SULL’ONNIPOTENZA

CARMELO VIGNA

La cifra dell’onnipotenza è notissima, è antichissima ed è solitamente legata alla cifra del divino, quindi all’ambito delle tradizioni religiose. Per traslato, viene da secoli anche usata simbolicamente per indicare situazioni in cui si vuole alludere a una potenza superiore a quella di solito sperimentata. Oggi, ad es., qualcuno scrive che la tecnica ha fatto l’umanità onnipotente. Qualcun altro accenna a un personaggio onnipotente o che si crede onnipotente per alludere a una sua potenza di cui non si scorgono i confini. Nel linguaggio corrente onnipotente può, a volte, essere anche un aggettivo detto della morte o dell’amore. Il senso di questo termine, quindi, oscilla tra l’attribuzione al divino e l’attribuzione – per similitudine – all’umano. Del primo senso ci si può subito sbarazzare. Dio è onnipotente nel senso che può fare tutto ciò che è possibile. Limite (si fa per dire) della sua onnipotenza è… il principio di non contraddizione. Dio non può fare alcunché di contraddittorio per il semplice motivo che una realtà contraddittoria (in senso assoluto) non esiste e non può esistere.

Ma non è questo l’aspetto dell’onnipotenza su cui vorrei dir qualcosa. Vorrei dir qualcosa piuttosto sulla declinazione seconda di questa figura, cioè quella in qualche modo predicata degli esseri umani. Insomma, vorrei dir qualcosa sulla sua declinazione simbolica. È noto, infatti, che non pochi di noi sono detti affetti da “delirio di onnipotenza”. E questo da tempo immemorabile. Basti qui accennare al piccolo racconto di Genesi, 3, dove si narra del peccato dei nostri progenitori, che è un peccato da “delirio di onnipotenza” (se mangiaste di quell’albero … “diventereste come Dio”, dice il Serpente). E di antica tradizione, del resto, che anche la ribellione di Satana all’Onnipotente si sia consumata al grido: “Non serviam!”. Ossia: anche Satana mirava, da ribelle, all’onnipotenza, d’essere, cioè, alla pari con Dio.

Questi richiami biblici mi paiono utili, anzitutto, per congetturare che il desiderio di onnipotenza è (anche) una cifra molto poco “metafisica”. Anzi, è (anche) una cifra molto umana, ossia è una cifra “fisica”. La mitica “torre di Babele” (Genesi, 11), per citare un altro celebre luogo simbolico, ne è la riprova. Ma anche solo a visitare la mitologia greca, non possono non impressionare gli intrecci tra uomini e Dei. Il mito di Prometeo, ad es., va in questa direzione di racconto.

Forse può sorprendere un poco – di contro – un’altra notazione della storia biblica delle nostre origini. Di noi, cioè dei nostri progenitori, si dice che furono creati originariamente a immagine e somiglianza del Creatore (Genesi, 1). E l’unico modo sensato per decifrare tale somiglianza a me pare rammentare che – a differenza di cielo e aria, mare e terra, di vegetali e animali – l’uomo venne creato come un essere pensante (“zoon logon echon” – Aristotele; molto più avanti, nella tarda antichità cristiana, Boezio rincarava la dose e coniava la famosa definizione di “persona umana” come “individua substantia rationalis naturae”, dove “natura” è lo stesso che essenza: dunque, non più un animale che ha il logos, ma un animale che è logos. Così, dal punto di vista speculativo, si cominciava a poter capire qualcosa della ragionevolezza – relativa – del mistero dell’Incarnazione, in un essere umano, del Figlio Eterno. Di cui si dice, in apertura del Vangelo di Giovanni: “En archè en o Logos”; “In principio era il Logos”. E seguitando: “E il Logos era presso Dio. E il Logos era Dio.”).

Ebbene, il seme del desiderio umano di onnipotenza è il seme stesso del logos. Questo è da tener fermo, a mio avviso, per capire qualcosa nel merito. Ma questo seme non è l’onnipotenza reale, bensì solo la notizia dell’onnipotenza, necessariamente implicata nella notizia originaria dell’Intero del senso, che il logos umano possiede in quanto orizzonte intenzionale trascendentale della manifestazione dell’essere. Sappiamo, infatti, (in qualche modo) dell’Intero, sapendo della parte, sappiamo (in qualche modo) dell’Assoluto, sapendo del relativo, sappiamo (in qualche modo) dell’Infinito, sapendo del finito. Poi, che l’Infinito (l’Intero, l’Assoluto) sia o meno la totalità del finito, questo resta da esplorare. Ma sappiamo già, tuttavia, quanto basta per desiderare (in qualche modo) l’onnipotenza.

Desiderare l’onnipotenza è un desiderio possibile o impossibile? La risposta dipende dal tipo di desiderio d’onnipotenza che si intende perseguire. Impossibile, infatti, desiderare di produrre (per “incremento ontico”) da parte del finito una condizione (sua) di onnipotenza (cioè: impossibile che il finito diventi, di suo, infinito; questo implica autocontraddizione. Eppure, non pochi pensatori lo hanno coltivato. Basti qui citare Marx). Possibile, invece, desiderare di avere a che fare con l’Onnipotenza (di un “Dio”).

Gli esseri umani, in effetti, han sempre desiderato qualcosa di simile. Ma questa forma del desiderare del finito non può implicare una “sfida” all’Onnipotenza, come se il finito potesse pensarsi non fondato su altro da sé (se così fosse sarebbe Infinito…, ma è, invece e appunto, un che di finito); può solo implicare il riconoscimento – da parte del finito – di esser fondato in altro (nell’Onnipotente). Dunque, di “dipendere” da quest’Altro. Dunque, di potersi atteggiare solo come, in qualche modo, partecipe – per “grazia” – della potenza altra che lo fonda (cioè dell’Onnipotente).

Trasgredire questa verità metafisica elementare significherebbe coltivare una illusione di onnipotenza che non può non scontrarsi con la verità dell’essere del mondo. Significa, cioè, bruciare qualsiasi possibilità di convenire con l’Onnipotenza reale. E poiché solo il convenire con l’Onnipotenza reale può appagare il desiderio d’Infinito del logos umano (finito), trasgredire questa verità metafisica elementare significa bruciare qualsiasi possibilità di portare alla propria destinazione la finitudine (umana) del logos: che è l’avere a che fare con l’Infinito reale, ossia l’avere a che fare con Dio (Agostino).

Ebbene, il finito umano, privo di questa destinazione, che è, appunto, la sua propria destinazione, è un finito-non-finito (in parte), ossia un finito affetto da quel contrario che è la sua propria privazione. Che cosa umanamente questo comporti nell’esistenza del logos, è di difficile determinazione speculativa. Possiamo solo congetturare, en philosophe, che la privazione di ciò che vorremmo ad ogni costo, e che non possiamo più avere, alluda alla condizione permanente dell’insoddisfazione. E quindi, del dolore…

Diciamola tutta, allora: sbagliare sul significato e sull’esercizio del senso umano dell’onnipotenza sarebbe il tragico assoluto, perché significherebbe fallire la mira sulla nostra possibile e ultima destinazione al compimento dell’umano desiderio d’avere a che fare con l’Assoluto.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA TEOLOGIA

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