DIALOGARE CON SÉ, DIALOGARE CON L’ALTRO: CONTRO LA BANALITÀ DEL MALE

LETIZIA KONDERAK

Tra le formule di Hannah Arendt che hanno decretato il successo accademico e popolare della pensatrice vi è il sintagma “banalità del male”, un termine coniato per descrivere Adolf Eichmann, burocrate nazista, come egli apparve durante il processo a Gerusalemme tra il 1961 e il 1962. In effetti Eichmann si rivelò del tutto refrattario alle accuse, sottolineando che aveva soltanto organizzato la logistica della deportazione e che le sue azioni erano del tutto legali nella Germania nazista. A differenza di molti altri interpreti, Arendt prese sul serio le dichiarazioni di Eichmann e ipotizzò che avessero due radici: in primo luogo, quella che la pensatrice tedesca definì incapacità di pensare come incapacità di mettersi nei panni dell’altro. In secondo luogo, vi è una tendenza ad abbandonarsi alla legge del proprio stato – definita da Eichmann in termini di volontà del Führer, cioè di Hitler. Per annullare l’angoscia morale della scelta, per neutralizzare l’impossibilità di decidere tra il bene e il male, al malfattore banale basta ciò che la legge prescrive: un atteggiamento che, per Eichmann, corrisponde addirittura al rispetto kantiano per la legge morale. Il più radicale nichilismo morale, che ammette positivisticamente che il bene non è altro che ciò che la legge prescrive, si rovescia, nel racconto distorto di Eichmann, nella massima incarnazione dell’eticità.

Lungi dal minimizzare il male compiuto dai gerarchi e burocrati nazisti, come molti vollero intendere, Arendt denunciava nel suo libro piuttosto il fatto che Eichmann non aveva compiuto i suoi delitti perché era un mostro o perché odiasse gli ebrei, ma piuttosto perché non era in grado di riflettere su ciò che faceva, di guardare le sue azioni dall’esterno come fosse un altro. Nello stesso tempo, il sistema di cui egli faceva parte favoriva la sua cecità, legalizzando sistematicamente la violenza, l’oppressione e la distruzione.

Ci interrogheremo circa l’idea arendtiana che il pensiero nasca nel dialogo interiore tra sé e se stessi, che ella intende come traccia o cicatrice del dialogo con l’altro, e ci chiederemo se i tempi in cui viviamo possano essere considerati favorevoli alla comparsa di malfattori banali. In particolare, occorrerà porsi due domande: in primo luogo, si tratta di tempi in cui l’affermarsi dell’identificazione tra legge e bene promuove un’atrofia morale diffusa? E poi, viviamo in tempi che favoriscono il dissolversi di quel dialogo interiore tra sé e sé che, per Arendt, fonda tanto il pensiero quanto l’esperienza morale?

Il dialogo tra sé e sé: all’origine del pensiero

L’interesse per la portata morale del pensiero nacque in Arendt proprio dal processo Eichmann: assistendo all’imputazione del funzionario nazista, ella avrebbe maturato l’ipotesi che l’abitudine di riflettere, di tornare criticamente sulle certezze comuni e di esaminare le proprie azioni possa promuovere l’astensione dal fare il male. Lo stesso termine coscienza, nota l’autrice, che per lo più indica la “coscienza morale”, richiamerebbe, in realtà, il fenomeno del conoscere assieme, cioè il fatto che la conoscenza è sempre accompagnata da un altro io che conosce assieme al sé, come se ciascuno avesse in sé un amico che lo accompagna continuamente.

Arendt afferma che il due-in-uno che ciascun uomo è quando pensa è la base della nostra esperienza morale. Infatti, per lei, l’esperienza morale è radicalmente solitaria e perfino egoistica: essa si risolve nel rapporto dell’io con se stesso e nella cura che ciascuno gli rivolge, nella consapevolezza di dover condividere per sempre la vita con quest’io. Quando compiamo un’azione immorale, uno dei due io che abita in noi rigetta l’altro, condannandoci all’insopportabile condanna di noi stessi. Peraltro, questa è anche la condizione del pensiero: perché il pensiero possa avvenire, occorre che i due io che animano la vita della mente siano in accordo tra loro, liberi dal tormento della reciproca deprecazione.

Tuttavia, è proprio perché l’io è squarciato in due, in due io che si riflettono l’uno nell’altro, che la contraddizione può insinuarsi al cuore dell’io: i tormenti descritti dal Macbeth o dal Riccardo III di Shakespeare non sarebbero possibili se l’io non dovesse guardare nel proprio abisso, terrorizzato dalla prospettiva di vedervi un assassino. In tal senso, quello che Arendt considera il principio politico per eccellenza, la pluralità, ha luogo non solo nel discorrere plurale che avviene nel mondo ma anche nel dialogo silenzioso del pensiero: l’amicizia con gli altri e l’amicizia interiore sono le condizioni delle due forme di discorso. Non a caso, Aristotele sosteneva che l’amico è un altro se stesso: curare moralmente il proprio sé significa scegliere il compagno con cui condividere la vita, allo stesso modo in cui tale scelta riguarda l’amico al di fuori di noi.

Un altro esempio è quello offerto dal celebre daimon socratico: la preoccupazione di Socrate per l’armonia col sé è indice della dualità dell’io, poiché solo tra due elementi vi è la possibilità di disarmonia. Socrate, tormentato eppure salvato dal daimon che sempre lo immobilizza, impedendogli di compiere il male, torna uno quando è di fronte agli altri, mentre, quando è solo, si scinde per divenire compagno e giudice ineludibile di se stesso. Ed è in questo momento che l’abitudine a pensare, a esaminare le certezze irriflesse e il proprio comportamento rivelano una portata morale: la rinuncia a fare il male nasce dall’abitudine al dialogo interiore. Quello che sembra il solipsismo dell’io rinvia alla pluralità mondana, al rapporto con gli altri: per questo, Arendt definisce il pensare come la capacità di mettersi nei panni altrui.

A questo punto, occorre chiarire che i due in dialogo nell’uno richiamano due diverse dimensioni temporali dell’io: il nucleo imperscrutabile o impersonale del sé, che Arendt chiama “io penso”, vive nella pura sfera del pensiero e le sue esperienze sembrano testimoniare dell’eternità di questo regno, straniero al mondo comune. L’altro io, che si rapporta a questo sé fuori dal mondo, è l’io della riflessione, un io capace di tornare su di sé a partire dal mondo. Questo io della riflessione rappresenta nel pensiero la pluralità mondana.

Tuttavia, molti filosofi e la maggior parte delle persone tendono a interpretare la voce di questo io come una legge morale che proviene dall’esterno, un imperativo conculcato dall’educazione. Infatti, per Arendt, l’esperienza morale fondamentale è stata ricoperta in molti contesti culturali dall’imperiosità di una legge che prescrive la condotta socialmente accettabile. Per lei, invece, la coscienza è l’interno dialogo tra i due in cui si articola l’uno, laddove uno dei due accompagna costantemente ciò che ciascuno fa, oggettivandone le azioni: per Arendt, l’io della riflessione non è l’interiorizzazione della legge morale o statale, ma dello sguardo spettatoriale mondano.

In questo modo, l’esperienza morale solitaria del prendersi cura del compagno col quale passeremo tutta la nostra vita rivela un duplice significato politico, per così dire, indiretto: da un lato, l’io che riflette sul sé è una sorta di guarnigione lasciata in ciascuno di noi dagli altri che incrociamo e con cui ci relazioniamo nel mondo. In secondo luogo, l’altro, l’amico con cui condividiamo la vita o colui che mai vorremmo diventare, è colui cui si raffronta il proprio io, ed è questo che impedisce di fare ciò che renderebbe tale io insopportabile alla propria vista interiore. L’io della riflessione risente della forza oggettivante del mondo; l’io riflettente sottopone l’io astorico e atemporale, il nucleo profondo del Sé, all’oggettivazione e quest’ultimo impara a trattenere l’altro, portandolo a riflettere sulle certezze scontate, sull’io che esso diventerebbe se agisse male o tradisse il proprio sé. Tra i due si insinua la storia dell’io, che rischia di macchiare ineluttabilmente entrambi e di impedire il loro dialogo, poiché ciascuno inorridirebbe a guardare l’altro.

Da queste riflessioni arendtiane sul travagliato dialogo interiore tra sé e sé come origine dell’esperienza morale possiamo desumere due aspetti fondamentali della capacità di fare il bene e di fare il male: in primo luogo, per Arendt, sebbene l’esperienza morale sia privata, essa rinvia necessariamente all’altro, poiché il dialogo interiore è traccia o segno, residuo del dialogo con gli altri nel mondo. In secondo luogo, il pensare stesso è pericoloso perché mette in dubbio le certezze acquisite e le convinzioni irriflesse, e pone in questione la coincidenza tra legge e giustizia. In questo modo, esso apre la possibilità di disobbedire. Ma allora, cosa mancava ad Eichmann? Perché egli era incapace di pensare?

La banalità del male: il pensare e la capacità di mettersi al posto degli altri

Alla luce di quanto detto, torniamo ora a Eichmann, l’uomo incapace di pensare e, perciò, in grado di perpetrare crimini efferati obbedendo agli ordini, senza alcuna intenzione di nuocere. Arendt nota che Eichmann, durante il processo a Gerusalemme, proclamò di essersi attenuto, quanto alla forma generale del suo agire, alla morale kantiana, abbandonandosi alla legge del suo paese, che in quel momento era incarnata nella volontà di Hitler. Pertanto, per Eichmann, l’accusa di omicidio era infondata, poiché le sue azioni erano sempre state legali. In effetti, come nota Arendt, molti criminali nazisti non avrebbero mai commesso un delitto al di fuori di uno stato criminale.

La formula “banalità del male” descrive l’inconsistenza di Eichmann, l’idiozia delle formule che ripeteva in una vuota collezione di cliché: l’ipotesi di Arendt è che la malvagità possa essere causata dall’assenza di pensiero. A tale vacuità, Arendt oppone la negatività dell’esperienza morale, ossia la sua totale inefficacia mondana: come il daimon di Socrate fermava continuamente il filosofo, così il due-in-uno in noi mette in dubbio ogni intenzione, costringendoci a riflettere prima d’agire. È quanto probabilmente Arendt avrebbe preteso da Eichmann e da tutti coloro che collaborarono col nazismo: fare la cosa giusta, soprattutto in tempi difficili e perfino bui, non esige grandi gesta eroiche. In queste situazioni è sufficiente ritrarsi dallo spazio pubblico: questa è l’unica possibilità per coloro che non vogliano rendersi complici di crimini legalizzati: è in questi momenti che il rapporto tra le due parti dell’io deve attivarsi, e la morale socratica assume una rilevanza pubblica, sebbene nei termini della rinuncia ad abitare lo spazio pubblico. Peraltro, se tutti i collaborazionisti avesserorinunciato a obbedire, il potere sarebbe divenuto inefficace, poiché nessuno avrebbe eseguito quegli ordini. In tal senso, sebbene, per Arendt, la cura per la propria anima non abbia spazio in politica – come Machiavelli suggeriva al principe, che doveva esser disposto a rinunciare alla salvezza dell’anima per il bene dello stato – nella rinuncia all’azione in tempi disastrosi il solipsismo morale assume un peso politico cogente.

Per Arendt, quando i regimi totalitari sovvertirono tutti i valori tradizionali, non furono i rispettabili cittadini, i padri di famiglia ligi al dovere, i diligenti impiegati interessati a far carriera, a cogliere l’orrore di quanto si preparava all’orizzonte: costoro sostituirono semplicemente un sistema di valori con l’altro, i precetti del Vangelo con la programmatica esecuzione di milioni di uomini e sottomettendosi acriticamente alla nuova legge. Al contrario, furono gli “irresponsabili”, coloro che avevano deciso di astenersi dalla connivenza con i nuovi regimi, a non lasciarsi soggiogare dal nuovo ordine. Tutto ciò dipese dal fatto che essi erano consapevoli di dover convivere con se stessi e di non poter sopportare la vista di un assassino o di un criminale. Proprio la pratica del dialogo interiore, l’abitudine a trascorrere del tempo con se stessi, è quindi, per Arendt, la condizione per sviluppare la capacità morale.

In conclusione, un’esperienza di sottrazione al mondo comune, ed essenzialmente impolitica come il pensiero, ha per Arendt una sorta di effetto etico collaterale: il pensiero non “scopre” il bene né produce valori. Tuttavia, nei casi eccezionali in cui sulla sfera pubblica incombe il male, l’aporeticità del pensiero assume un carattere vistoso, poiché impone una ritrazione dal mondo e il rifiuto dell’obbedienza.

Giungiamo così a chiarire il celebre tema della banalità del male. Eichmann, lo ripetiamo, non appariva come un mostro, ma come un individuo superficiale, le cui malvagità non rispecchiavano un animus nocendi. In questo modo, il criminale banale e incapace di pensiero ha contribuito al male radicale compiuto dal totalitarismo, ossia la distruzione della pluralità umana nei campi di concentramento.

Possiamo quindi tornare al due-in-uno: come da un punto di vista politico è il mondo tra gli uomini a lasciar apparire chi ciascuno sia, così lo spazio tra i due che dialogano nel pensiero genera l’identità, attraverso il gioco di specchi di pensiero e riflessione, esposizione al proprio sguardo interiore e abitudine a ritornare sul passato. La personalità appassisce per la scomparsa di uno dei due poli, da cui consegue la perdita del “fra”: è quanto accaduto ad Eichmann, il criminale banale, in cui l’abbandono al mondo, la totale fiducia nella legge hanno generato un mostro incapace di guardarsi come dall’esterno, di rapportarsi al proprio sé come a un altro.

Siamo in un’epoca di banalità del male?

Da ultimo possiamo chiederci: i tempi che viviamo sono tempi fertili per il male banale? Per rispondere a questa domanda occorre considerare due elementi: da un lato l’origine dell’abitudine alla riflessione. In secondo luogo, vi è il problema di ciò che la legge prescrive. Per quanto riguarda la prima questione, Arendt non riteneva che la capacità di pensare fosse legata a eventi politici, al livello d’istruzione o alla situazione sociale: essa emerge puntualmente e in tutti i gruppi sociali, quasi fosse un dono imprevedibile. Cionondimeno, nel reportage su Eichmann, ella sottolinea come la resistenza alle deportazioni incontrata dai nazisti in alcuni paesi occupati (come Paesi Bassi, Danimarca e Norvegia) risvegliò alcuni di loro dal torpore dell’assenza di pensiero, costringendoli a fare i conti con l’orrore commesso. In tal senso, l’antidoto all’assenza di pensiero è un surplus di dialogo, con l’altro e con noi stessi.

La seconda questione, dal campo morale, sfocia nella filosofia politica e del diritto. In particolare, Arendt pone l’accento sulla pericolosità nichilistica di affidarsi alla legge quale fonte del bene, considerandola l’unico criterio per decidere del giusto e dell’ingiusto. Riecheggiando alcuni passi di Walter Benjamin, Arendt mostra di esser ben consapevole che anche la legge può celare la violenza. Potremmo quindi richiamare l’esempio di Antigone, figlia di Edipo, pronta ad accettare le conseguenze terribili dell’aver infranto la legge della città per dare degna sepoltura al fratello Polinice – per lasciar emergere e rispettare un più alto senso della giustizia. L’antidoto contro l’abbandono alla legge è, sembra suggerire Arendt, la rinuncia all’obbedienza quale virtù politica fondamentale, per abbracciare l’astensione dall’azione e perfino la disobbedienza quando tale gesto collettivo prometta di salvare miracolosamente il mondo.

ENDOXA - BIMESTRALE FILOSOFIA

Lascia un commento