ONNIPOTENZA DIVINA
ANDREA AGUTI
Qualcuno ricorderà una scena del film Manhattan di Woody Allen dove, nel corso di un colloquio, uno dei protagonisti cerca di giustificare le proprie debolezze morali (il tradimento della moglie) con il fatto che siamo degli “esseri umani”, “delle persone”, e si rivolge con tono di rimprovero al suo interlocutore che lo accusa, impersonato dallo stesso Allen, dicendo: “Tu ti credi Dio!”. Al che Allen replica con una delle sue famose battute: “A qualche modello dovrò pure ispirarmi”.
La scena suggerisce qualche spunto di riflessione dal quale vorrei partire per parlare dell’onnipotenza divina. “Tu ti credi Dio!” oppure, in forma interrogativa, “ma chi ti credi di essere, Dio?” sono frasi che tutti abbiamo pronunciato o ci siamo sentiti rivolgere (soprattutto se siamo professori universitari). In esse il termine “Dio” è usato con il significato che la teologia gli conferisce usualmente e che nel catechismo di Pio X era sintetizzato dalla definizione, oggi ingiustamente negletta, dell’“Essere perfettissimo”. Si tratta di un significato preciso, coerente, riferito ad un ente che non presenta le mancanze tipiche degli esseri umani. Se parliamo di “Dio”, non stiamo certamente parlando di qualcuno che è impotente o ignorante o meschino. Naturalmente non è detto che chi usa questo termine voglia significare il possesso di tutte queste proprietà assieme, ma certamente almeno una di esse è implicata. Chi ci rimprovera di crederci Dio vuole rimproverare di pensarci, come minimo, o onnipotenti o onniscienti o moralmente perfetti.
L’uso del termine “Dio” nel contesto linguistico che ho appena richiamato o in contesti simili non fornisce alcuna prova che la realtà significata esista in re e non soltanto in intellectu, ma certamente prova che il termine e il suo significato fanno ancora parte del linguaggio ordinario. Si tratta di un elemento da non sottovalutare. L’annuncio della “morte di Dio” è in circolazione da più un secolo, ma se il termine “Dio” fa ancora parte del linguaggio ordinario, esiste un motivo in più per dubitare della veridicità di quest’annuncio. A questo riguardo i teorici della “morte di Dio” dovrebbero abbandonare per un attimo Nietzsche e prendere in considerazione un passaggio del Saggio di John Locke: “Una volta che sia stato menzionato in qualche parte del mondo il nome di Dio, a significare un Essere supremo, onnipotente, onnisciente e invisibile, la conformità che tale idea possiede a quei principi della ragione comune, e l’interesse degli uomini, che li porterà sempre a fare menzione assai frequente di questa idea, la devono necessariamente diffondere assai lontano e farla passare in tutte le generazioni seguenti” (Libro I, cap. III, § 10). Infatti, quale altro termine potrebbe essere usato, in modo più appropriato, per indicare quella realtà che non presenta le mancanze degli esseri umani e che, in questa forma, si presenta alla mente di ciascun essere umano razionalmente dotato in modo chiaro e distinto? Così inteso, “Dio” è un termine comune, non un nome proprio. Chi lo usa non si sta riferendo, almeno direttamente, a Jahvè, Gesù Cristo, Allah, o Brahma, i nomi dati a Dio dalle diverse comunità religiose, e quindi lo usa con un significato che è comprensibile anche a chi non ha una fede religiosa.
Ma torniamo allo scambio di battute del film di Allen. In questo scambio “tu ti credi Dio!” suona come un rimprovero, e lo è effettivamente. Chi di noi, infatti, può vantare di possedere una o tutte le proprietà che competono a Dio? Questo vale in primis per l’onnipotenza. Nessuno può pensare veramente di essere onnipotente a meno che non soffra di un “delirio” che lo porta ad avere di sé un’immagine falsata, e in ultima analisi alla schizofrenia. Se diamo segni di sviluppare questo delirio è utile e salutare che gli altri ce lo facciamo notare. È un invito alla modestia, ad evitare che diventiamo dei megalomani. Ma naturalmente Dio può essere preso come criterio di giudizio della realtà umana senza pensare di essere Dio e questo è il senso che traspare dalla replica al rimprovero: “A qualche modello dovrò pure ispirarmi”. Presa sul serio, la battuta può allora significare: “Non ho la pretesa di essere Dio, ma se devo prendere a modello qualcuno, allora Dio è il candidato migliore”.
Lo scambio potrebbe continuare così: “Ma perché devi prendere qualcuno a modello? Ciascuno è modello a se stesso”. Ma allora, si potrebbe replicare, perché le debolezze degli esseri umani continuano ad apparirci tali? Perché ricordare di essere una persona umana, dovrebbe servire per giustificare le nostre debolezze, quando non esistesse il modello di una realtà superiore alla persona umana? Se questo modello non ci fosse, gli esseri umani sarebbero semplicemente quello che sono, e nessun giudizio valutativo sarebbe possibile. Ma naturalmente anche quelli che sostengono una tesi simile, i cosiddetti “naturalisti”, emettono in continuazione giudizi valutativi, il che significa che un qualche modello è ben presente anche nella loro mente come nella mente di tutti gli altri. Qual è dunque il modello?
Di modelli ce ne sono tanti e ognuno può scegliersi quelli che vuole, ma est modus in rebus. Se bisogna scegliersi un modello, allora perché scegliersi un modello che è inferiore agli altri, quando posso permettermene uno che non soltanto è superiore, ma è massimale? “Dio” è appunto questo modello massimale che tutti (ovvero tutti quelli che usano bene la ragione) possono permettersi. Prendiamo ancora in considerazione un passaggio dal Saggio di Locke. Si tratta del passaggio in cui, riflettendo sull’idea di Dio come “essere supremo”, si sostiene la tesi che questa idea si compone di altre idee che arrivano dall’esperienza, come le idee di “esistenza e durata; di conoscenza e potere; di piacere e felicità e di molte altre qualità e poteri che è meglio avere piuttosto che esserne privi” (Libro II, cap. 23, § 33). Lasciamo perdere la facile obiezione che potrebbe essere sollevata nei confronti di questa concezione, e cioè che l’idea dell’“essere supremo” sia soltanto un antropomorfismo che scaturisce dall’accrescimento esteso all’infinito di poteri e qualità mondane. Infatti, questa idea può scaturire da una semplice definizione logica, come nel caso del cosiddetto argomento ontologico di Anselmo d’Aosta, senza bisogno di accrescere alcunché. Cartesio, nella terza delle sue Meditazioni, ha compreso bene questo aspetto, allorché ha affermato di concepire “Dio come attualmente infinito in un sì alto grado, che non si può nulla aggiungere alla sovrana perfezione che esso possiede”.
Quello che interessa è piuttosto che l’idea di Dio è inseparabile dal possesso di “qualità e poteri che è meglio avere piuttosto che esserne privi”. Le qualità che è desiderabile avere sono quelle che rendono grandi, e che tendenzialmente tutti vorremo avere; queste qualità divengono in Dio delle perfezioni perché sono possedute al loro grado massimale. Se si vuole parlare sensatamente di Dio non si può dunque che parlarne, lo abbiamo già detto, come dell’ente che ha tutte le perfezioni, ovvero dell’“Essere perfettissimo”. Ma una volta che ci si sia elevati a questo livello, come è possibile razionalmente scegliersi come modello qualcosa di inferiore? Se non lo scegliamo, è perché non vogliamo sceglierlo. Liberi di farlo, ovviamente, ma non si venga a dire che è più razionale fare così.
Dio è dunque, per definizione, onnipotente, perché il potere è una delle qualità che rende grandi e che da lui è detenuta al livello massimale, e se Dio è onnipotente da lui dipende ogni altro potere. Non è forse questo il senso della replica di Gesù Cristo a Pilato, che gli ricorda il suo potere di metterlo in croce: “Non avresti alcun potere (exousia) su di me se non ti fosse stato dato dall’alto” (Gv 19, 10-11).
Ma naturalmente a questo punto iniziano i rompicapi teorici. Se onnipotenza significa poter fare qualsiasi cosa, allora Dio può anche violare le leggi logico-matematiche o far sì che qualcosa che sia accaduto non sia accaduto? E, se da Dio dipende ogni altro potere, i mali nel mondo dovuti agli abusi umani di potere, non hanno Dio, in ultimo, come responsabile? Alcuni rispondono positivamente a queste domande, ma il prezzo da pagare è alto: un Dio che fosse in grado di violare le leggi logiche, come il principio di non contraddizione, renderebbe inconsistente la nozione di verità, facendo venire meno il criterio per riconoscerlo come Dio, mentre un Dio che fosse responsabile degli abusi dei potenti nel mondo perderebbe necessariamente l’attributo della perfezione morale.
Una nozione assoluta di onnipotenza genera comunque dei paradossi: Dio può creare qualcosa che non riesce poi a distruggere? Oppure, secondo un esempio che viene ampiamente discusso nella filosofia della religione odierna, Dio può creare una pietra così pesante da non riuscire a sollevarla? Tanto la risposta positiva quanto quella negativa profilano un’impossibilità da parte di Dio, sicché la sua onnipotenza sembra in ogni caso limitata. Si può tuttavia sostenere, come ha fatto Anselmo d’Aosta, che si tratta di impossibilità apparenti e che ogni volta che si afferma che Dio non può fare una cosa “s’intende solamente dire che nulla può indurlo a farla” (Cur Deus homo, II, 17). Allora Dio è onnipotente non nel senso che può fare astrattamente qualsiasi cosa, ma nel senso che può fare qualsiasi cosa egli voglia. Così, non appena Dio vuole qualcosa e quindi necessariamente, in virtù della sua onnipotenza, anche la realizza, perché a lui soltanto si applica la massima “volere è potere”, Dio non è più onnipotente in senso assoluto. Anselmo lo afferma chiaramente: “Quando Dio compie una cosa, dopo che essa è stata compiuta, non può fare che non sia compiuta e rimane sempre vero che è stata fatta” (ibi). Infatti, se è vero che qualcosa è stato fatto, Dio, che è la verità, non può volere che non sia vero.
Il risultato è che una nozione assoluta di onnipotenza è coerente soltanto se applicata alla natura di Dio, senza riferimento alla sua volontà. Su questo punto ha ragione John E. MacTaggart: “Se chiediamo che cosa esista al di fuori di un Dio onnipotente, la risposta (…) deve essere: quello che egli vuole. Se chiediamo che cosa esista al di fuori di un Dio onnipotente, indipendentemente dalla sua volontà, la risposta deve essere: assolutamente nulla” (Some Dogmas of Religion, VI, 169). Ora, siccome esiste qualcosa anziché il nulla, è evidente che Dio ha voluto il mondo e che lo ha voluto traendolo fuori dal nulla. La dottrina teologia della creatio ex nihilo, in effetti, è servita ai teisti per affermare in modo coerente l’onnipotenza di Dio, dal momento che, se esiste qualcosa di coeterno a Dio, questi non può essere onnipotente. Tuttavia, questa dottrina sopporta soltanto un concetto relativo di onnipotenza. Dio non perde l’attributo dell’onnipotenza dopo la creazione, e può fare tutto quello che vuole, ma non può non volere quello ha voluto, perché altrimenti contraddirebbe la propria volontà, cioè sé stesso.
Quei teisti, come Pier Damiani, che sostengono una nozione assoluta di onnipotenza pensano che il potere di Dio sia qualcosa di coeterno a lui, “sempre fisso” e che “non muta” (De divina omnipotentia, XVI), e questo è vero, in un certo senso, dal momento che il potere di Dio non è altra cosa dalla sua essenza. Ma “potere” è un concetto relazionale, indica un principio che termina in qualcos’altro. Il Dio onnipotente che non vuole nulla al di fuori di sé stesso, non esercita alcun potere e non stabilisce alcuna relazione (se non in sé stesso e con sé stesso, come credono i cristiani). Ma dal momento che vuole qualcos’altro o qualcun altro da sé, egli anche esercita questo potere e quindi anche, almeno dal nostro punto di vista, entra in relazione con qualcos’altro e con qualcun altro. E le relazioni, lo sappiamo, vincolano. Si tratta di un principio generale che vale anche per Dio, perché egli stesso ha voluto che valesse. Questo principio non consente forse di rendere compatibile l’onnipotenza divina con la libertà umana e di evitare che Dio sia considerato il responsabile dei mali che esistono nel mondo a causa degli abusi umani del potere? E questo principio non rappresenta forse una guida, per analogia, alla comprensione del senso delle relazioni umane, offrendo il modello per stabilirle e mantenerle nel modo giusto?
Proviamo allora a trarre qualche conclusione da quel che ho detto fin qui. In primo luogo, l’onnipotenza è un concetto coerente soltanto se pensato come un attributo di Dio, perché Dio è l’Essere che ha tutte le perfezioni. In secondo luogo, l’onnipotenza è un concetto comprensivo di tutti i poteri, sicché non esiste potere che possa essere concepito senza relazione a questo concetto massimale, e questo con buona pace dei teorici della secolarizzazione. In terzo luogo, la conoscenza di questo attributo divino è possibile soltanto a partire dalla creazione, sicché la creazione lungi dal rendere Dio “debole” o “impotente”, secondo la tesi di un’insistente retorica religiosa o parareligiosa che cerca di giustificare teologicamente le debolezze umane per ritrovare così una credibilità perduta, è il mezzo per rivelarla. Infine, l’onnipotenza divina, per come si manifesta nella creazione, offre un modello per gestire il nostro potere, piccolo o grande che sia. Infatti, per riprendere la battuta di Allen, non è forse vero che “a qualche modello dobbiamo pure ispirarci”?
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA TEOLOGIA ANDREA AGUTI Endoxa settembre 2025 Onnipotenza
