LE GINOCCHIA DELLA MICAELA, O UNA DIGRESSIONE ONNISCIENTE D’ONNIPOTENZA
GIAN MARCO GRIFFI
Benché da quarantaquattro mesi mi sia rintanato quaggiù, nel mezzo di un boschetto circondato da un campo da golf, dove vivo in una grossa buca (non da golf) al centro (più o meno) di un reticolo di gallerie, talvolta capita che qualcuno riesca a risalire a me tramite la casella di posta elettronica, che mi ostino a controllare nonostante il dottor Scartaghiande mi abbia sconsigliato di farlo, oppure i social network, che mi ostino a bazzicare nonostante il dottor Scartaghiande mi abbia tassativamente proibito di farlo. Il dottor Scartaghiande è un urologo con una dissennata e insalubre passione per King Kong (e per “King Kong” intendo sia King Kong, il film del 1933 con Ann Darrow e Jack Driscoll, sia Kong, il gorillone infoiato per le bionde), e con un altrettanto dissennata e insalubre passione per la poesia, che ho conosciuto durante la prima crisi prostatica della mia vita (la minzione era diventata un supplizio idrico che pareva inventato da un ingegnere sadico, un gorgoglio di rasoi partorito da una bottega di idraulici infernali), che in realtà, come mi ha spiegato il dottor Scartaghiande con il suo pedante e compulsivo compiacimento lessicale da grammuffastronzolo, non era una crisi prostatica ma una condizione patologica caratterizzata da difficoltà, irregolarità e dolore nell’emissione di urina, spesso associata a tenesmo vescicale, causata dalla mia dissennata e perversa dedizione per la Coca-Cola Zero, bibita che ho ingollato in ingenti quantità fino al giorno prima di traslocare nella buca. Da quando ho traslocato nella buca il dottor Scartaghiande, oltre a visitarmi l’apparato urinario una volta la settimana, si è improvvisato terapeuta, e la sua prima raccomandazione è stata quella di abbandonare i social (Instagram e Facebook) e di disattivare la casella di posta elettronica. Per qualche tempo gli ho dato retta, anche perché le batterie del cellulare e del computer si erano scaricate, ma dopo un paio di settimane di permanenza ho scoperto che proprio sopra l’uscita (o l’entrata) della buca c’è un satellite per l’irrigazione del campo da golf, o almeno così lo chiamano gli operai-giardinieri (in realtà non assomiglia per niente a un satellite, assomiglia invece a un grosso astuccio verde conficcato nella terra), e da esso ricavo l’energia elettrica che mi serve per caricare i miei dispositivi, ovvero il cellulare, il computer portatile che non utilizzavo da tre anni, e che sto utilizzando adesso per scrivere la parola adesso (che parola terribile, adesso, che parola spietata, un concentrato di onnipotenza temporale che arde ogni memoria e schiaccia ogni progetto, inchiodandoci all’atroce evidenza di vivere il momento che ci attraversa, crudo e totale, senza pietà), la bilancia digitale Rowenta, lo spazzolino elettrico Oral-B, senza il quale gli incubi odontoiatrici che mi tormentano fin dalla tenera età non mi lascerebbero chiudere occhio (la mia ossessione per i denti e per i dentisti è una delle ragioni per cui mi sono deciso a traslocare nella buca). E dunque ho ripreso a controllare i social e la casella di posta elettronica. Solitamente quelli che risalgono a me lo fanno per insultarmi o per ricordarmi quanto io, con i miei sette abortivi e pretenziosi romanzi, sia stato insignificante nella storia della letteratura italiana (la mia frustrazione letteraria è una delle ragioni per cui mi sono deciso a traslocare nella buca). Mi scrivono cose così: “i tuoi romanzi hanno rappresentato il punto più basso della storia del romanzo nel nostro grande paese”. Oppure: “i tuoi romanzi sono l’ultima scoria di una fornace già spenta, il fondo bruciacchiato d’un paiolo di minestrone letterario, roba che nemmeno i ratti dei magazzini si degnerebbero di rosicchiare”. O ancora: “la tua narrativa è una muffa di biblioteca, un catarro tipografico, un’epidemia di subordinate crepate”; ma anche: “la tua prosa è un rantolo di ghisa, un rosario di virgole che sembrano sputi di locomotiva alla fine della corsa”. Ma mi scrivono anche, più semplicemente sebbene non meno entusiasticamente, “stronzo”, oppure “cretino”, oppure – ma si tratta di un vero e proprio hapax legomenon nel corpus degli insulti che mi vengono abitualmente rivolti – “paramecio”, qualunque cosa sia il paramecio (avrei potuto controllare su Google, o sul volume 26: Paleo-Pete dell’Enciclopedia delle cose Piemontesi, ma ormai ho perso qualunque stimolo, non sono più curioso, e non ho controllato – la totale perdita di curiosità per le faccende del mondo, quella che chiamo, con pompa da entomologo, “apatia del gusto”, è una delle ragioni per cui mi sono deciso a traslocare nella buca).
Invece l’altro giorno, inaspettatamente, mi ha contattato un certo Pier Marrone, il quale, per ragioni che mi sfuggono, anziché insultarmi o denigrare i miei libri mi ha chiesto di scrivere un racconto per la sua rivista; mi ha scritto: «gentile Fosco, mi piacerebbe che scrivesse un racconto per la rivista che dirigo, con tema onnipotenza». Mi sono brevemente interrogato sulle ragioni per cui abbia contattato proprio me, un autore e un uomo di nessun rilievo (la mia mancanza di profondità, la mia inettitudine, la mia soffocante superficialità, unite alla paura del giudizio delle persone, sono alcune delle ragioni per cui mi sono deciso a traslocare nella buca), un autore e un uomo affetto da una terribile malattia mentale: la frivolezza. Un autore e un uomo dimenticato da tutti, irrisorio, e allo stesso tempo, per il colmo dei paradossi, bersaglio di insulti e dileggi da parte di tutti. Stavo per cancellare la mail come faccio ogni volta che ricevo una mail, senza neppure ragionarci su, ma un attimo prima di premere il tasto Canc sulla tastiera, in quel battito d’ali angelico che intercorre tra il pensiero e l’azione, una merdosa nutria di quindici chili è sbucata dalla galleria nordovest e mi ha mostrato i denti scodellando un furioso grugnito gutturale (c’è una guerra in corso, tra me e le nutrie, una guerra terribile, selvaggia, senza pietà, così come c’è una guerra in corso tra me e le talpe, tra me e le formiche, tra me e gli insetti che popolano la buca – e che spesso diventano la mia colazione –, tra me e le tenie, i lombrichi, i sarcopti, le amebe, le zecche gigantesche, le forbicine e i formicaleoni, le larve orribili di libellula – la mia idiosincrasia per ogni forma di vita superiore alla muffa è una delle ragioni per cui mi sono deciso a traslocare nella buca) e sono stato costretto ad afferrare il bastone da golf che tengo nella nicchia est, colpendola senza esitazione; al termine della lotta, dalla quale sono uscito vincitore, ho cominciato a riflettere sull’onnipotenza, e mi sono presto reso conto che non avevo neppure un’idea vaga di che cosa fosse, l’onnipotenza: non riuscivo nemmanco a rappresentarmi mentalmente il concetto, tanto ne ero distante, e più mi spremevo le meningi, più mi lambiccavo intorno a questa presunta onnipotenza, meno mi veniva in mente qualcosa che avrei potuto scrivere.
Mi sono pesato (perdere peso, e in generale l’ossessione per il grasso in eccesso, è una delle ragioni per cui mi sono deciso a traslocare nella buca), e mi è preso un tuffo al cuore: quando mi sono trasferito pesavo 61,50 chili, e supponevo che una vita all’addiaccio mi avrebbe consentito di scendere sotto la fatidica soglia dei 60, mentre oggi peso 62,10, venti grammi più di ieri, trenta più dell’altro ieri (secondo il dottor Scartaghiande è colpa delle pupe di formica, che divoro con ingordigia – sono così succulente! sembrano gnocchi di cera eburnei, o granelli di cuscus ingrassati e traslucidi, ma scoppiettano in bocca come le caramelle frizzy pazzy –, orrendamente grasse, delle larve di libellula, dei rodilegni rossi, autentici concentrati di calorie); in pratica sto ingrassando.
Ho bruciato una carovana di formiche (bruciare formiche per la pura, tautologica ragione di poterlo fare, senza che legge umana o divina si frapponga, senza pungoli etici o morali, sapendo che nessuno mi punirà e che la mia coscienza non gracchia, è una delle ragioni per cui resto nella buca), e guardando le fiamme mangiarsi i minuscoli addomi corazzati di quei deliziosi imenotteri, quei semini di chitina che schioccavano come lenticchie in padella, udendo i toraci scricchiolare come gusci di nocciola e le testoline nere crepitare con un tonfo secco da pop-corn infernale, sentendo salire su dal fuoco un odore di pollo strinato mescolato a caramello rancido, una miasmatica fragranza di acido formico volatilizzato che mi colpiva le narici come una bestemmia olfattiva, ho pensato che in quella calda giornata di settembre, dopo aver letto la mail di un tizio che mi paragonava a uno stupido artiodattilo peloso originario delle zone boscose dell’Africa equatoriale, e insisteva a sbattermi in faccia i limiti, la noia mortifera e l’inconsistenza della mia prosa, definita «il singhiozzo asfittico di un idiota» (non si riferiva al mio secondo romanzo, Costruzioni precolombiane, e neppure al quarto, Teorema delle cose inutili, e forse neanche al settimo e ultimo, Astrazione, ma stava facendo un ragionamento sulla mia opera omnia), dopo essermi sbarazzato di una nutria e dopo aver appiccato il fuoco a un corteo di formiche, non avevo niente di meglio da fare che dedicarmi all’onnipotenza. Per prima cosa ho maledetto suor Armida – la cui faccia cattolica assomigliava a una noce stropicciata, o a un avocado maturo –, che nei miei anni fanciulleschi al Pio Alberghetto dei Bambini Perduti del Sacro Costato del Bambino Redentore mi teneva al giogo dell’onnipotenza divina: «se sbadigli a messa, brutto ignavo lercio, Dio ti ficca un fulmine in gola», mi rantuflava, e la sua faccia, nel profilo della guancia, imputridiva nella forma di una pera passa; «se continui a guardare le ginocchia della Micaela, brutto gorgoglione arrapatello libidinoso, Dio ti incenerisce le pupille come carta velina», gargottava, e il suo occhio si appannava come una prugna sfregiata dalla grandine; «se ti azzardi a saltare ancora una volta il catechismo per giocare col pallone, brutto zoticone idropico, Dio ti inchioda le gambe alla terra come pali di vigna, perché Dio è tutto, e le tue gambe sono sue», rancicchiava, e la sua lingua sembrava una foglia di cavolo nero appassita dal gelo; «se ridi mentre preghi la Madonna, brutto beota sghignazzante, Dio ti congela il cuore come un ghiacciolo, e ti muoverai per sempre con un blocco di ghiaccio nel petto, perché Dio è onnipotente e anche il freddo è suo», frustolava, e la sua pelle si increspava come la corteccia di un cedro marcio.
Era questa, dunque, l’onnipotenza? La sovrana perizia di una divinità nell’angariare un undicenne la cui unica colpa era quella di amare le ginocchia della Micaela? Gesù! (l’algida assenza di Gesù è una delle ragioni per cui mi sono deciso a traslocare nella buca), erano ginocchia meravigliose, quelle della Micaela; mi sarebbe piaciuto mostrarle a Pier Marrone, o almeno descriverle nel racconto che mi ha chiesto, e che naturalmente non scriverò mai. Il racconto sull’onnipotenza… Ma quale onnipotenza d’Egitto! Eccovi l’unico tema possibile per la vostra rivista: LE GINOCCHIA DELLA MICAELA. Su quelle ginocchia sì che ci sarebbe da scrivere un racconto, macché, di più, di più, un’opera sterminata, una saga, un’epopea rotulea, un’Iliade del condilo femorale: erano due piccole cupole levigate di un osso perfetto, con al centro una rotula che sembrava un disco di porcellana appena modellato, incastonato in un leggero alone rosato, un tramonto in miniatura su un colle arrotondato. Sotto, l’incavo popliteo – parola che sa di grotta segreta e di anatomie proibite – era un’insenatura ombrosa e misteriosa, un solco tenero dove la pelle diventava più sottile, quasi traslucida, e lasciava intravedere il reticolo azzurrino di vene sottostanti, come una mappa di un paese misterioso e irraggiungibile; io fantasticavo di appoggiare le labbra con devozione sulla rotula, sentirne la curvatura liscia e fresca, e poi, senza interrompere il contatto, scivolare lentamente in quell’incavo segreto, e una volta raggiunto quel nido tiepido e protetto, avrei disseminato una pioggerella di bacetti, rapidi e leggeri come le zampe di una formica scampata alla mia furia ultrice e piroclastica, tanto da procurare alla Micaela un solletico appena percettibile ma insistente, un messaggio in codice trasmesso attraverso la pelle. L’obiettivo non era un’idea vaga e adulta di possesso, ma qualcosa di più immediato e fanciullesco: desideravo farle provare un sobbalzo improvviso, un brivido che le serpeggiasse lungo la coscia, un’irrefrenabile risatina soffocata, un piacere chiaro e semplice come uno schiocco di caramella o il brusio di un’altalena che vola alto, ma per questo non meno intenso e non meno totalizzante di quell’altro piacere che io all’epoca potevo solo vagamente immaginare e che chiamavo, per sentito dire, rapporto completo, quella bislacca faccenda da cui nascono i bambini. Invece per colpa della vostra sdegnosa onnipotenza, tramite sorella Armida (suor Armida mi ha mostrato la cattiveria, e la cattiveria è una delle ragioni per cui mi sono deciso a traslocare nella buca), non potevo neppure vagheggiare cotanta meraviglia, che era amore e scoperta, altrimenti Iddio, quell’essere brutale e prepotentissimo, mi avrebbe condannato a un prurito inestinguibile all’inguine come promemoria della lussuria. Mi torna in mente ora, suor Armida, quella suoraccia maligna, pluriarticolata, demoniaca, all’epoca onnipotente come il suo dio, la cosa più brutta della mia giovinezza, e mi torna in mente associata alla cosa più bella, le ginocchia della Micaela (chissà che fine avrà fatto, la Micaela, e che fine avranno fatto le sue ginocchia consumate da trent’anni di inginocchiatoi sprezzanti, duri, malagevoli). O forse l’onnipotenza sono io che dispongo di una fiumana brulicante di formiche con un po’ di benzina e un fiammifero. Sono io, in questo istante, il dio delle formiche? Le tragedie delle umane sorti sono le alterne oscillazioni del piacere e del dolore, o meglio il piacere che si mescola col dolore per originare una nuova forma di vita, chiamiamola autocommiserazione, chiamiamola algolagnia, quella forma di vita che conosco bene da quando ho cominciato a crogiolarmi, sì, a grufolare quasi con compiaciuta ostinazione dentro quel dolore che mi scaturisce come un miasma dalle pagine implacabili degli sbrodolamenti assatanati contro i miei libri, come se mi avessero conficcato una lama sottile nel costato, una lama da scorticatore di conigli che resta lì a vibrare, e io ci trovassi un gusto velenoso a tenermela piantata, a sentire ogni palpito che ci batte sopra come una campanella di tortura, lo stesso gusto che ho provato il giorno in cui morì il mio primo cane. Si chiamava Aloa, e io mi pascevo – sì, pascevo è il verbo esatto, pascevo come le lucertole che si pascono immote, torpide, sbilenche – nel dolore soffocante che mi avvolgeva e che non solo mi tormentava, ma che volevo mi tormentasse, che supplicavo mi tormentasse.
Strano, appena ho cominciato a ragionare sulla parola onnipotenza mi sono venute in mente immagini di distruzione, di devastazione, lingue di fuoco e folgori, punizioni terribili e tracotanze assortite, arroganze, borie e superbie. Non ho pensato neppure per un istante che l’onnipotenza potesse essere usata per costruire, per aggiustare, per fare il bene. E adesso, nella solitudine della mia buca, stordito dall’acido formico, mentre la nutria arrostisce sullo schidione (la carne di nutria ha un sapore delicato, leggermente pungente, e secondo il dottor Scartaghiande è estremamente sana, povera di colesterolo e di grassi), snocciolo onnipotenze: l’onnipotenza grottesca degli onorevoli pettoruti negli ambulacri di Montecitorio, che dispongono delle piccole insignificanti vite dei piccoli insignificanti elettori;
l’onnipotenza del paramecio;
l’onnipotenza della natura; l’onnipotenza di Superman; l’onnipotenza della bellezza che sfiorisce; l’onnipotenza della burocrazia; l’onnipotenza dell’onnipotenza; l’onnipotenza del pensiero; l’onnipotenza del destino;
la sfolgorante onnipotenza della luce piena mattutina, quando si spande a illuminare il mondo;
l’onnipotenza dell’ingegno umano; l’onnipotenza del popolo; l’onnipotenza nel narratore onnisciente; l’onnipotenza di King Kong; l’onnipotenza della digressione che divora il discorso; l’onnipotenza del punto di sospensione che sbriciola il periodo;
l’onnipotenza della necrosi pancreatica;
l’onnipotenza della ripetizione che sfianca e persuade; l’onnipotenza dell’onnisapienza, dell’onnignoranza, dell’onniscienza; l’onnipotenza dell’algoritmo; l’onnipotenza dell’intelligenza artificiale; l’onnipotenza delle formiche che sopravvivranno all’uomo e alla sua Storia;
l’onnipotenza della noia mortifera generata dalla mia prosa;
l’onnipotenza del pettegolezzo di provincia, più tenace di un dio; l’onnipotenza del caso; l’onnipotenza della cecità;
l’onnipotenza del tardigrado.
La nutria è cotta. Da quando il dottor Scartaghiande mi ha regalato I centonove modi per cucinare la nutria (le sue raccomandazioni: paté di nutria, nutria al forno con le cipolle, nutria arrosto con le patate, fegatini di nutria alla veneziana, nutria in umido, nutria stufata alla Cajun, escabeche de nutria), ho cominciato a mangiare nutria molto più spesso, pesandomi scrupolosamente dopo ogni pasto (anche se l’ortodossia dei dietologi impone di pesarsi al mattino, a digiuno). Addentando un cosciotto ho cercato la parola onnipotenza sull’unico libro che mi sono portato nella buca – non considero l’Enciclopedia delle cose piemontesi un vero e proprio libro –, l’Elenco Telefonico Sip 1996 di Asti e provincia (aggiornato al 10 novembre 1995), e sono risalito a un certo Onnipotenza, geom. Gianni, 37 via Anna Magnani, Asti, tel. 924488. Ecco, mi sono detto, forse sarebbe il caso di raccontare la sua storia, se ne ha una (e chi non ce l’ha?). Una storia antifrastica, sicuramente, una storia contronominale, una storia misera e inane, fatta di mesti spaccati assonometrici per rimesse periferiche, di tracciati ortogonali, la storia di una vita avvolta nella carta millimetrata, un’epica di baracche saturnine e coni scaleni, poliedri irregolari, cuspidi e merlature d’una proiezione ortografica obliqua e claudicante, periferie costruite e arredate già in degrado, distrutte dall’insignificanza e dalla malinconia, edifici sbilenchi con le decorazioni di stucco rosa, una topografia spaziale stenterella, sghemba, di cose disegnate ad minchiam, prospetti d’autorimesse e cabine dell’Enel, gabinetti in fondo ai cortili e tramezzature in cartongesso d’appartamenti ideali per ospitare persone tristi, minori, mediocri; una storia con casupole di periferia, casupole da vino nero e zanzare – sempre traballanti, piombate d’una malinconia calcinosa. Me lo sono immaginato solo, il geom. Gianni, privo d’onniveggenza, privo d’onnipotenza, senza incanti, senza prodigi, solo con la sua midolla da antieroe geometrico nel suo fragile ossame disarmonico, solo con la severa immortalità nel suo corpo morituro, sprofondato sul suo divano Poltronesofà (di notte il suo letto) pronto a una maratona di film romantici su Netflix (prima, durante la cena Saikebon, il telegiornale – che non perde per nulla al mondo – e a seguire Affari tuoi – cui assiste con sana trepidazione – finché attacca con C’è posta per te, cui seguono Love actually, Harry, ti presento Sally, Prima dell’alba, La mia Africa, Casablanca, Colazione da Tiffany, Sabrina).
Mi sono domandato se, a distanza di trent’anni, a quel numero avrebbe risposto ancora qualcuno. Magari proprio lui, il geometra Onnipotenza, in tutta la sua minuscolaggine. Ho composto il numero. Squilli lenti, cavernosi, come se passassero da un’altra epoca. Dopo l’ottavo, una voce roca, né maschile né femminile, ha detto soltanto: «Le ginocchia della Micaela non ti salveranno, brutto stronzo gonfio di formiche frizzy pazzy». E ha riattaccato.
ENDOXA - BIMESTRALE LETTERATURA Endoxa settembre 2025 GIAN MARCO GRIFFI Onnipotenza
