ONNIPOTENZA E VOLONTÀ UMANA
PAOLO BETTINESCHI
La capacità di realizzare tutto ciò che si vuole o si desidera. Questa, in buona sostanza, è l’onnipotenza. L’oggetto di un sogno, per l’essere umano. L’attributo proprio di Dio, per le religioni monoteistiche. Nel politeismo, invece, alle diverse divinità si attribuiscono ancora poteri differenti e specifici, e quel potere che rientra nelle capacità proprie di un certo dio, in linea di massima non rientra nelle capacità proprie di una cert’altra divinità. Così, se guardiamo per esempio al politeismo greco, il potere di Apollo di far sorgere il sole non è condiviso da Poseidone, il quale, però, ha di suo il potere di controllare i mari e di provocare i terremoti, cosa che né Apollo né altre divinità saprebbero fare. E se Zeus, il re degli dei olimpici, detiene i poteri più ampi di tutte le altre divinità che a lui sono subordinate, la sua potenza non è ancora assoluta come invece è la potenza dell’unico Dio di cui parla la Bibbia.
La potenza del Dio biblico è assoluta perché è slegata da ogni vincolo, perché è sottratta ad ogni impedimento, perché non sottostà a nessuna forza che sia estranea a Dio stesso. Ciò che Dio vuole, Dio può. Anzi, ciò che Dio vuole, Dio perfettamente realizza, senza nemmeno sottostare allo scorrere del tempo, che per contro, nell’agire umano, normalmente distanzia l’ottenimento della cosa voluta dal momento precedente in cui il volere ad essa si rivolge. La volontà divina, in questo senso, è una volontà già da sempre attuata o realizzata.
L’essere umano sogna appunto di possedere una potenza simile a quella divina. L’essere umano, cioè, sogna l’onnipotenza. E perché noi sogniamo o addirittura desideriamo coscientemente l’onnipotenza? Noi facciamo questo, perché là dove non c’è onnipotenza, là c’è innegabilmente una qualche forma di impotenza. E impotenza significa incapacità di realizzare il proprio volere così come si vorrebbe realizzarlo, ossia perfettamente e immediatamente, cioè senza mancanze e senza dover sottostare ad alcuna attesa. Ma l’incapacità di realizzare il proprio volere così come si vorrebbe realizzarlo comporta immancabilmente dolore o sofferenza. La volontà che si sente impotente o incapace di conseguire la cosa voluta è una volontà che soffre per la sua debolezza (Nietzsche l’ha insegnato). E quanto più grande è l’incapacità di ottenere ciò che si vuole intensamente, tanto più grande ed intensa è la sofferenza patita dal soggetto del volere. Se, ad esempio, il benessere dei nostri cari è ciò che soprattutto vorremmo vedere realizzato e garantito stabilmente, l’incapacità di realizzare e garantire stabilmente tale benessere è qualcosa che ci rattrista ed angoscia in sommo grado.
Per evitare di soffrire, il soggetto del volere vorrebbe eliminare del tutto ogni motivo di impotenza, cioè vorrebbe allontanare da sé ogni forma di incapacità. Sicché, il desiderio di onnipotenza si pone come una conseguenza della nostra impotenza e del timore della sofferenza che colleghiamo alla nostra impotenza. La sofferenza a cui la nostra impotenza ci espone ci fa desiderare d’essere onnipotenti. Solo così – si ritiene – angoscia e dolore potrebbero essere evitati: contando su una forza invincibile capace di farci ottenere sempre tutto ciò che vogliamo.
La realtà, tuttavia, ci rimette immancabilmente dinnanzi ai limiti delle nostre capacità o delle nostre forze. Fin dalla culla, un po’ per volta, ci troviamo ad imparare che non abbiamo il potere di appagare tutti i nostri desideri. Un seno che non arriva quando lo vorremmo aver presente, un mal di pancia che non se ne va quando vorremmo invece che terminasse subito, oppure una coperta che non smette di mancare quando ancora abbiamo freddo: situazioni frustranti e originarie come queste ci spingono presto ad abbandonare l’idea cosciente di essere noi in possesso di quella forza invincibile che ci farebbe esistere come dei soggetti onnipotenti. Permane però intenso, anche al di là di questo riconoscimento, il desiderio di onnipotenza. E se il soggetto onnipotente che potrebbe garantirci circa l’appagamento sicuro dei nostri desideri non siamo noi, questo soggetto onnipotente potrebbe essere individuato in qualcuno che è altro rispetto a noi.
Inizialmente sono le figure genitoriali, con cui abbiamo anzitutto a che fare, a essere investite dalla nostra fantasia di una simile onnipotenza (“la mamma e il papà possono fare tutto quello che vogliono; possono fare qualunque cosa” – così pensa il bambino molto piccolo). Ma anche la mamma e il papà (o chi per essi) manifestano presto limiti e difetti, quanto al loro potere appagante. E così anche loro perdono il carattere onnipotente che nella primissima infanzia siamo portati ad attribuirgli. Il sentire religioso subentra probabilmente in questa fase della vita, laddove ci si comincia a chiedere se possa esistere o meno un essere realmente onnipotente, e se tale essere onnipotente possa o meno relazionarsi a noi come un amico o un alleato, come uno che ci aiuta quando noi non riusciamo ad ottenere ciò che vogliamo con le nostre sole forze, anziché come uno che di noi si disinteressa totalmente e magari addirittura ci disprezza fino al punto di avversarci.
Se guardiamo ancora al racconto biblico veterotestamentario, troviamo che Dio è descritto appunto come il Signore onnipotente che stringe un’alleanza col popolo dei suoi fedeli. Se il popolo dei fedeli non verrà meno alla propria fede e non avrà abbandonato la legge divina indicata nel Decalogo, tale popolo non dovrà temere né l’ira del Signore, né il tradimento delle promesse di bene ricevute con l’alleanza. Col Nuovo Testamento, poi, Dio si dà a conoscere non solo come il Signore onnipotente, ma anche come un Padre sempre benevolente e misericordioso; come un Padre che arriva addirittura ad incarnarsi e a sacrificarsi, rendendosi Figlio dell’uomo, per esser più vicino e per liberare definitivamente dal male i suoi figli/fratelli. Incarnazione, morte e resurrezione di Dio nella persona del Figlio, in questo modo, sigillano e danno compimento alla più antica alleanza stretta da Dio con Abramo e con Mosè. Nella fede religiosa di matrice biblica, e in particolar modo nel cristianesimo, dunque, l’essere umano ritiene di far parte di un’alleanza storica che lo vede sostenuto e protetto nientemeno che dall’Onnipotente. Nessun autentico desiderio di bene resterà inappagato, per grazia di Dio. E il male, assieme alla morte, non definirà in maniera ultimativa il nostro destino.
Resta da considerare, però, che avere una fede religiosa non è ancora sapere stabilmente la verità delle cose che per fede sono credute e sperate. Aver fede, non è ancora vedere «faccia a faccia». «La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia», insegna Paolo di Tarso (I Cor, 13, 9-12). E nel tempo dell’imperfezione del conoscere, il cuore del fedele si trova esposto al dubbio. All’interno del dubbio che può cogliere il cuore del fedele cresce la tentazione. Quest’ultima si configura come la volontà di rompere l’alleanza con Dio – le cui promesse di bene non si manifestano ancora nella loro perfezione o secondo il loro compimento – per allearsi con altre potenze apparentemente più capaci di appagare nel breve periodo il desiderio umano.
Durante l’Esodo, nell’attesa di giungere alla Terra Promessa, il popolo di Dio tradisce velocemente l’alleanza stabilita e, con l’assenza di Mosè, prende a venerare un vitello d’oro, attribuendo a quest’idolo – e non più a Dio – sia la liberazione dalla sanguinosa schiavitù egizia, sia la capacità di condurlo al più presto nel luogo promesso al di là del deserto (Es, 32). La fede collettiva nella potenza del vitello d’oro, in quel frangente, ha la meglio sulla fede collettiva nella potenza di Dio. Ma anche dopo quella circostanza, anche oltre il racconto biblico e la condivisione o la non condivisione della fede determinata che in esso viene espressa, dobbiamo registrare come la storia umana abbia conosciuto altri idoli e altri vitelli d’oro. L’uomo, cioè, ha storicamente cercato la protezione di forze o potenze alternative all’unico Dio onnipotente di cui parla il monoteismo religioso, funzionalmente alla più immediata soddisfazione del proprio desiderio o della propria volontà.
Se si devono fare i nomi di alcune di queste potenze alternative al Dio biblico, con le quali l’essere umano ha cercato di stringere una diversa alleanza, potremmo citare le arti magiche, la bellezza estetica, la ricchezza economica, le ideologie totalitarie a sfondo razziale oppure quelle collettiviste a sfondo ateistico, l’efficienza degli eserciti o degli apparati militari, la tecno-scienza che si è sviluppata dalla modernità fino ai nostri giorni. È difficile non vedere come, nel corso della loro storia, gli esseri umani abbiano cercato la protezione di queste potenze contro il rischio di non vedere appagato il loro volere, sacrificando o subordinando ad esse la fede e gli impegni assunti nei confronti della potenza divina a cui in altro tempo invece totalmente si rimettevano. C’è infatti stato un tempo in cui per alcuni è sembrato più conveniente affidarsi alla magia – e cioè all’utilizzo di conoscenze e pratiche esoteriche ritenute capaci di far essere l’impossibile –, piuttosto che affidarsi all’ascolto e all’osservanza della parola del Dio biblico. C’è stato un tempo in cui, all’interno di alcune civiltà, soprattutto la bellezza fruibile mediante i sensi è parsa capace di sedare l’inquietudine e di appagare nell’immediato il desiderio umano. Così, pure, sono esistiti ed esistono alcuni che giudicano che solo la ricchezza privata generata dal capitale possa rendere felici, cioè soddisfatti quanto al proprio volere, indipendentemente dal rispetto dei dettami religiosi. Per altri, invece, solo attraverso la difesa violenta della propria razza, oppure solo mediante l’esplicito abbattimento della fede religiosa e la socializzazione delle ricchezze si sarebbe potuto (e per qualcuno ancora si potrebbe) realizzare il sogno di una società veramente buona e giusta. Dal passato fino ad oggi, poi, non è mai venuta meno la convinzione diffusa che affidarsi al potere dei propri armamenti sia infinitamente più saggio e sicuro che non affidarsi al potere della preghiera e all’intervento divino che essa vorrebbe richiamare. Soprattutto, però, è alla capacità della tecno-scienza di risolvere i problemi grandi e piccoli del vivere quotidiano che i popoli sempre più risolutamente si affidano.
Non esiste quasi più luogo abitato della Terra che faccia eccezione: la potenza della tecnica basata sulla scienza ipotetico-sperimentale di derivazione galileiana è ormai diventata la potenza egemone. Ad essa le culture e le tradizioni si sono subordinate. Ad essa le ideologie politiche di ogni colore si sono votate, quando per suo tramite non sono state direttamente fatte cadere (è stato questo il caso del comunismo sovietico, imploso e sconfitto per la sua arretratezza tecnica). Mediante la tecnica il capitalismo crede di poter generare sempre più ricchezza, e ad essa sacrifica una parte consistente dei principi economici su cui pure esso si fonda (come la scarsità mediana delle merci, il rispetto dei vincoli di concorrenza leale e il contrasto alle situazioni di monopolio). Col supporto della tecnica anche la bellezza – e con essa la salute dei corpi – sembra essere più incrementabile, meglio fruibile, maggiormente preservabile dal passare del tempo che altrimenti la rovinerebbe. Armamenti ed eserciti, poi, si rendono tanto più efficienti e perciò potenti quanto più sono tecnicamente riforniti ed organizzati. Essere all’avanguardia dal punto di vista tecno-scientifico è essere potenti quanto alla capacità di intervenire sulle cose del mondo per renderle conformi alla volontà umana – in ogni campo e per ogni scopo. E non essere tecnicamente potenti significa essere impotenti. Questa è ormai diventata la convinzione o la fede più diffusa. Chi provasse a mettere in dubbio tale fede difficilmente non sarebbe riguardato come un “pazzo” o uno “sprovveduto”.
La tecno-scienza, in ragione della fede condivisa nel suo straordinario e irrinunciabile potere, sembra allora avere preso il posto del Dio onnipotente di cui parla la Bibbia a cui nei secoli passati ha guardato la tradizione occidentale. La tecno-scienza vale oggi come «l’ultimo dio» a cui l’essere umano ha scelto di affidarsi (l’espressione è di Emanuele Severino, che all’analisi di questo fenomeno ha dedicato molti dei suoi scritti). Per chi ancora crede nella rivelazione biblica, essa è o dovrebbe essere valutata come l’ultima espressione dell’idolatria, e quindi come l’ultimo vitello d’oro fabbricato dall’uomo. C’è da chiedersi, allora, perché l’essere umano si rende ripetutamente preda della tentazione idolatrica, da una parte, e perché la nostra «volontà di potenza» (l’espressione, si sa, è del già citato Nietzsche) non sembra capace di accettare limitazioni di sorta, dall’altra parte.
Alla prima questione si potrebbe rispondere mediante la seconda domanda: noi esseri umani ci rendiamo costantemente preda della tentazione idolatrica proprio perché la nostra volontà di potenza mal sopporta d’essere limitata. L’idolatria, in fondo, è la scelta che compiamo quando non tolleriamo di rimanere nell’attesa di una promessa di bene che in certo modo tarda a realizzarsi e che non è in nostro potere controllare nel suo esito positivo, perché dipende dal volere di qualcuno che è altro da noi. Se il qualcuno altro da noi che ci promette il bene (l’appagamento del nostro desiderio di bene) è qualcuno che è infinitamente altro (come Dio è infinitamente altro rispetto all’uomo), il controllo che abbiamo sulla realizzazione di quanto promesso si fa minimo se non tendenzialmente nullo. Non siamo noi a stabilire se la promessa di bene sarà esaudita o meno. Non siamo noi a gestire la cosa, né quanto ai modi, né quanto ai tempi del suo manifestarsi. La potenza divina a cui ci alleiamo e in cui confidiamo non è la nostra potenza. Essa segue le proprie vie e trova espressione in forme a volte difficilmente decifrabili per parte nostra. Da qui deriva l’incertezza, il dubbio, il non vedere bene il disegno all’interno del quale rientriamo, e conseguentemente la necessità di fare affidamento su ciò che ci trascende, correndo il rischio che l’affidarsi in fondo sempre comporta.
La scelta in favore dell’idolo – anche dell’idolo rappresentato oggi dalla tecnica – si pone come alternativa a questa situazione di rischio, di impazienza, di mal sopportata limitazione del nostro volere. L’idolo (simboleggiato dal vitello d’oro dei testi antichi) è in realtà opera nostra. Siamo noi i costruttori dell’idolo. E confidare in esso è in fondo confidare nelle nostre stesse forze. Soltanto che queste nostre forze, nell’idolatria, vengono idealizzate, cioè ingigantite o infinitizzate funzionalmente alla soddisfazione del nostro volere. Il controllo della situazione, in questo modo, torna in mano nostra, perché non dipende più da qualcosa che è altro (o infinitamente altro) rispetto a noi. E le nostre mani – il nostro potere d’azione – si ritengono capaci di tutto, cioè si ritengono dotate di una potenza che in realtà non possiedono ma che è piacevole pensare che abbiano. Nell’immediato, l’angoscia relativa alla mancanza di controllo e alla dipendenza dall’altro da noi sembra essere oltrepassata. In verità essa è solo momentaneamente sedata. Essa torna inesorabilmente a investirci con più violenza allorché la supposta potenza dell’idolo manifesta la sua autentica natura, e così tutti i limiti che l’idealizzazione idolatrica tentava di farci dimenticare. D’altra parte: quante volte anche la tecnica, dalla cui potenza ci aspettavamo solo l’appagamento del nostro volere, ha finito per tradire la nostra aspettativa come non ci immaginavamo che potesse fare? Quante volte anche la tecnica ha finito per farci del male? E quanto male ancora essa ci farà?
Se ora torniamo alla seconda questione sollevata prima, e cioè a chiederci perché la volontà di potenza da cui siamo attraversati mal sopporta i limiti a cui la realtà della nostra natura la sottopone, dobbiamo di nuovo ricordare che, per la volontà che vuole qualche cosa, l’incapacità di ottenere subito e perfettamente la cosa voluta comporta dolore. L’avversione che proviamo nei confronti del dolore o della sofferenza ci fa temere e avversare l’impotenza. Impotenza significa infatti limite del volere. Ma impotenza significa anche dolore. Il rigetto del dolore comporta quindi il rigetto dei limiti a cui la volontà si trova sottoposta. Ma il rigetto dei limiti a cui la volontà si trova sottoposta si configura appunto come desiderio o volontà di onnipotenza. E quando il desiderio o la volontà non tengono più conto della realtà all’interno della quale sono collocati, essi divengono delirio. Quando la volontà di potenza, per fuggire al dolore, nega l’esistenza dei propri limiti, essa diviene deliro di onnipotenza.
Del deliro di onnipotenza tutti quanti possiamo diventare vittime (e strumenti), allorché il dolore causato dai limiti del volere non riesce ad essere affrontato ed elaborato come dovrebbe. La nostra natura, tuttavia, è limitata per una moltitudine di aspetti. Non lo è per il potere di pensare e desiderare le cose del mondo, che appunto è un potere illimitato o infinito. Ma lo è per tutto il resto. Il corpo che ci individua è un corpo determinato e perciò limitato. Il tempo e lo spazio all’interno dei quali ci muoviamo lo sono altrettanto. E il potere di rendere effettuale ciò a cui il nostro desiderio si rivolge è spessissimo subordinato a una serie di variabili indipendenti da noi che valgono come dei limiti imposti a questo stesso potere. Riconoscere e accettare la nostra natura anche nei suoi aspetti finiti, anche nel dolore a cui la finitezza immancabilmente ci espone, riconoscere e accettare tutto questo è allora il primo passo da fare per metterci nelle condizioni di ridimensionare la nostra volontà di potenza e per disinnescare il delirio di onnipotenza che esplode quando la volontà di potenza è lasciata crescere in maniera incontrollata.
Il controllo della volontà è cosa che appartiene alla potenza del pensiero. È infatti il pensiero quella potenza che ci mette fondamentalmente in relazione ad ogni cosa. Il pensiero ci relaziona anche agli oggetti della volontà (alle cose volute) perché mette a fuoco tali oggetti: ce li presenta, ce li fa concepire, ce li fa esaminare fino a che divengono appunto degli oggetti voluti o all’opposto degli oggetti avversati e quindi non-voluti. Se il pensiero non tradisce la verità, se il pensiero si mantiene un testimone fedele della realtà, per la volontà diventa alquanto difficile volere l’impossibile, cioè il non-vero e l’irrealizzabile. E se il pensiero non tradisce la verità della natura umana, per la nostra volontà diventa alquanto difficile volere l’abbattimento dei limiti che ci appartengono strutturalmente in quanto esseri umani. Il pensiero che si relaziona alla verità, in questo senso, è allora la potenza che ci slava dalla tracotanza del volere e dal delirio di onnipotenza a cui tale tracotanza può condurci.
ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA Endoxa settembre 2025 Onnipotenza Paolo Bettineschi
