LIMITE, AUTOSUPERAMENTO CURA: PER UNA CRITICA FILOSOFICA DELL’ONNIPOTENZA UMANA

TOMMASO CODIGNOLA

La nostra civiltà appare fondata sull’illimitato. Nel campo della produzione l’idea che la crescita illimitata sia un obiettivo almeno discutibile è ancora lontana dall’essere accettata. Continuiamo a rallegrarci dell’aumento del pil e a preoccuparci per una sua stasi o decrescita. Al massimo vengono elaborati indici di crescita che comprendano altre variabili (l’indice di sviluppo umano di Amartya Sen è forse il più noto in tal senso), ma facciamo ancora fatica a raffigurarci l’uscita della nostra civiltà dall’ideologia della crescita materiale infinita. Uno dei maggiori ostacoli a pensare una società post-crescita viene probabilmente dal fatto che tendiamo a raffigurarcela come una sorta di stasi eterna e ce ne ritraiamo impauriti, considerando tutto compreso il dinamismo del mondo moderno un valore irrinunciabile della nostra idea complessiva di una buona società e di una vita buona. Tuttavia, le cose non stanno necessariamente così. Nessuna civiltà precedente, né quella antica, né quella medievale sono state connotate dall’idea di una crescita materiale infinita, eppure sono state civiltà che potrebbero essere definite statiche solo in un senso molto parziale.

Il primo, in età moderna, a distinguere con chiarezza tra progresso umano e crescita fu un filosofo ed economista inglese dell’800, John Stuart Mill. Non ce lo aspetteremmo, perché normalmente lo si inserisce all’interno del movimento utilitarista, che è considerato una delle basi della moderna teoria economica. Eppure, ecco cosa scriveva Mill nel 1848, anno di uscita dei suoi Principles of political economy:

È forse superfluo osservare che una condizione stazionaria del capitale e della popolazione non implica affatto uno stato stazionario del progresso umano. Vi sarebbe sempre lo stesso scopo per ogni specie di cultura intellettuale, e per il progresso morale e sociale; e altrettanto spazio per perfezionare l’arte della vita, con una probabilità molto maggiore di perfezionarla, una volta che le menti degli uomini non fossero più assillate dalla gara per la ricchezza

(Principi di economia politica, UTET, pag. 1002)

Questa conclusione di Mill è verosimilmente da collegare alla sua critica all’idea benthamiana dell’indifferenza qualitativa dei piaceri. Bentham, padre fondatore dell’utilitarismo e maestro dello stesso Mill (era un amico del padre James Mill), considerava la felicità come una sorta di calcolo in cui alla somma dei piaceri andava sottratta la somma dei dolori: quanto più la somma dei piaceri eccede quella dei dolori, tanto maggiore sarà il grado di felicità. Un’azione è buona se incrementa il livello di felicità, cattiva se fa il contrario. Mill condivideva questo quadro di massima, ma riteneva che i piaceri non fossero tutti dello stesso tipo e che i piaceri etico-sociali, intellettuali ed estetici fossero più significativi che quelli materiali nella realizzazione della felicità di un individuo.

Da allora un numero crescente di autori ha approfondito e esplorato l’idea di un’economia post-crescita e la possibilità di uno stato stazionario. La crisi ecologica sempre più dirompente nella quale ci troviamo immersi ha reso le idee di Mill sempre più attuali.

È importante osservare che Mill collega ecologia e felicità umana e presenta l’idea di una separazione tra progresso e crescita non nei termini di una scelta dolorosa ma necessaria, imposta dai limiti ecologici del pianeta (peraltro all’epoca ancora lontani dall’essere messi in pericolo), ma come l’adeguato compimento della nostra natura di esseri umani. La sua antropologia, in altre parole, si distingue da quella benthamiana dell’edonismo quantitativo o indifferenziato proprio perché comprende l’idea che, oltre una certa soglia, gli esseri umani per essere felici abbiano bisogno di un altro genere di piaceri che non quelli materiali. Questi piaceri sono di tipo estetico, etico-sociale o intellettuale e, come Mill stesso afferma, chi ha provato entrambi, quelli mentali e quelli fisici, è abilitato a giudicarne e normalmente predilige i primi sui secondi. Da una prospettiva che può apparirci a prima vista molto distante, queste idee ricordano la distinzione di Pier Paolo Pasolini tra sviluppo e progresso: lo sviluppo essendo di fatto l’idea di una crescita indefinita di produzione e consumi, il progresso avendo invece di mira un’autentica liberazione della persona umana e la piena fioritura delle sue potenzialità. Queste idee, oltre ad aver generato un interessante filone di ricerca economica, sono state confermate in ambito psicologico da autori come Abraham Maslow e Viktor Frankl, entrambi i quali hanno sviluppato nella seconda metà del Novecento una visione dell’essere umano come bisognoso d’altro che di soli beni materiali. Questo “altro” viene chiamato auto-realizzazione (self-actualization), auto-trascendenza (self-trascendence) o, nel caso di Frankl, semplicemente significato (Bedeutung). Si tratta in ogni caso di una sfera che non ha a che fare col livello della produzione e del consumo e che non può esservi ridotto.

Possiamo concludere la prima parte di questa riflessione con la conclusione che l’ideologia della crescita infinita sia un’idea da superare sia dal punto di vista ecologico che eudaimonistico e che, in quanto espressione di una volontà di onnipotenza come assenza di limite, sia il fondamento di una civiltà che, in questa forma, non può proseguire.

La seconda forma dell’onnipotenza contemporanea si manifesta invece non come ideale della crescita materiale infinita, ma come plasmabilità infinita e replicabilità tecnica della nostra natura. Essa, cioè, tocca i due campi delle biotecnologie e dell’intelligenza artificiale. Processi come la fecondazione eterologa, la gestazione per altri, la clonazione e il potenziamento genetico sono già oggi tecnologicamente possibili e ci pongono di fronte all’idea di una potenza nata sì dall’umano, ma in grado di traghettare l’umano fuori dalla grammatica esistenziale che finora lo ha accompagnato: possiamo stabilire per via tecnica l’eliminazione della paternità, la scissione tra gravidanza e maternità, l’eliminazione della genitorialità e la creazione di nuove specie. Il rischio che il desiderio come nuova categoria fondativa del diritto venga realizzato per via tecnologica al servizio di interessi economici senza alcuna considerazione riguardo alla Lebenswelt, il mondo-della-vita per come finora l’abbiamo conosciuto, sono concreti. L’idea che la natura umana sia nient’altro che una palestra di libera sperimentazione e non anche il delicato risultato di millenni di evoluzione della specie e della civiltà diventa il fondamento implicito di un paradigma che fonde desiderio soggettivo, realizzabilità tecnica e profitto economico ponendoli a fondamento della comunità. Di fronte a simili prospettive, scrittori e pensatori – è giusto ricordarlo – appartenenti in modo inequivocabile al campo del pensiero laico come Aldous Huxley, Gunther Anders, Hans Jonas o Juergen Habermas hanno sollevato dubbi e preoccupazioni per “il destino dell’umano” al tempo della tecnica.

Un discorso analogo vale per le tecnologie della comunicazione fino all’intelligenza artificiale. Anche in questo caso assistiamo al doppio movimento di invenzioni elaborate gradualmente dalla mente di homo sapiens il cui esito potrebbe diventare, come nel caso delle biotecnologie, un suo auto-superamento: la creazione cioè di macchine dotate di sempre maggiori funzioni e l’appalto ad esse di sempre più nostre capacità col risultato paradossale, eppure straordinariamente concreto, che l’anelito verso l’onnipotenza dell’umano si rovesci in un auto-rimpicciolimento dell’uomo. Studi molto recenti, tra cui uno del Massachussets Institute for Technology,  sembrano avvisarci in tal senso: un certo utilizzo intensivo dell’intelligenza artificiale sembra poter ridurre le capacità cognitive umane, mentre il Nobel per la fisica 2024 Geoffrey Hinton, considerato uno dei fondatori di questa tecnologia, ha recentemente lanciato un allarme in merito ai rischi di un suo sviluppo incontrollato.

Ci troviamo dunque di fronte a una triplice crisi di onnipotenza: a) la crisi del paradigma della crescita illimitata proprio dell’ambito dell’economia che sta conducendoci (e ci ha già condotti) dentro una simultanea crisi ecologica e di senso; b) la crisi indotta dalla plasmabilità tecnologica del bios umano, che rischia di portarci verso un futuro post-specie; infine c) la crisi indotta dal trasferimento delle nostre capacità cognitive all’esterno che rischia di indebolirci e paradossalmente rimpicciolirci al cospetto di macchine sempre più performanti. A queste tre crisi di onnipotenza, è naturalmente da sommare la crisi indotta dalla proliferazione nucleare in cui il paradosso dell’onnipotenza in grado di rovesciarsi in pochi istanti nel più totale annichilimento è particolarmente evidente: la bomba atomica, infatti, rappresenta un così grande potenziale distruttivo che, nel momento in cui essa si trova in possesso di più paesi disposti in alleanze contrapposte, essa rappresenta di fatto la possibilità di un auto-annichilimento della specie stessa.

Dal punto di vista filosofico queste quattro crisi possono essere riassunte nella comune e profetica matrice nietzscheana del superomismo e dell’auto-superamento (Selbstüberwindung). Ognuna di esse manifesta in un senso – crescita infinita, trasformazione infinita della nostra natura, creazione di intelligenze esterne, creazione di una potenza distruttiva definitiva – una tendenza ad andare oltre la condizione umana per come finora l’abbiamo sperimentata e conosciuta.

La dialettica limite-illimitato, tuttavia, è prima di tutto dentro di noi: spingerci oltre il limite noto è un tratto di fondo della nostra specie e la testimonianza della nostra curiosità, del nostro desiderio di esplorare l’ignoto e muovere verso di esso. Non è un caso che già la cultura greca avesse colto e rappresentato in forma di ammonimenti e figure entrambi questi aspetti della nostra natura: da una parte il medèn ágan (“niente in eccesso”) scolpito sul tempo di Apollo a Delfi, il to mesòtes (“giusto mezzo”) aristotelico o la Hybris (superbia) come tendenza da stigmatizzare rappresentata paradigmaticamente nella vicenda di Icaro; dall’altra le figure eroiche di Prometeo, che dona all’umanità il fuoco e la civiltà, e naturalmente Ulisse, l’eroe della curiosità e dell’avventura.

Senza dunque demonizzare la tendenza a spingerci oltre i limiti imposti alla nostra condizione, che ha di fatto plasmato la nostra storia generando la civiltà e aprendo anche oggi a inedite possibilità positive (basti pensare alla medicina genetica o alle tante applicazioni di aiuto dell’intelligenza artificiale in tutti i campi dell’attività umana), appare chiaro quanto sia necessaria per il nostro tempo una discussione approfondita e quanto possibile aperta e democratica di ognuna di esse. Si tratterà, in particolare, di tener sempre come valore fondamentale la persona umana e la sua dignità e di spostare la direzione di fondo di questi sviluppi dalle tendenze superomistiche, economiciste o iper-individualistiche oggi ampiamente presenti al loro interno verso la categoria della cura: cura dell’umano, cura della vita, cura del pianeta.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

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