L’UOMO ALLA PROVA NELLA CRISI DELL’ONNIPOTENZA

LEOPOLDO SANDONÀ

L’onnipotenza è attributo che prima di essere antropologico deriva dall’ambito teologico e quindi appare necessario rimandare immediatamente al versante teologico della questione, senza esaurirla in esso.

Anzitutto, approcciando questo lato, c’è da riflettere su una certa distorsione del significato che, transitando al livello antropologico, ha portato ad una concezione dell’umano onnipotente e anche degli strumenti dell’umano che diventano onnipotenti. L’onnipotenza pensata in chiave fortemente monoteistica è stata tra le radici più importanti di una formula antropologica cara soprattutto alla modernità, di un’antropologia che supera costantemente i propri limiti e nella tarda modernità di un’antropologia che è forte di una tecnica spinta a superare questi limiti in modo radicale, in modo sempre più pervasivo. Non è privo di significato il parallelo con un’altra deriva dell’onnipotenza monoteistica, assai esplicita nell’eredità teologico-politica della modernità assolutista. Tali derive nel contesto iper-tecnologico sembrano come saldarsi e rafforzarsi in modo ultra-potente.

Qui soccorrono due valutazioni, una di natura teologica e una che potremmo definire tecno-antropologica. La prima permette di riscattare il significato di onnipotenza non limitato da una prospettiva puramente monoteistica ma relazionale-trinitaria. L’onnipotenza in questo luogo teologico si mostra come dipendenza dell’ e dall’a(A)ltro e al limite come impotenza, se  pensiamo alla croce con lo svuotamento-kenosis del Figlio; ma volgiamo il pensiero anche allo Spirito che soffia dove vuole, che nel suo ritrarsi invisibile – quasi vicino al principio pneumatico di Anassimene – fa  essere gli altri potenti e possibili rispetto ad un’idea di potenza che tutto copre e tutto definisce. Lo stesso Padre, talora sovrapposto all’immagine complessiva del divino con una deformazione molto evidente nel periodo post-tridentino, è dipendente nelle relazioni e mostra i caratteri non di un’onnipotente e insieme dispotica arbitrarietà ma di un coinvolgimento, a partire dalla relazione originaria che è quella di Creazione, di cui la natura eredita le contrazioni di un parto infinito. Già dal punto di vista teologico assistiamo ad una precisazione di ciò che definiamo onnipotente.

D’altro canto la tarda modernità, la contemporaneità e l’età secolare ci mostrano il dispiegamento quasi onnipotente della tecnologia e qui veniamo alla seconda valutazione. La tecnica è l’ultimo dio, mai ciò appare più vero di oggi in cui ormai quotidianamente tutti abbiamo delle risposte oracolari dall’intelligenza artificiale. L’uomo, che ha costruito la propria potenza anche moderna attraverso gli strumenti, si trova oggi spiazzato perché di fatto quegli stessi strumenti che hanno determinato la sua onnipotenza ne definiscono la radicale impotenza e marginalità, il senso del limite e della dipendenza, in questo caso non relazionale ma come enti passivi accessori. L’uomo si riduce a cosa nella sua dipendenza dallo strumento reificandosi. La tecnologia si pone quindi come luogo della massima espressione onnipotente dell’umano, ma insieme paradossalmente sancisce la fine dell’onnipotenza dell’umano. Questo paradosso determina per l’uomo attuale, che pensi ancora di utilizzare la tecnologia per i propri fini, un destino tragico, specie laddove, come accade appunto nelle tragedie antiche, avvenga un momento di riconoscimento di una realtà ben diversa rispetto a quella che si vive. In fondo il sistema ultra-potente del tecnologico fa in modo che l’uomo attore della tecnologia non si senta superato dalla stessa e viva in una sorta di continua rimozione. D’altro canto i segnali emergenti sia dalle dinamiche relazionali e interpersonali sia dalle dinamiche globali e geopolitiche, riescono ormai difficilmente a mascherare un pendio assai pericoloso e in cui l’accelerazione di caduta assume talora dei caratteri di ingovernabilità.

A partire da queste premesse teologiche e antropo-tecnologiche notiamo una convergenza antropologica che ci pone una domanda: non è forse venuto il momento-tempo opportuno di riscoprire la dipendenza e l’impotenza, di riscoprire una diversa forma di potenza e di potere? Ci soccorre qui l’immagine di un potere ascetico o di un’ascesi del potere, come potere verbale e non sostantivato, come potere del possibile, quindi non come potenza-Macht. Nel momento stesso in cui si sperimenta la pienezza della potenza, l’ascesi personale e comunitaria manifesta la pienezza come povertà, l’onnipotenza come dipendenza. Nell’ascesi del potere possiamo ritrovare un senso del limite quindi anche una ripresa di una forma di potenza e di potere ben diversa da quella del modello teo-antropo-tecnologico dell’onnipotenza. Questo sentiero è quello percorso anche dalla teologia contemporanea, così come dall’antropologia ormai approdata irreversibilmente ad una condizione tecno-umana. Questa inversione dall’onnipotenza ultra-potente alla dipendenza non solo sul piano antropologico ma anche sul piano tecno-antropologico definisce tutta una serie di conseguenze pratico-pragmatiche.

Se l’attualità mostra in modo tragico il fallimento dell’onnipotenza tardo-moderna, qui si aprono le strade alternative: da un lato il sentiero di un superamento definitivo dell’umano in nome dell’onnipotenza tecnologica oggi che l’uomo ha consegnato alla tecnica il testimone della pretesa di divinità. Potremmo definirlo come il sentiero della guerra, perché la forma prima e ultima di dispiegamento della potenza come mero accrescimento di strumenti in vista di sempre nuovi fini nella storia prende i caratteri della contesa bellica, in cui falsa immagine del divino e autoproiezione dell’umano ultra-potente si manifestano insieme nelle forme tecno-pratiche della tecnologia, non a caso spesso messa alla prova dell’innovazione entro gli scenari bellici. Anche se la guerra strettamente intesa non è sempre portato automatico di questa deriva, tale sentiero manifesta elementi di dominio che conducono a dinamiche contrappositive e di contenzioso. L’altro sentiero è quello della crisi antropologica come luogo del cammino faticoso nella storia. Se le forme tecno-oppositive sono forme anzitutto ideali o matematiche di definizione del reale – in certo senso sempre a rischio di risorgente gnosticismo –, il sentiero dell’umano in cammino è un sentiero che fa i conti con il reale. Appare come sentiero della faticosa opera quotidiana, è sentiero di relazioni che si costruiscono nella reciprocità. Tale sentiero non è solo umano, ma è sentiero di sapienza nei confronti della natura come nei confronti della tecnica e nei confronti dello stesso divino, nei confronti dell’alterità interumana. Questo percorso non descrive un’impotenza assoluta che determina poi una forma di oblazione sacrificale rispetto all’altro, ma una forma di reciprocità che peraltro è anche quanto ci testimonia la prospettiva teologico-trinitaria contemporanea. Il luogo tecnologico che determina la crisi tragica di cui sopra, appare essere il luogo di manifestazione della crisi e quindi, seppur in modo difficile e non scontato, il luogo di recupero di consapevolezza rispetto alle sfide che caratterizzano l’umano. Dunque nella fine dell’onnipotenza l’umano può riscoprire se stesso, riscoprendo anche diversi volti del divino non più onnipotente, i volti del naturale sottoposto ormai irreversibilmente alla mediazione tecnologica, i volti dello stesso tecnologico che appare essere non più macchina anonima deterministica ma un congegno che imparando accompagna l’umano, guidandolo evolve, allenandosi acquisisce sempre più dei caratteri non deterministici e non anonimizzanti.

È assai probabile che questa crisi dell’onnipotenza possa dare esiti diversificati. Da un lato possiamo assistere ad un umano che proprio perché si sente impotente consegna definitivamente il proprio destino all’onnipotenza tecnologica. Dall’altro possiamo assistere ad una fusionalità nei confronti di una natura pensata in modo neo-romantico, come fuga dall’onnipotenza tecnologica. Infine si può assistere anche ad un ritorno del religioso nelle forme integraliste di un’assunzione del religioso ideologico ma anche in forme neo-settarie in cui il religioso, specie in gruppi medio piccoli, diventa forma di rifugio rispetto ad un’esistenza senza orientamento e senza perché.

In realtà la crisi dell’onnipotenza umana, assieme alla crisi dell’onnipotenza tecnologica, può consentire delle assunzioni di consapevolezza rispetto alla interdipendenza reciproca degli attori in campo. Ecco che allora un ultimo punto della riflessione si allarga a scoprire se ci possano essere delle forme pratico pragmatiche di ascesi del potere. Se lo scenario attuale è dominato dalle tecnologie del sé che diventano tecnologie del noi e in ultima analisi investono deterministicamente l’umano, anche in questo caso la tentazione già descritta può essere quella, non senza analogie con la globalizzante e spiazzante atmosfera dell’età ellenistica, di rifugiarsi nei piccoli gruppi, nelle amicizie che condividono visioni del mondo, obiettivi pragmatici dell’esistenza, sinergie e simpatie sul piano culturale, politico, religioso. Senza negare questa dinamica, che non va assolutamente demonizzata, tuttavia possiamo pensare a luoghi di ascesi del potere non solo come luoghi di liberazione individuale, ma come luoghi di deposizione della potenza, come luoghi di ricreazione di una dipendenza condivisa che si fa potenza delle opere. Già Il mondo tardo antico ha vissuto una dinamica simile. La crisi dell’Impero romano ha diverse risposte di fronte a sé, ma qui se ne vuole ricordare in particolare una e cioè quella del monachesimo, specie in quelle forme occidentali in cui eremitismo e cenobitismo vanno assieme. Di fronte alla decomposizione del tessuto socio politico, la risposta è insieme individuale e personale da un lato ma anche comunitaria dall’altra, ricreando relazioni, in quel caso improntate all’immagine escatologica del compimento, ma anche ricreando tessuti sociali ed economici che andavano disfacendosi. Peraltro il mondo monastico è esempio di trasmissione della cultura ma anche di relazione con il creato e di evoluzione di tipo tecnologico con invenzioni e con nuove prospettive di ambito economico. Non si vuole con questo esempio determinare risposte simili nell’oggi, ma certamente la crisi dell’onnipotenza che abbiamo descritto richiede creatività e forme di nuova ricostruzione delle relazioni, pena il consegnare la vita di tutti e di ciascuno a nuove forme autoritarie, che potranno ammantarsi di prospettiva religiosa, di prospettiva ideologico politica lontana parente di quella novecentesca, di prospettiva tecnocratica ed economico burocratica, senza dimenticare le più classiche forme di autoritarismo da ricondurre al singolo o a pochi singoli, peraltro ben mascherate dietro alle forme appena citate ma anche dietro alle forme di una democrazia ormai agonizzante. Non possiamo quindi predeterminare delle forme di risposta a questo strapotere tecnologico che tuttavia manifesta anche le forme della sua crisi, ma possiamo scorgere i caratteri di alcuni luoghi di ascesi del potere che non possono mancare: una formazione culturale e anche professionale che metta in chiaro i limiti del tecnologico e la non onnipotenza dello stesso senza negarne un utilizzo proficuo nella quotidianità; la costruzione di reti sociali tra piccoli gruppi in grado di arginare la decomposizione del tessuto politico; il passaggio da reti medio piccole a forme politiche più allargate che possano recepire quanto vissuto in tali luoghi di ascesi del potere; decisiva appare inoltre la disseminazione di queste “cellule del buon consiglio” dentro il tessuto anche economico e produttivo dei nostri mondi, come per esempio accade in comitati etici non ridotti all’ambito sanitario ospedaliero ma presenti anche in aziende ed in particolare in aziende ad alto impatto tecnologico. Questi elementi ancora aurorali permettono di far lievitare, oltre la caduta degli dei come caduta di ogni forma di onnipotenza, elementi di speranza per una dipendenza reciproca che non sia dipendenza di dominio ma dipendenza generativa.

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