnipotens (ad esempio, in Genesi, 17,1: “Ego Deus omnipotens) è un termine di significato oscuro che la versione dei Settanta rende con termini diversi e solo nel libro di Giobbe traduce come pantokràtor, parola forse già in uso in tarda età ellenistica come epiteto di alcuni dèi (cosa di cui però non ho trovato alcuna conferma autorevole) che costituisce l’esatto corrispondente del latino omnipotens. Ritroviamo il termine pantokràtor in alcuni luoghi delle scritture neotestamentarie greche (ad esempio, Apocalisse di Giovanni, 15, 3: Kúrie o Theòs o pantokrátor, Domine Deus omnipotens) e in Paolo, 2 Corinti 6, 18: Kúrios pantokrátor, Dominus omnipotens) a significare che l’onnipotenza come categoria appartenente all’essenza più intima della divinità è un’acquisizione cristiana (nel cristianesimo latino potrebbe addirittura essere stata favorita dall’uso abbastanza diffuso del termine omnipotens come attributo di Giove da parte di poeti come Virgilio e Lucrezio).

(Nota. Che il termine pantokràtor fosse in uso in tarda età ellenistica come epiteto di alcuni dèi è cosa di cui non ho trovato alcuna conferma autorevole. Il termine ominpotens è invece ampiamente documentato come attributo di Giove nei poeti – in parecchi luoghi virgiliani, ad esempio Eneide, III, 251 e X, 1 dove è attribuito allo stesso Olimpo, Lucrezio, De rerum natura, V, 399, Catullo, 64, 171. Ma in Cicerone, De natura deorum, II, 4, Giove è proclamato semplicemente praepotentem).

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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