ONNIPOTENZA: BREVI NOTE SU UN PASSAGGIO DI TESTIMONE, DALLA BORGHESIA AL SUO COMITATO D’AFFARI

LUIGI MARCO BASSANI

In una nota intervista del 1966 a Der Spiegel, Martin Heidegger segnalava quello che percepiva come il maggiore problema politico del suo tempo. “Per me, oggi, la questione decisiva è capire come si possa far corrispondere, in generale, un sistema politico all’attuale epoca tecnica e di quale sistema potrebbe trattarsi. A questa domanda non so dare risposta”. Per quanto incapace di fornire soluzioni, il filosofo sosteneva che né la democrazia, né il nazionalsocialismo, né tantomeno i regimi comunisti potevano essere sistemi politici in grado di “governare” la tecnica. Anzi, ne erano tutti succubi.

Più in generale, lo Stato moderno gli sembrava troppo debole, disteso di fronte alla tecnica planetaria, al punto da diventarne il servitore sciocco e cieco. Ad avviso di Heidegger, nessun sistema politico storicamente esistito era mai stato in grado di emanciparsi da questo dominio della tecnica. In fondo, anche l’omaggio nei confronti del nazionalsocialismo del 1935 (e 1953), nell’Introduzione alla metafisica in cui sosteneva che “l’intima grandezza di questo movimento” starebbe nell’avere favorito “l’incontro fra l’uomo moderno e la tecnica planetaria” è davvero poca cosa, al di là della comprova della sua fede in quello che lui chiama Aufbruch (slancio).

Esattamente dieci anni dopo Gianfranco Miglio (in Le trasformazioni dell’attuale sistema economico) si interrogava su quale sistema politico si stesse sviluppando intorno a quelli che lui interpretava come slittamenti e torsioni del sistema economico che un tempo avremmo definito “di mercato”, causati dall’enorme ruolo giocato dalla politica. Il professore comasco segnalava una politicizzazione dell’economia che determinava un crollo della produttività e dell’innovazione e notava uno spostamento dall’economia di mercato verso forme di rendita politica ai bordi del collettivismo. In breve, rifletteva sulla dialettica fra struttura e sovrastruttura.

L’influenza di Marx era in ogni caso palpabile in queste, e in molte altre analisi, di allora come di oggi. Per quanto la pretesa scientificità del materialismo storico sia stata contestata fin da subito, una qualche forma edulcorata di “materialismo” circola nel mondo dalla morte di Marx. E appare davvero immarcescibile. In breve, anche senza sposare l’idea che le forme di produzione della ricchezza siano il solo motore della storia e producano pensiero, diritto e forme politiche, l’idea che l’economia “conti di più” e per qualche via un po’ misteriosa determini le forme politiche (con una relazione magari biunivoca e non unidirezionale fra struttura e sovrastruttura) rimane largamente diffusa.

E tuttavia questo mi sembra un vero retaggio del passato. La realtà delle cose sotto gli occhi di chiunque è che la sovrastruttura, lo Stato, è risultata più forte di ogni economia, di mercato, collettivista, mista. Viviamo, ormai da moltissimo tempo nell’era del pieno dominio della politica e dello Stato.

E questo perché lo Stato, lungi dall’essere succube della tecnica, è tecnica in sé e per sé ed è quella vincente e ormai onnipotente, al punto da aver piegato ai propri fini sia il capitalismo, sia la scienza. Se la tecnica – rimanendo vicini a Heidegger – è un modo di organizzare e interpretare il mondo, non è un problema che possa avere soluzioni “interne”, ma è un destino storico che orienta l’umanità intera, non vi è nulla di più pervasivo e onnipotente dai tempi di Machiavelli della tecnica del potere, ossia di quel destino nel quale siamo indirizzati da almeno cinque secoli. Lasciando da parte gli aspetti più tecnofobici e antimoderni del pensiero di Heidegger, in fondo le caratteristiche disumanizzanti della tecnica planetaria possono essere attribuite direttamente allo Stato senza grosse forzature.

Come mai di fronte al tribunale del pensiero moderno il potere l’abbai “passata liscia” e sotto accusa sono finite semmai la scienza alleata alle cieche e oscure forze del capitale rimane, a mio modesto avviso, uno dei maggiori misteri della nostra storia intellettuale degli ultimi secoli.

Ma il fatto è che l’accentramento dei poteri e la creazione di una “sala di comando” unica per tutte le operazioni governamentali – vale a dire, il progetto dei progetti dello Stato – ha creato una realtà che ha una sua logica ferrea. In un mondo dominato dallo Stato, l’idea che la società civile proietti le proprie relazioni di potere reale nella sfera politica (Marx), oppure che lo Stato superi le divisioni della società civile non eliminandole, ma riconducendole a un’unità superiore (Hegel) non possono che far parte di un’ipnosi intellettuale.

Proprio Gianfranco Miglio, nelle sue Lezioni di scienza politica (registrate fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso) aveva visto giusto quando sosteneva il ruolo ausiliario delle classi economico-sociali.

“Di fatto, protagonista della storia è […] soltanto la classe politica, con le sue frazioni e il loro continuo alternarsi, con la sua continua evoluzione. Accade sotto i nostri occhi e ci rivela come le classi economico-sociali contino in quanto diventano seguito di frazioni di classe politica e operano nella storia essenzialmente come seguiti di classe politica.”

(G. Miglio, Lezioni di Politica. 2. Scienza della Politica, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 399)

La storia è una lotta per la conquista del potere, nel quale le classi economico-sociali hanno un ruolo accessorio, possono diventare al massimo compartecipi di ciò che la classe politica combina.

Di fatto il percorso che ha portato dalla ricerca di una plenitudo potestatis al raggiungimento e al superamento della stessa inizia con un ruolo ben marginale del potere. L’irrompere del borghese – tecnologo, produttore di beni, dispensatore di prestiti – frantuma l’universo medievale ben prima che vi sia qualcosa di neanche lontanamente paragonabile allo “Stato (moderno)” in Europa.

La società medievale era strutturata secondo un modello rigido, spesso sintetizzato nello schema tripartito di oratores, bellatores, laboratores: coloro che pregano (clero), coloro che combattono (nobiltà), coloro che lavorano (contadini). A queste funzioni corrispondeva un preciso riconoscimento simbolico e politico. La figura del commerciante, invece, non aveva spazio in questo ordine sociale: non apparteneva al sacro, non era parte dell’aristocrazia militare, né rappresentava la base produttiva agricola.

Eppure, dopo l’anno mille, lungo le rotte del Mediterraneo e del Baltico, nei mercati delle fiere francesi e nelle piazze delle città lombarde (nel basso Medioevo “Lombardia” era tutta l’Italia padana) si afferma questa nuova figura sociale: il borghese. Questo termine, che etimologicamente rimanda al burgus, cioè al borgo fortificato, indicava inizialmente l’abitante della città, colui che viveva entro le mura e partecipava alla vita economica e associativa urbana.

Il borghese nasce come figura liminale: inserito nel tessuto sociale ha però una scarsa legittimazione, ossia è ricco di denaro, ma povero di prestigio simbolico. Se il carattere dinamico dei borghesi poteva essere chiaro a tutti i contemporanei già nel Medioevo maturo, il sospetto di fronte a questa figura, in una società che guardava con grande diffidenza l’accumulazione di ricchezza, soprattutto non garantita da privilegi di sangue, rimaneva quasi insormontabile.

La città medievale è un luogo di sperimentazione sociale e politica. Protetta da mura, dotata di mercati e corporazioni, essa garantisce una sicurezza che nelle campagne non esisteva, dove i contadini erano esposti alle pretese dei signori feudali. Nei mercati cittadini, il denaro diventa il criterio universale di scambio, sostituendo progressivamente la consuetudine e anche il privilegio (nella sua connotazione medievale). La contrattualità, la libera negoziazione dei propri interessi e pretese, prende il posto delle relazioni di dipendenza personale. Nascono così nuove forme di libertà individuale: lo status di “cittadino” implica diritti e protezioni, in contrapposizione alla servitù della gleba. In Italia, tra XII e XIV secolo, Firenze, Venezia, Genova e Milano rappresentano il modello più avanzato di città. I mercanti fiorentini inventano strumenti di credito e di contabilità (lettere di cambio, libri mastri a partita doppia) che rivoluzionano l’economia. Venezia costruisce un impero commerciale sul Mediterraneo, Genova domina le rotte marittime occidentali, Milano si specializza nell’industria tessile.

Nel Nord Europa, città come Lubecca, Amburgo, Danzica si uniscono nella Lega Anseatica, una federazione commerciale che travalica i confini politici e dimostra come l’economia possa costituire una rete ben più resistente delle alleanze feudali.

Ma se la città è il suo regno, la posizione del borghese nel più vasto mondo resta a lungo ambigua. Da un lato accumula ricchezze, dall’altro fatica a ottenere riconoscimento sociale. Vive sulla sua pelle un macroscopico squilibrio di status. Per secoli, i ceti più alti della borghesia hanno tentato di nobilitarsi acquistando terre, titoli o sposandosi con famiglie aristocratiche (il capolavoro Barry Lyndon di Stanley Kubrick del 1975 descrive proprio l’ascesa e la caduta di un borghese in un mondo ancora largamente nobiliare). L’attività commerciale era considerata un mezzo, non poteva diventare un fine, era un’attività utile, ma non del tutto onorevole.

La rivoluzione culturale del Rinascimento e, più tardi, della Riforma protestante, segna l’inizio di un mutamento definitivo che renderà la nostra società l prima nella quale far soldi è molto più figo che essere vescovi o generali. Il profitto si costruisce una propria sfera assiologica. Con la Rivoluzione industriale, la borghesia diventa al fine classe dirigente, capace di imporre i propri valori – efficienza, progresso tecnico, accumulazione – come misura del mondo.

Il borghese introduce nella storia un principio inedito: il mercato come motore di trasformazione sociale. Si tratta del più potente strumento di trasformazione della storia umana: spazza via tutti i privilegi di nascita, non riconosce né fede, né spada, ma solo la logica impersonale dello scambio. È un dispositivo che tende all’uguaglianza e che disgrega le strutture tradizionali.

Jean Baechler nel suo piccolo classico sulle origini del capitalismo del 1971 ha sottolineato che la modernità nasce proprio dalla comparsa di città nelle quali politica e guerra arretrano di fronte all’economia. Il mercato diventa la nuova arena in cui si gioca la competizione per il potere. Non è un caso che Marx, nel Manifesto del Partito Comunista, riconosca alla borghesia un ruolo “rivoluzionario”: nessuna classe, prima di essa, aveva trasformato così radicalmente il mondo, imponendo il proprio modello di vita a tutte le società.

La borghesia non dissolve solo il vecchio mondo, ma è la protagonista di quello che gli storici chiamano il “miracolo europeo”, ossia la capacità dell’Europa, tra XV e XIX secolo, di espandersi, colonizzare, imporre i propri modelli economici e politici a livello planetario. Le città mercantili diventano imperi commerciali, i banchieri finanziano monarchie, le compagnie coloniali aprono rotte oceaniche. La Rivoluzione industriale, la diffusione della finanza, il consolidarsi di un’etica del lavoro produttivo trasformano radicalmente la società. Al di là della sua visione filosofica, Marx non si sbagliava troppo quando affermava che i governi erano i “comitati d’affari della borghesia” perché la politica poteva apparire, almeno ad occhio nudo, abbastanza al servizio di interessi economici che potevano essere percepiti come onnipotenti.

Ma il secolo scorso ribalta totalmente questo piccolo mondo antico e borghesissimo. Le due guerre mondiali dimostrano che nessun borghese, né nessuna aggregazione economica, per quanto potente, potrebbe sognare di rivaleggiare con lo Stato nella mobilitazione totale delle risorse e degli uomini. Lo Stato dispone di burocrazia, eserciti permanenti, sistemi fiscali e strumenti ideologici tali da mettere le élite economiche.

Il mondo contemporaneo poi sembra davvero confermare la tesi di Miglio. I grandi imprenditori tecnologici – Bill Gates, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg, Elon Musk – sono stati celebrati come benefattori e visionari finché si sono mossi nel solco politico dominante. Ma quando uno di loro, Musk, ha scelto di avvicinarsi a Trump, l’intero sistema mediatico e politico si è attivato per delegittimarlo, trasformandolo da genio in pericolo pubblico. In realtà, Musk ha solo aperto un varco e quasi tutti sono subito saltati sul carro del vincitore. Le avvisaglie si sono viste quando il Washington Post, di proprietà di Bezos, non ha sostenuto la candidata democratica Kamala Harris. Ma il dato è quello segnalato dalla lapidaria osservazione di Gianfranco Miglio, ossia le élite economiche – e quelle tecnologiche si presume siano le più potenti della storia –  non sono nulla di fronte al vero potere politico. Se prima erano tutti i cagnolini di compagnia dei democratici, oggi sono saltati sul carro di Donald Trump, ma come puro “aiutantato” al servizio di un principe la cui potenza non ha paragoni nella storia. Il potere ha ormai da tempo la capacità di neutralizzare e ridimensionare anche i soggetti economici più potenti del pianeta.

Il confronto storico è illuminante. Nel Seicento, Luigi XIV, pur essendo il Re Sole, aveva mille e mille contropoteri da cui era imbrigliato politicamente e poi per ottenere le risorse con le quali dedicarsi al suo sport preferito, la guerra, doveva ricorrere al “buon cuore” dei grandi banchieri. La tassazione non bastava mai e senza l’appoggio di Samuel Bernard (1651–1739) non sarebbe andato molto lontano.

Oggi Elon Musk, inizia una controversia serrata con il Presidente Trump, in un delirio di onnipotenza minaccia addirittura di fondare un terzo partito e poi su di lui cala il silenzio. Il più grande borghese del mondo e della storia umana non ha alcuna possibilità di imporsi in uno scontro diretto con il capo politico più potente del pianeta.

Viviamo dunque in un’epoca paradossale: proprio mentre la borghesia sembra aver raggiunto il massimo della potenza materiale, essa appare più fragile che mai sul piano politico. Il capitalismo digitale e la globalizzazione hanno moltiplicato le ricchezze private, ma non hanno scalfito il primato dello Stato. La storia sembra così confermare la visione di Miglio più che quella di Marx: la politica resta la dimensione decisiva, capace di integrare, controllare o reprimere ogni altra forza sociale. L’onnipotenza è ormai solo quella dei governi che controllano ben oltre la metà delle risorse e delle ricchezze del pianeta. E il fatto che schiere di intellettuali gonzi piagnucolino diuturnamente sul presunto potere di Google, dei social, dei costruttori di macchine e satelliti non muta assolutamente la realtà dei fatti.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

Lascia un commento